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“Amarcord…la neva, i frin, i fartlot. E quel candore speciale”

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La scrittrice Normanna Albertini negli anni 70

Da Soraggio, nel ’62, quando ho iniziato le elementari, si andava a scuola a Gombio; seguendo il tracciato della Provinciale che va a Trinità sono circa tre chilometri. Tuttavia, noi bambini prendevamo gli “scurtoni” in mezzo ai boschi. Un reticolo di sentieri e carraie che conoscevamo bene perché, allora, i bambini seguivano gli adulti fin da quando cominciavano a camminare: anche le mamme e le nonne lavoravano nei boschi a fare la legna, pulire i castagneti, raccogliere le castagne, e i figli erano con loro.

Dunque, il tragitto per Gombio lo conoscevamo bene e, ogni mattina, si partiva in gruppo.

C’era chi aveva già sui 15 anni (bocciato e ribocciato) e chi solo sei; il viaggio era un’avventura e credo che i bambini, davvero come gli ubriachi, abbiano un santo che prega per loro, visto che, a parte qualche bernoccolo in testa per guerriglia di sassate, nulla di veramente grave è mai successo. Quando pioveva, le mamme, ovviamente a piedi, ci venivano incontro con quei grandi ombrelli neri che gli ombrellai, ogni tanto, passavano ad aggiustare. Noi, ai piedi, calzavamo stivali di gomma neri (pure quelli) con dentro due o tre paia di calze di lana fatte a mano; erano due o tre numeri in più, perché altrimenti mica ci stavano le calze; così, magri com’eravamo, sembrava che avessimo dei piedi enormi.

Poi nevicava. La maestra Antonietta abitava a Gombio e non aveva problemi.

La maestra Alda, invece, che prima veniva dal Feriolo con la vespina (spesso pure a piedi!) si fermava a Gombio a pensione presso una famiglia, ma noi continuavamo il nostro tragitto in assoluta normalità. Si fa per dire.

Certo, quando nevicava, mica ci si andava a scuola!

La borgata di Gombio in una cartolina di anni fa

Troppo pericoloso anche per degli adulti rischiare di perdersi in mezzo alle “gonsedre”, quelle specie di dune di neve ammassata dal vento che potevano raggiungere anche due metri e più, figuriamoci per i bambini!

Si stava a casa e si mettevano in giro i “frin” per prendere gli uccellini… che poi non è che ci fosse molto da mangiare in quei poveri passeri, ma non erano male con la polenta.

Chi, come me, aveva il nonno cacciatore, aveva anche la fortuna di seguirlo nel capanno d’appostamento del “panione”; esperienza unica, perché c’era un focherello acceso e si stava lì ad aspettare che gli uccellini rimanessero invischiati nelle panie.

Miracoloso, quel vischio, che avevo visto mettere a “maturare” sotto il letame tempo prima.

Dunque si stava a casa e si aiutava a spalare, a portare in casa la legna, l’acqua potabile (che bisognava, comunque, andare a prendere ad una fontana), quella per lavarsi (tirata su dal pozzo o recuperata dal grande mastello d’alluminio posto sotto la grondaia).

I bambini più bravi aiutavano anche nella stalla e le bambine, comunque, in casa avevano sempre, fin da piccolissime, qualche compito da svolgere, che nelle famiglie contadine si usava così.

Gli uomini organizzavano le spalate e cercavano di fare la “rotta” tra i vari paesi, soprattutto quando c’era ancora un po’ di latte da portare al casello perché mica tutte le vacche erano prossime al parto, (nel qual caso il latte si teneva in casa e, ogni giorno, c’era quel grosso pentolone in cucina da cui poi si doveva tirar su la cagliata da spremere per ricavarci quei formaggini di sapore unico, soprattutto strinati sulla stufa e disfatti sulla polenta).

Poi, appena smetteva la bufera, si tornava a scuola.

Ma mica per la strada. No, si prendeva per i campi.

