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Il salotto letterario / Come uno specchio

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Proponiamo oggi un racconto di Gabriele Agostinelli, giovane studente già scrittore.

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Foto Agostinelli 2

Ché se mi guardi così, in quel modo lì, io penso che potrei amarti per tutta la vita, o anche solo un giorno, un’ora, un minuto, un istante.

Ché qui la musica è qualcosa che non capisco, come le parole pronunciate strette fra i denti e quel tuo nome francese che non ricordo. So solo che sei meglio del vino, forse. So solo che mi piacciono i tuoi occhi, piccoli piccoli, come puntini neri nello spazio. E poi so, questo lo so, che adoro il modo in cui sei.

C’è qualcosa di splendido, disegnato sulla tua pelle. Sono i graffi, forse. Tutti i graffi di tutta la tua vita. Tutta quella vita vissuta di fretta, come una corsa in stazione, come quando il treno sta per partire. E non ti aspetta. Non ti aspetta mai.

Mi dici qualcosa, mi dici che abiti a Parigi, mi dici che sei in vacanza. Ti rispondo: «Anch’io…»

«Anche tu abiti a Parigi?»

«No, anch’io sono in vacanza!»

Ti metti a ridere, mi piace il modo in cui ridi, coprendoti le labbra con il palmo della mano, leggermente, e guardandomi sempre dentro gli occhi. Come uno specchio.

So e sai che potresti trascinarmi ovunque, se volessi.

Così ti dico: «Ho voglia di ballare!»

Mi rispondi: «Andiamo!»

Ti prendo per mano, e non è la paura di perderti, è la voglia di guidarti. In un luogo che sarà solo nostro. Fatto di quattro mattonelle in mezzo alla pista, in questo posto bellissimo a Palma di Maiorca, pieno di luci e di gente, che vuole, che sa divertirsi. Questa discoteca qua che si chiama Tito’s e che per arrivarci devi prende un ascensore fatto di vetro da dove vedi tutta la città. Tutta questa città.

Io non sono bravo a ballare, e tu un po’ meno. Ma chissene frega?!

Ti cerco, mi cerchi. Ti giuro non scappo.

Sei bella. Bella da starci male. Male da morire. Morirci male. Sei bella che io non ci credo. Come in Dio, che non so se ci credo. Ma in te, di sicuro, ci credo. Ci credo.

E impareremo a ballare anche sotto il diluvio generazionale, fra le macerie dei nostri passati passati e non tornati, con il sorriso addosso, sempre addosso. Sulle labbra, che è il posto migliore in cui stare.

Foto Agostinelli 1E infatti mi baci o ti bacio e non so neppure che sapore hai; il sapore dell’aria, hai. Tu lo sai che sapore ha, l’aria?

Ha il sapore dei giorni belli della vita, di quella vita che ti va di vivere. Sempre. Nonostante tutto. Nonostante tutti.

Nonostante il fatto che lei se ne sia andata e tu non sai dove e non l’hai neppure salutata e non le hai neppure detto quanto ti mancherà, non l’hai neppure stretta fra le tue braccia. Una volta. Per l’ultima volta. L’aereo che parte, l’aereo che non torna. Il profumo della sua pelle, dei suoi vestiti, e innamorarsi di fretta, e correre per raggiungerla, e inciampare. E rialzarsi, saper rialzarsi.

Ma tu ancora sei qui, per adesso sei qui. E mi piace stringerti e graffiarti la schiena e morderti le labbra e carezzare il tuo viso e la pelle liscia delle tue gambe. Le tue gambe che sorreggono tutta la fatica dei giorni distorti. Le tue gambe che ti porteranno lontana. Passo dopo passo. Quelle tue gambe che ti aiuteranno a non cadere, certe volte. Alcune volte.

Mi dici ho il profumo più buono del mondo. Ti dico lo so. Mi baci sul collo e io chiudo gli occhi e mi immagino di essere per un momento in un altro luogo dove nulla esiste, dove ci sei solo tu dentro una stanza di vetro e tutto sembra essere possibile.

Prendere, partire. Viaggiare, andare. Dove ti pare.

Prendere, partire. Viaggiare, tornare. Migliori, migliori di prima.

(Gabriele Agostinelli)

 

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