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Scherzi da… fraticelli!

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Scherzi da... fraticelli!

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Io non ero presente quando queste cose sono successe. Me le hanno raccontate i compagni di scuola qualche anno dopo (con quell’atmosfera di complicità e condivisione), quando mi sono trovato nello stesso collegio, un collegio-seminario, con tutto ciò che quel tipo di comunità comporta. L’atmosfera di quei racconti mi riportava a casa, alle veglie delle sere d’inverno, quando lo zio Attilio ci raccontava interi romanzi tenendoci svegli fino a tardi.

Erano gli anni immediatamente dopo la seconda guerra, anni che segnavano un miglioramento in fatto di alimentazione, ma i giovani che studiavano a Saluzzo forse speravano in qualcosa di meglio. O, perlomeno, la fame non era solo “Fame di sapere”. La campagna lì intorno era florida e la gente ben disposta nei confronti di fra Tarcisio che, con somarello e carrettino, passava di aia in aia e raccoglieva quanto la bontà della gente gli offriva. C’era un po’ di tutto, è vero, ma pur sempre di genere vegetale soltanto!

Si avvicinava la festa di San Giovanni Battista, titolare della chiesa e del convento. Quello di San Giovanni è un complesso di prestigio. Accovacciata sulla prima collina, la chiesa guarda e protegge la bella città di Saluzzo, tra il materno e il sornione. Ma lascio a voi cercare la storia del complesso nelle fonti che i mezzi moderni ci offrono, discretamente esaurienti.

Provo invece a raccontarvi un paio di episodi successi all’interno dello studentato. Quello studentato che, all’epoca, era un faro per l’Ordine dei Servi di Maria, un centro culturale, che vantava la presenza, tra l’altro, dei due letterati padre Pazzaglia e padre Calvillo, era sede di corsi di Filosofia e Teologia, disponeva di una tipografia propria, e da qui era iniziata anche la carriera di padre Montà, prima maestro dei giovani per 17 anni, poi provinciale e, subito dopo, generale dell’Ordine dal 1953 al 1965. Austerità e disciplina costituivano il binario su cui viaggiare. Ma la vita è vita, diamine! E con le sue debolezze, purché non si travalichi! Tranquilli, comunque, nulla di boccaccesco.

Quell’anno, poco dopo il 1950, la festa ricopriva una importanza particolare. Non ne conosco il motivo ma ad essa erano invitati il Vescovo, il Sindaco, il Prefetto e altre personalità, e da Torino arrivò anche il padre provinciale.

Nei giorni immediatamente prima della festa era tutto un provare le musiche per la messa solenne e le altre funzioni, e un riordinare chiesa e convento. Ed anche in cucina c’era un insolito tramestio, con un’aria di ambiguo mistero. E intanto arrivò la sera della vigilia. Nulla di trascendentale se non quel pruriginoso parlottare sottovoce del cuoco e del suo aiutante, che a qualcuno non era sfuggito.

Finite le pratiche devozionali della sera il padre Maestro si assicurò che ogni studente si fosse coricato e avesse spento la luce e poi lui pure si ritirò nella propria stanza. Sospetti? Neanche per scherzo! Stanco io, stanchi loro!

Ma c’era chi non dormiva. Passarono alcune ore e due ombre furtive, nella penombra, uscirono dallo studentato, con un pezzetto di carta accartocciata otturarono la celletta dello scrocco in modo che la porta restasse ferma ma non chiusa a chiave, e con una piccola pressione si potesse aprire. Poi puntarono diritti verso la stanza che fungeva da dispensa, di fianco alla cucina.

Il cuoco aveva lavorato sodo tutto il giorno per mettersi avanti con le portate e, all’indomani, fare la sua bella figura di fronte alle tante autorità. Aveva già preparato gli arrosti e tutte quelle specialità che bastava scaldare un pochino, prima di servirle. Tra le tante delizie una bella faraona, ben rosolata, croccante, lì, che sembrava covare il proprio sugo. Una delle due ombre la ghermì, asportandola dalla grossa padella, e i due si avviarono verso un luogo fuori mano. “Sgocciola!”, disse l’altro, con voce preoccupata. Lampo d’intesa. E i due fecero una breve deviazione. Fecero in modo che le gocce d’unto giungessero davanti alla porta di una precisa cella, (al cui interno, a quell’ora, l’inquilino forse era rapito nel paradiso delle sicure lodi e gratificazioni per la bella festa organizzata) poi isolarono la faraona e sparirono.

Era la cella del padre economo, una figura importante e di responsabilità nelle comunità. Anzi in quegli anni compendiava due cariche che in passato erano distinte e servivano a garantire una maggior democrazia all’interno della comunità: quella di economo e quella di procuratore. Il primo custodiva i soldi e decideva se acquistare o meno certi articoli o eseguire certi lavori. Il secondo doveva individuare la merce necessaria alla comunità al prezzo più conveniente e suggerirla all’economo. Esigenze di personale avevano poi unificato le due funzioni e qualche lingua maligna andava dicendo che alcuni di costoro erano procuratori per sé ma economi per i confratelli. Gelosia di malelingue!