Non so perché, ma la neve, allora, gelava e diventava dura come il cemento; così ci si camminava sopra senza sfondare ed era una meraviglia partire alle sette del mattino, appena la mamma era tornata dalla stalla.

Si afferrava la cartella di cartone (robusta come fosse di cuoio) dove c’erano un sussidiario, un libro di lettura, un astuccio, due quadernini e un piccolo panino con l’affettato del maiale di casa o una mela dei nostri campi conservata in solaio (o, a volte pure un uovo sodo) e si diceva sì alla mamma che ti chiedeva mille volte se avevi preso il fazzoletto da naso.

Poi ci si lanciava giù per i campi, respirando l’odore umido dei boschi, incuranti del gelo sul viso che, però, spesso era così screpolato da sanguinare.

Le discese più ardue si superavano semplicemente appoggiando la cartella sulla neve; su quell’improvvisata slitta ci si sedeva e poi… giù!

Non oso immaginare in che condizioni arrivassimo a scuola, ma la maestra Alda era una mamma, oltre ad essere una splendida insegnante, ed era figlia di gente semplice, come noi, perciò ci capiva.

Le battaglie a palle di neve e i “cristi” che i più deboli dovevano subire durante il tragitto, oltre alle cartelle recuperate nei fossi, si sprecavano.

Una volta l’ho pure dimenticata in mezzo ai castagni, la povera cartella, e sono tornata indietro a prenderla. Poi, più avanti, in quinta, il maestro Nello, che aveva sostituito Alda, modernamente arrivava con una fiammante “Bianchina”; pure d’inverno, con le catene.

E ci caricava, cioè: ci stipava all’inverosimile, uno sull’altro, però lasciando comunque un bambino a piedi, che proprio nella mastodontica vettura non ci entrava. Così, a turno, uno di noi se la faceva a piedi da solo. Che era molto meno divertente, ma era l’inizio dell’era moderna e della solitudine individualista d’oggi.

Vennero le medie e a Felina ci portava Lillo Tommasi, il “servizio pubblico” di Gombio.

Aveva un macchinone lungo, ma anch’egli ci stivava come sardine nella scatola e non ricordo in quanti riuscivamo a stare su quell’auto.

Allegria era viaggiare con Lillo, anche sulla neve.

Ci insegnava le canzoni da osteria e le cantavamo insieme a squarciagola, tanto che le note dello “spazzacamino” che va su e giù per le contrade si combinavano perfettamente col paesaggio innevato e con le strade delimitate da muri di neve.

C’erano ragazzi, come Adelfo e Ornella, che avevano comunque un bel po’ di sentieri e strade da farsi a piedi per raggiungere il punto in cui Lillo ci raccoglieva, ma era normale così.

A nessuno veniva in mente che fosse dovere di qualche istituzione pensare al trasporto degli scolari: Lillo lo pagavano le nostre famiglie, così come pagavano il seminario di Marola per i ragazzi che avevano scelto di frequentare là la scuola media. E allora erano ancora tanti.

Un giorno, era forse il ‘66/’67, cominciò a nevicare così forte che, quando Lillo venne a prenderci, le strade erano già quasi impraticabili.

Bene o male, riuscimmo ad arrivare con la macchina fin verso Predolo, in mezzo ad una bufera che impediva la visibilità e cancellava ogni punto di riferimento.

Poi scendemmo a Soraggio, ma da lì a Gombio era impensabile proseguire.

Credo di ricordare (ma forse sbaglio) che Lillo sia andato giù a piedi con la più grande delle ragazze trasportate, Mariapia, mentre le altre rimasero a Soraggio, ospitate dalle famiglie.

Soraggio restò isolato per cinque giorni buoni, forse una settimana.

La neve arrivava al primo piano delle case e si girava per il paese in una specie di labirinto di sentierini/gallerie che univano le stalle e i pollai alle case.

Perché le galline e le vacche dovevano pur mangiare, le vacche andavano munte, e l’acqua delle “pilette” andava fatta scongelare.

