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La satira in montagna / 5

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La nostra scorribanda prosegue lungo il Rio Maillo e il Tassobbio. Sul percorso troviamo il Mulino Rosati. Dal 1914 circa, (anno in cui Giuseppe (Pepīno) Rosati lo costruì in una spianata alla sinistra del Rio Maillo, detta Al Búj), fino agli anni ’50 vi abitavano i fratelli Rosati alcuni dei quali poi si sono trasferiti a Castelnovo, e da lì in altre località. Tra questi fratelli c’era Enrico. Da giovane si guadagnava da vivere andando ad Opera presso i contadini vicini che potevano assumere lavoratori. “Andâr a òvra” o “A-gli Òvri” consisteva in una prestazione di lavoro nei momenti cruciali (fienagione, mietitura) che veniva remunerata o con il vitto e un poco di soldi o col cambio di prestazione.

Enrico ha scritto anche delle satire su episodi particolari degli anni appena posteriori alla guerra. Ma, anche queste, sono andate regolarmente perse. Il linguaggio però è ... per adulti, e la forma non sempre fluida ed armoniosa.

Vorrei invece ricordare Enrico per un altro fatto. Lo vedevamo ogni tanto posare gli attrezzi e accovacciarsi per scrivere qualcosa su qualsiasi pezzo di carta che gli capitasse a tiro. Erano i momenti in cui componeva i testi delle Maschere. Anche questi componimenti non sono arrivati a noi. Pure le Maschere, a modo loro, erano satira. Solo che a recitarle c’era una compagnia, non l’autore da solo. Magari la compagnia era rimediata, ma serviva comunque a tener viva una tradizione letteraria che, quassù da noi, è sopravvissuta fin verso il 1950. Ora vi sono gruppi che l’hanno ripresa come folklore nel reggiano e nelle provincie vicine. Di Enrico cito due quartine prese da Le elezioni del 1996, purtroppo ancora attuali.

 Fra governanti e dirigenti,

           sia del presente che del passato,

 scagli la prima pietra

     chi non ha mai rubato.

 Un invito a tutto il popolo

per le prossime elezioni:

     non date mai più il voto

       

a quelle sporche persone.

Spostandoci più a valle arriviamo al Mulino Zannoni. Qui, nella prima metà del secolo scorso, operava Eufranio Guidetti, di professione contadino. Sappiamo però che non sapeva scrivere, e allora, quando l’estro gli suggeriva qualcosa di interessante, lasciava il lavoro dei campi e correva da un vicino che invece sapeva scrivere, gli recitava alcune strofe poi diceva: Scrivi quella che ti sembra la più bella! Di Eufranio conosco solo un frammento su un episodio accaduto a Gombio, in località le Ottole. Un marito piuttosto duro di cervice, oltre a tante altre corbellerie, maltratta la moglie fino ad arrivare allo scontro armato ... di mattarello e soffione:

 .........

          Non molti giorni or sono

quel porco di Bišīna

            ha preso a cannellate (*)

la povera Cristina.

             E pinf e punf e panf,

                               sopione e poi cannella   (**)

                             finché testa pelata (Bišîna)

                 perdeva le cervella.

Per concludere poi con la morale:

Un padre sciagurato,

indegno di tal nome,

con identici scrupoli

       uguali ad un leone. (***)

Meraviglia un po’ che un analfabeta si impegnasse a scrivere versi in un quasi-italiano che gli è del tutto estraneo: in casa si parla dialetto; la scuola Eufranio non l’ha potuta frequentare. C’è una sola spiegazione: emulare istintivamente le romanze che gli alunni del tempo imparavano a memoria (e per facilitare l’apprendimento si studiava a voce alta) e che anche Eufranio potrebbe avere ascoltato, a cominciare da quel Cinque maggio, la cui metrica è di facile imitazione.

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(*)     Si tratta del mattarello, in dialetto canèla da la sfujâda.

(**)   Sopione: altro termine dialettale: Supiûn, usato per riattivare  il fuoco.

(***) Leone: bestia feroce, senza cuore, usato per assonanza con nome.

 

1 COMMENT

  1. Mio zio Enrico non era un gran letterato, ma il fatto che ogni tanto si appartasse a scrivere mi rende orgogliosa, visto che allora pochi sapevano farlo e se si appartava sembra lo facesse con passione. Era uno zio un po’ strano nei miei ricordi. Parlava poco, voce bassa, magrolino, stava volentieri al buio, forse
    la luce della lampadina. Dava fastidio ai suoi occhi chiarissimi. La prima volta che lo vidi portava un paio di scarpe bianche con la punta ocra, ricordo che guardavo solo quelle. Mia madre disse che erano eleganti, ma occorreva portarle con vestito diverso da quello che portava Enrico… E’ strano ricordare le cose che ci colpiscono da bambini.

    (Ilde Rosati)

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