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La presentazione de “Il profumo della neve” nel resoconto dell’autrice

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Il 27 giugno scorso è stato presentato il libro di Dilva Attolini, “Il profumo della neve”, di seguito le impressioni dell’autrice in un breve resoconto.

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Dilva AttoliniNella splendida cornice della Corte Campanini c’era un’atmosfera intima e magica, con le luci a stelo; nel rettangolo, sopra le teste dei numerosi ospiti, il cielo buio e qualche stella. Emanuele Ferrari, assessore e vicesindaco, ha condotta la serata, il M° Paolo Gandolfi, con le sue musiche, ha allietato e commosso i partecipanti insieme alle letture fatte da Elda Zannini, Giuliana Manfredi e Maria Alberta Ferrari, autrice pure del disegno ad acquerello in copertina.

PIL PROFUMO DELLA NEVEer ricordare che allora si parlava il dialetto un pezzo riguardante la nascita del protagonista è stato letto in due lingue, prima in italiano, poi in dialetto, nella traduzione personale della scrittrice dialettale Elda Zannini, che ha pure letto una satira di Ugo Viappiani, composta molti anni fa ad un incontro dei componenti della classe prima Commerciale, che aveva sede proprio lì, tra quelle mura con le finestre sul cortile.

L’ultima lettura, che parla del mondo intorno, l’autrice l’ha dedicata a Benedetto Valdesalici, un montanaro importante, cultore della tradizione poetica, Da una sua riflessione Dilva Attolini ha ricavato la decisione di legare le vicende di Fiore alle più vaste della storia nazionale, avvenimenti di cui il protagonista, in qualche modo, si è trovato ad essere testimone.

Il libro è ambientato nell’adolescenza del protagonista proprio a Castelnovo. Il borgo antico era il centro vitale del paese, a quel tempo nella via principale le osterie erano tredici e ogni piccola porta era un negozietto. La piazza bassa ospitava il mercato, con i grandi rotoli di stoffe…

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Di seguito un brano tratto da “Il profumo della neve” di Dilva Attolini:

CAPITOLO 11

La prematura scoperta dell’amore

Appena alzato, Fiore aveva aperto la finestra e sbirciato i tetti delle case. Era piovuto nella notte, poi l’alba aveva riportato il sereno e il sole risplendeva di nuovo. Le cose meravigliose, a Castelnovo, accadevano d’estate, la stagione più bella, attesa e amata dalle genti di montagna. Stagione calda e fresca la sera, luminosa, secca ad agosto.

In sintonia con la sua vivacità, dalla pineta gli giunse un primo cinguettio, poi un secondo, un terzo, un chiacchiericcio. Gli venne voglia di cantare, di gridare. Da un po’ di tempo si sentiva grande. Si era guardato allo specchio poco prima, aveva intravisto un volto più maturo, come se il sole e la luce dell’estate gli avessero inspessito la pelle. Eccoli lì, quei baffetti neri che radi spuntavano. Papà Carlo gli aveva prestato il rasoio e gli aveva insegnato a usare la schiuma e a tagliarsi i peli sparsi della barba: a spingere il rasoio dall’alto verso il basso, poi dal basso verso l’alto, contropelo, la parte più impegnativa, ma indispensabile per una rifinitura perfetta. Si faceva bello per le ragazze che si intrufolavano, maliziose, nei suoi pensieri. Ascoltava i cinguettii e pensava, sorridendo: “Non sono un cacciatore come mio padre… preferisco cacciare le ragazze.”

Anche quella notte si era svegliato e aveva sentito il sangue pulsargli nelle vene. Senza sapere bene il perché, era certo che sarebbe stata una giornata speciale. Un presagio, provava un’euforia calda e sudaticcia.

Dopo un anno, cominciava ad amarlo davvero il nuovo paese. Amava la pineta che sovrastava il borgo, gli piacevano quelle case appiccicate le une alle altre che segnavano i tracciati delle stradine, amava le donne dei negozi e delle osterie, quelle prosperose, stava bene con gli amici. Era frastornato dalla tanta gente che riempiva il borgo antico, soprattutto il lunedì, giorno di mercato, quando il centro si affollava di una moltitudine chiassosa. Arrivavano dai dintorni, dai paesi vicini, riempivano la strada principale e la piazza bassa, che era occupata dai banchi delle merci. Verso sera giungevano dalle osterie canti e  zaffate dell’aspro odore del vino.

Il paese lo avvolgeva, tutt’intorno, come una larga camicia sbrindellata. Arroccato sotto Monte Castello, era grigio di sasso, grigie le case e i muriccioli, le scale di pietra, le stradine lastricate di ciottoli di fiume che sbucavano arrotondati. Il paese antico era il centro vitale con osterie e negozi. Tredici le osterie, in un centinaio di metri: l’Ernesta ad Tric e Trac, con il gioco da bocce e i fiocchi nei capelli. Luigiun dal Moro, che cuoceva le salsicce e le ossa di maiale bollite: i profumi invadevano il circondario e attiravano gli avventori come il miele le mosche. Giù, oltre la volta, la Trattoria dei Comastri. Poi l’Osteria di Trionfo Falchetti. Subito dopo, adiacente, quella di suo fratello Luigi. Il caffè Garibaldi, che diventerà la Trattoria del Moro (oggi Kobusteria). La Livia dei Cacciatori, lungo il sottopasso che portava alla piazza delle corriere.

Poi Niso ad Pastasuta (La Vineria). Sulla salitina, l’Osteria ad la Magara con Nevio, che andava in bicicletta con la gamba di legno. Sugli scalini della piazzetta, il Caffè delle Davoli. Oltre la piazza l’Osteria della Marietta di Tarquinio (Geremia). In fondo la Cooperativa (oggi Bar Trattoria La Carta). L’Osteria della Luna, era nella stradina più in alto, soprannominata Via dla Semia, nome che resterà nella storia, passando da una strada all’altra. La semia era la sbornia, quella che prendevano gli ubriaconi.

Tra le osterie, tanti negozietti: la drogheria di Probo, in realtà due negozietti uguali, uno di fronte all’altro, con gli stessi generi, in uno lui, nell’altro la moglie. Pinna vendeva gli zoccoli. L’Alba faceva le maglie. Pia aveva i tabacchi e i francobolli. Moglia e Cagni le stoffe. Le sorelle Crovi la lana. La Geppa i detersivi. Poi la Merceria della Lucia. La Gigia faceva i materassi e cardava la lana all’aperto. Di fronte l’Armeria di Genitoni, con la bella moglie Irene. Leonida faceva l’elettricista. La Sassi vendeva il latte. C’era il laboratorio del sarto Reggioni. Giara con il cuoio e gli scarponi da contadino. Parisoli vendeva la carne. Nel muro arrotondato l’Orologeria Ruffini. Nella piazza Monticini e la Bruna avevano i loro banchetti di frutta e verdura. Nell’angolo del giardino si ergeva l’edicola esagonale, dipinta di verde, di Muzio.

Tra slarghi, piazzette e stradine c’era, e c’è ancora, un’aiuola in salita, affiancata da scale gemelle con larghi gradini. Le scale disegnavano due semicerchi, i gradini di sinistra erano accompagnati da un muretto – che ora non c’è più, per negligenza. Le scale gemelle portavano nella piazzetta dei calzolai: Merli, Dario e Learco, ognuno seduto al proprio banchetto pieno di attrezzi, costruivano e risuolavano, tutto il giorno, scarpe e scarponi in tre stanzette bugigattolo.