Non era un gran problema il rifornimento di cibo, anche perché si mangiava molto meno.

In casa, di solito, c’era abbastanza farina per il pane per almeno una settimana; c’erano le uova, c’era la roba del maiale ammazzato durante l’inverno, c’era il latte delle vacche, c’era la scorta di zucchero e sale, c’erano le prugne e le amarene fatte seccare durante l’estate e conservate nei cartocci ben nascoste ai bambini ingordi; c’erano le mele distese sul pavimento del solaio.

C’era pure il savurett, c’erano le castagne secche e c’era la farina di castagne con cui fare dei bei “fartlot” che così buoni non li ho più mangiati.

Poi c’erano, sempre di scorta, le saracche, il baccalà e le patate.

Una bella scodella di latte e pane alla mattina e alla sera, una minestra o una pasta o una polenta o un risotto a mezzogiorno e la pancia era piena.

Perdemmo una settimana di scuola, quella volta, eppure. Siamo qui, meno analfabeti di altri che avevano molte più possibilità e stimoli culturali di noi.

Siamo qui, ringraziando la maestra Alda e il maestro Nello, meravigliosamente umili nella loro professionalità, sempre profondamente umani. Capaci di camminare con noi nella neve.

Siamo qui, ringraziando Lillo e la sua allegria che ci dava sicurezza; ringraziando tutti i santi che, da lassù, sicuramente, proteggono gli ubriachi, i pazzi e i bambini e in cui i genitori di oggi, pare, confidino meno.

30 COMMENTS

  1. Ringrazio personalmente Normanna per questo scritto. Nell’era del tanto discusso Facebook accade di scambiarsi opinioni e “chiacchierare” degli ultimi eventi. Così tra un commento alle nevicate, alle chiusure delle scuole e ai tempi che furono ho chiesto a Normanna, oltre che scrittrice anche storica, di scrivere una memoria, un ricordo di una sua nevicata. E dopo un tempo brevissimo ecco qual è stato il frutto del suo ricordo, in cui con naturalezza ha tracciato un ritratto di sapori, colori e sensazioni tali da far rivivere a chi legge un momento vero. A volte le magie nascono proprio così, dalla semplicità, da due chiacchiere e un invito. A chi ha tanti racconti conservati dentro basta una richiesta e ne scaturisce un dono. Che bello.

    (Ameya)

  2. Questa mattina un tuffo, da Milano, nella mia infanzia.
    La ricordo anch’io la nevicata del 66/67 che a Villa ci blocco’ per qualche giorno!
    Grazie Normanna per questi lontani ricordi!
    Senza strumentalizzazioni, come qualcuno scrive, e’ possibile ricordare
    come e’ possibile vivere in armonia con la natura senza dover obbligatoriamente scovare il ‘colpevole’ del fatto che in inverno, e in montagna,
    qualche volta, grazie a Dio, ancora nevica!
    g.

  3. Grazie Normanna,non ti conosco ma ti apprezzo,hai l’età di mia moglie,donna che stimo ed amo infinitamente anche per questi che chiamo valori, senza nulla togliere alle nuove generazioni ma…dove sono finite queste donne figlie di contadini senza la puzza sotto al naso?
    Io sono di tre anni più “anziano” ma ho vissuto le cose che descrivi così bene, gli uccellini presi col vischio (ai palmoun), quelli con le trappole (nikar i fer), le mele conservate nel solaio, la strada a piedi per raggiungere la scuola ecc.ecc.
    Grazie per avermi fatto rivivere per qualche istante quei tempi.