Il mattino seguente il cuoco si alzò presto. Era in gioco anche la sua reputazione! Preparò in fretta la colazione per i confratelli, e intanto cominciò a mettersi avanti per il pranzo. Oltre la finestrella che serve per passare le vivande dalla cucina al refettorio tutto sembrava nella norma. Quattro occhi scrutavano verso la cucina, turbati da un dubbio amletico: L’avrà o non l’avrà scoperto?

Immaginate come rimase il cuoco quando andò in dispensa e s’accorse che la faraona aveva preso il volo. Fu tutto un borbottare sospettoso e disperato, un correre da un piano all’altro per informare le autorità (il Priore, il Maestro, il Vicario, persino il Sagrista). Alla notizia l’economo si era precipitato in cucina, fremebondo, alla ricerca di una soluzione. Cani o gatti non ve n’erano da incolpare, quindi non poteva trattarsi che di una persona. Ma chi? Uno dei presenti, nell’abbassare con compunzione gli occhi, individuò delle tracce. Le seguirono come si segue un’ispirazione, nella speranza, si, di sorprendere il colpevole, ma soprattutto di recuperare la refurtiva ed evitare una figuraccia. Come si ritrovò l’economo quando costatò che le gocce d’unto finivano dritte davanti alla propria cella lo lascio immaginare a voi. Tutto un protestarsi innocente, uno spergiurare che lui non c’entrava, che era una trappola, che le gocce arrivavano davanti alla porta ma non dentro (e intanto apriva l’uscio della cella). E anche dopo che i confratelli gli avevano creduto, conoscendo la persona, e cercavano altre tracce, lui continuava a protestare la propria estraneità al fatto.

Il seguito della storia però non l’ho mai saputo.

Mi raccontarono invece un altro caso che aveva ugualmente fatto scalpore.

Come accennato, la vita all’interno dello studentato era rigorosa. Dalla campanella del riposo fino a quella della sveglia bisognava stare in silenzio, (definito semplicemente silenzio rigoroso), nella propria stanzetta. Controproducente pensare a cibi o bevande. E in caso di insonnia? Si consigliava angelicamente di ripassare la lezione del giorno dopo, sonnifero garantito.

Non so se la coppia era la stessa dell’anatra. Comunque qualcuno aveva notato che in cantina c’era una consistente scorta di bottiglie piene, inquadrate come soldatini sopra una grande mensola, pronte all’uso. E anche che sopra la porta un finestrino restava aperto per dare aria al locale. Il duo tempesta non ci pensò due volte. Nel bel mezzo della notte si recò nello scantinato armato di un lungo bastone con all’estremità un grosso spago adattato a laccio-esca. Il piano era di una semplicità disarmante: dal finestrino bastava allungare il bastone fin sopra l’esercito di bottiglie, fare in modo che il laccio abbracciasse il collo di una di esse, un leggero strattone e il laccio la bloccava. Dopo, delicatamente, si invita la bottiglia a seguire il percorso del bastone fino oltre il finestrino. Il primo tentativo ebbe esito positivo. Ma i due non si fermarono. Perché non approfittarne e fare un poco di provviste? Già la seconda bottiglia remigava dondolandosi verso il finestrino quando, dalle buie scale, con passo felpato, si materializzò una torcia accesa. La sorpresa durò solo qualche secondo, ma fu come se, in quell’attimo, tutte le perturbazioni atmosferiche dell’intero anno si scaricassero lungo la schiena dei due, dal ghiaccio polare alla lava incandescente. Poi, l’idea, il guizzo. Alla domanda: Cosa fate? una voce forzatamente cavernosa rispose: “Stiamo liberando un’anima dal purgatorio”!

In questo caso però la storia non finì qui. Come nei migliori film dell’orrore la figura, (nel nostro caso la torcia), come era comparsa così disparve. Quella voce (lo avevano capito benissimo) apparteneva al padre Maestro. Ma però quella ritirata quasi fuga cosa significava? Che cosa nascondeva? Boh!

I due attesero che lungo le scale ritornasse il profondo silenzio della notte, poi le risalirono fino all’ingresso dello studentato. La porta l’avevano lasciata pronta ad aprirsi. L’avrà lasciata così il padre Maestro? Ancora un attimo di ascolto intenso, di quelli che rilevano anche un respiro. Nulla di sospetto. Entrano. E invece eccola la sorpresa: prima uno poi l’altro si sentirono prendere per i cappelli e nell’aria sibilò lo zac di una forbice. Poi la fuga a nascondersi nella propria stanzetta. Dormire? E chi ce la faceva!

Si dice che la notte porti consiglio. E il consiglio arrivò. Una soluzione provvisoria, certo, tanto per guadagnar tempo. Nessuno dei due se la sarebbe mai sentita di incolpare ingiustamente i compagni.

Il mattino successivo, al momento di recarsi in chiesa per le preghiere e la messa comunitaria, il padre Maestro si era messo davanti al gruppetto già in fila per due, e non in coda come di consueto. Si capiva che voleva vedere in faccia gli studenti, uno per uno. Chiaro anche che ne cercava due con una bella sforbiciata in testa. Quel “Giù il cappuccio!” pronunciato quasi sotto voce aveva una motivazione. L’impronta lui l’aveva lasciata, e … bella evidente. Scoprirla? Un gioco da bimbi! Altra sorpresa, invece. Tutti e sedici gli studenti che gli sfilarono sotto gli occhi avevano una consistente sforbiciata nei capelli!Cimabue 1