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La satira in montagna / 10

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la-satira13Giuliani Dino Alessandro (1908 – 1992)

Di questo autore conosco una sola satira, composta in una occasione un tantino singolare. La sua fidanzata, Rodolfa, era andata a servizio a Milano per potersi preparare la dote e sposare Dino. Il padre di lei però tenta il colpo gobbo. Chiede alla figlia di depositare i soldi sul proprio libretto. Lo scopo? Chiaro, no?

Ed Enrico a lei diceva:

“Dammi pure, figlia mia,

tutti i soldi guadagnati.

Io li tengo in allegria.

Io li metto alla posta

e sicuro in questo sono:

che il libretto è in mia testa

ed io sarò il padrone.

Di sicuro la satira è circolata tra Castellaro e Donadiolla ma, oltre a mia madre che mi ha dettato il frammento, nessun altro ne è al corrente, neppure i familiari. Il motivo? Forse dedicarsi alla poesia lo considerava una perdita di tempo paragonato all’impegno del lavoro per tirare avanti la famiglia.

Di sicuro Dino componeva, insieme ad Enrico Rosati, i testi delle Maschere nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale e negli anni appena dopo, fino a quando nel nostro territorio le rappresentazioni sono scomparse del tutto. In più faceva da Mnûn, da conduttore della piccola compagnia che girava per le borgate a interpretare la commediola in cambio di quanto la gente offriva in dolci, uova, salami, che poi consumavano tra loro a fine carnevale. Io lo ricordo in una di queste occasioni. Aveva un pastrano scuro che lo raddoppiava in larghezza, i bottoni ricavati da dischetti di un tronco del diametro di circa dieci cm e una grossa sveglia per orologio da tasca.

Dino Alessandro Giuliani (1908-1992) era nato a Milano, ma capitato dalle nostre parti per uno strano destino. Gli orfanelli venivano dati in affido alle famiglie che ne facevano richiesta. In cambio a queste veniva corrisposto un sussidio. Da noi ci furono molti casi. Dino, (con quanti sacrifici non lo sappiamo ma possiamo immaginarlo), riuscì a costruirsi una casetta e a comperare un poco di terra a Pozza di Vetto, poi a mettere su famiglia. Ma la rendita era piuttosto scarsa. Quindi decise di andare a mezzadro prima a Legoreccio, poi a Buvolo, dove il terreno rendeva un poco di più. E, finalmente, arrivò anche per lui la buona occasione grazie al lavoro del figlio maggiore Anselmo, perito agrario, e si trasferì a Baggiovara, vicino a Modena.

 Manini Lino (1931 – 2012).

Era di Pineto. Di tanto in tanto si divertiva a prendere in giro i paesani che, con la prospettiva di fare ... bello, si recavano oltre Enza. Ma spesso rientravano con le pive nel sacco. Conosco solo questi quattro versi che Lino stesso mi ha dettato, rammaricato perché non ricordava altro. In quell’occasione mi raccontò che la combriccola, baldanzosa, era partita verso Sella di Lodrignano ove c’erano donnette disponibili. Ma, al loro arrivo, trovarono la cacciagione occupata:

Era una sera gioiosa e bella

e sono andati fino alla Sella,

                                                     con la meticcia e la palandrana (due tipi di impermeabile)

       sono arrivati fino in pramšana.

 FRAMMENTI:

                                 Tra la fine del 1800 e la prima metà del 1900 la parrocchia di Crovara ha avuto problemi coi parroci. Non sull’ortodossia ma sulla tolleranza di tipo socio-economico. Quando ero ragazzo parlavano di uno di loro preso a bastonate dal mezzadro per motivi di interesse. Don Flaminio Costoli, suo successore, preferiva non risiedere a Crovara. Finite le funzioni chiudeva su tutto e, a cavallo, scendeva fino al Tassobbio poi girava a destra e tornava presso i parenti a Cortogno. A distanza di tempo si può dire che, effettivamente, la canonica di Crovara del tempo non era molto invitante. Oltre all’isolamento era anche poco sana. Un Pasquino di turno ha lasciato traccia di questi fatti, come ci ricordano due frammenti recuperati grazie alla memoria di Pierino Campani, e appartenenti a componimenti diversi:

 Costoli don Flaminio,

nativo di Cortogno,

ha un modo di fare il parroco

che è proprio una vergogna...

......         

Ânc i Sânt ad la paròchia

a si a-scurdêva propia apòsta:

inveci d’ fâgh la su’ festèta

a n’ ghe zîva gnân la mèsa.

Tra i vari frammenti che Orazio ricordava ce ne sono alcuni che probabilmente destavano in lui ricordi divertenti. Mentre li recitava rideva soddisfatto. Purtroppo però di versi ne ricordava pochi. Una citazione, parlando dei tempi passati, diceva:

 quand al mšādre al lavurêva

il sajî cuma l’amdêva…

 Poi le cose erano cambiate, e il mezzadro, astuto, aveva migliorato le proprie condizioni, e…

 ... tant al mšādre cme ‘l padrûn

i’ han mìs sù un bel pansûn.

 Si parla anche di un parroco che non disdegnava i piaceri della tavola. E il confronto non lascia dubbi:

... andando a mensa

era tanto sgorbiciante

che inghiottiva le pietanze

come all’albio l’animal.

 È diventato proverbiale un frammento che parla di fratelli in procinto di fare la spartizione dei beni di famiglia e, come al solito, c’è chi tenta di fare il furbo:

 ... e pu’ vist ch’i’ sèm fradê,

a te la càgna e a me i pursê,

ma s’ t’ê paiûra ch’i t’ingàna,

a me i pursê e a te la càgna.

 Con questa puntata si conclude la nostra scorribanda lungo la valle del Tassobbio. Alcuni amici mi hanno fatto una domanda: Come sta la satira montanara oggi? Cultori della satira ce ne sono ancora molti, tanto nella forma classica che in quella teatrale. Alcuni preferiscono l’anonimato o lo pseudonimo, altri firmano tranquillamente il proprio prodotto. Visto che si tratta di persone viventi, per ora non faccio il loro nome.

Egoisticamente mi piacerebbe sapere se questa serie è piaciuta o meno. E anche conoscere altre varianti delle stesse satire, o testi diversi, che io, per limiti di tempo e lontananza dal territorio, non conosco. Se preferite un discorso diretto e privato potete usare la mail: [email protected], o il telefono: 349 – 5274848. E vi ringrazio.