    (Lucio)

  4. Cara Normanna hai saputo, come sempre con i tuoi racconti, sospendere il mio tempo, già diradato dal biancore e dal silenzio della neve.E con te mi sono tuffata nell’infanzia, ritrovando parole, gesti, bellezza e fatica dimenticati. Quando nel fare memoria non c’è nostalgia, la memoria ci alimenta, ci nutre e ci fa stare bene. Qualcuno mi ha ricordato che nella parola greca “aleteia” sono compresi i significati di memoria e di verità. Bello vero! E dunque bisogna averne cura e trasmetterla: “O ragazza dalle guance di pesca/ o ragazza dalle guance d’aurora/io spero cha a narrarti riesca/la mia vita all’età che tu hai ora”.(I.Calvino)

    (Fiorella Ferrarini)

  5. ……e i geloni ai piedi, perchè giocavamo con la slitta nel campo dietro casa, e non c’erano i doposci, poi la stufa accesa e le frittelle di mele che faceva mia mamma, il silenzio della strada; mi rendo conto che abbiamo vissuto come nelle favole e tu hai fatto riaffiorare i ricordi e ritorno ancora bambina. Grazie Normanna.

    (M.Claudia Cotti)

  6. Grazie Normanna, anch’io non ti conosco ma attraverso il tuo racconto così semplice e pulito mi hai fatto percorrere momenti indimenticabili della mia infanzia trascorsa a Villa Minozzo perchè anche lì tutto era come nel tuo racconto,tanta semplicità ma tanta umiltà. Grazie ancora

    (Luisa)

    • Gentile lettrice,
      secondo il vocabolario dei dialetti del medio Appennino reggiano “Fartlot, Fertlot è una frittella di castagne tipica di carnevale”; le parlate della nostra montagna sono tantissime e cambiano anche a pochissimi chilometri di distanza, soprattutto per quanto riguarda le vocali.

      Red

  7. Normanna, com’e’ bello e fresco il tuo racconto!
    quanti ricordi anche per me che sono delle Marche,quante cose in comune e qualche particolare diverso: da noi non c’erano le castagne e non avevamo stivali di gomma ma gli “zocchi” che erano scarpe con la tomaia di cuoio e la suola di legno che nostro nonno faceva per noi.
    ciao a presto

    (Maria Carloni)

  8. Salve Normanna. Aggiungo al tuo bel racconto quanto segue…Tanta neve e tanti stalattiti di ghiaccio sotto le grondaie hanno destato grande stupore, perché la gente ha dimenticato i proverbi: “Farvarìn curt curt , lè pesz che un turk. L’invèren en là mai mangia i can.”

    (Angiolina Casoni)

  9. Grazie Normanna, sono tornata bambina per qualche minuto. Ho ricordi bellissimi della mia infanzia sulle colline reggiane, quando cadeva la neve sembrava tutto magico e tutto era al rallentatore. Ricordo il grano messo fuori dalla finestra per gli ucellini e le stalattiti di ghiaccio dal tetto. Un bacio.

    (Vanda Berretti)

  10. La grande nevicata interessò l’intero Appennino tra il 4 ed il 6 dicembre 1966. Un mese prima vi era stata l’alluvione di Firenze. Un mese dopo vi fu un’altra storica nevicata sulla romagna (foto di Rimini con 1 metro di neve). All’epoca nessuno aveva ancora detto al Clima che per cambiare doveva aspettare il riscaldamento globale… ancora oggi, di tanto in tanto, gli pare di esser guidato da cicli naturali vecchi come il mondo… poi accende la TV.

    (Andrea Bertolini)

  11. Grazie Normanna per averci ricordato la società di allora intrisa di solidarietà, di valori etici “comuni” e di amore per la vita. A volte si ha l’idea che l’esperienza del tempo che fu appartenga ad “un’epoca storica eroica” sganciata da quello che si sta sperimentando oggi. Allora si viveva con meno mezzi materiali, ma forse si era più felici!! Valori questi di prorompente attualità. Non occorre inventarsi altro per vivere una vita a dimensione d’ uomo e di donna…

    (Luca Ferri)

  12. Ciao, Normanna.
    Da dove mi trovo ora sembra quasi irriverente intervenire per parlare delle meganevicate della nostra infanzia. Quaggiù giriamo sui trenta gradi, con una umidita’ che fa fumare le pseudostrade di questo angolo di mondo.
    Leggendoti ho risentito sulla pelle quanto mi succedeva nel rientrare a Castellaro, dopo la scuola, lungo i tratturi che univano Maiola al mio borgo, quando la coreografia era dettata dal vergiàs, quando le manopole non adempivano al loro compito e le dita venivano punzecchiate dai martlîn, le orecchie volevano scoppiare e i piedi vogavano alla ricerca di un punto stabile.
    I miei paesani, di preferenza, ponevano al parmun proprio alle Prade,di fronte a Soraggio, poco sopra al rio Maillo. Da lì passavano tutti gli uccelli migratori. Forse li guidava una corrente speciale. Tutto sommato, a quei tempi, anche i magrissimi paserotti, le sicche, gli storni, davano un sapore diverso, amarognolo, alla solita polenta. Chi ci può garantire che Polenta e osèi è una ricetta solo veneta? Quando li gustavo non sapevo neppure che il veneto esistesse.
    Grazie per avere ritirato a lucido momenti della infanzia, bella o brutta non importa più.

    (Savino Rabotti)

  13. Da brividi sulla pelle…e non per la neve! Uno spaccato di storia, di vita e umanità a cui non siamo più abituati, così presi dai problemi e dalle “solitudini”, tanto che non sappiamo più guardare al cielo con un sorriso e aspettare che la tormenta passi…magari scaldandoci al fuoco o in un abbraccio….
    chiara

  14. Sai che pensavo , dovremmo ringraziare per questa neve che ci ha slegati dagli obblighi, anche i più ubbidienti, che dopo qualche resistenza si sono trovati il pensiero slegato pure lui. Non proprio libero ma quasi, spesso ha imboccato la via dei ricordi, la più vicina alla gratitudine, perchè la tanta neve era appunto l’infanzia, ma senza la malinconia, la neve é qui!

    (Patrizia Pizzirani a Verenna Ferrarini a commento del racconto)

  15. Bellissimo, fa riaffiorare ricordi meravigliosi di vita vissuta senza troppe storie, dove la neve si aspettava con ansia da noi bimbi per poterci giocare, non avevamo tute, guanti e dopo sci ma ci si divertiva da matti. Sarebbe bello raccogliere tutti questi ricordi e farli partecipi ai nostri bimbi che oggi con troppe comodità non apprezzano più nulla.

    (Roberta)

  16. Cara Normanna, hai descritto una panoramica della neve di montagna con
    semplicità, ma precisa e puntuale; una lezione di vita da tramandare ai giovani. Erano tempi “puliti” e i genitori si fidavano a fare andare da soli e a lasciarci in casa da soli.
    Mi è piaciuto anche l’inserimento di vocaboli dialettali che mi erano sfuggiti.
    Io sono sempre stata “piccola” di statura e ricordo un anno che l’8 di maggio arrivò una nevicata enorme a Castelnovo Monti e ai lati della strada era così alta che mia madre non mi vedeva. Grazie dei ricordi e complimenti.

    (Ilde)

  17. Normanna, sono entusiasta di aver letto questo brano come lo sono stata di averti conosciuta, scrivere uno spaccato di vita così semplice senza cadere nello sconto e nel banale, è capacità riservata a scrittori veri..spero di leggere ancora cose come questa di cui nessuno parla più e perchè no, anche un libro su questo “partigianato” che è stata la nostra infanzia…

    con affetto

    (Simona Sentieri)

  18. E’ lo spaccato della vita rurale dei bambini di quell’epoca, in montagna pressoché tutti coloro i quali hanno frequentato la scuola elementare negli anni Sessanta, si riconoscono in questo racconto che hai raffigurato in modo inequivocabile. Io, che ho iniziato le elementari nel 1967, posso dire che cambiano i protagonisti e i luoghi, ma le situazioni sono pressoché identiche. Brava, brava, brava.

    (Danilo Albertini)

    • Firma - Danilo Albertini