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Tobias, il cucciolo

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Un racconto che ci invia Dilva Attolini per augurare Buon Anno ai lettori di Redacon.

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tobiasTobias si era svegliato tardi. Un fatto molto strano, era da tempo che non accadeva. Il sole era già sopra la linea dell’orizzonte, tra nuvole rossastre. Rosso di mattino il brutto tempo è vicino, dice il proverbio. Di sicuro verrà la pioggia, a qualche ora del giorno.

I rumori mattutini della fattoria sembravano spariti, c’era un grande silenzio, forse neppure il gallo aveva cantato. Tobias, ancora insonnolito, uscì dalla cuccia, scrutò intorno, puntò le zampe davanti, poi stiracchiò il suo corpaccione lungo lungo. Si mise in attesa. Aspettava  di veder comparire sull’aia il suo comandante. Era un cane e aveva un compito preciso, quello di aspettare il suo padrone.

Fece alcuni passi. Attraverso il portone spalancato sbirciò dentro la stalla. Vide l’ombra furtiva di Margherita che non lo degnò neppure di uno sguardo. Di zio Tobia, il suo padrone contadino che amava i poeti, nessuna traccia.

Si chiamava Tobia in verità, ma la moglie Margherita, da quando lo aveva sposato, gli aveva cambiato il nome in zio Tobia per via di una canzoncina:

“Nella vecchia fattoria, ia, ia, oh!

C’è il cane... bau, bau...

C’è il gatto... miao, miao...

L’asinello... ia.. ia... oh!

...perché il proprietario della fattoria, nella canzoncina, aveva nome appunto zio Tobia.

Per una simpatica coincidenza cane e padrone avevano lo stesso nome. Come è facile comprendere, Tobias derivava da Tobia. Quella esse aggiunta significava possesso, Tobia’s, genitivo sassone inglese, un po’ storpiato in italiano. A Tobias piaceva essere il cane di zio Tobia.

Avere un nome simile è come sentire i pensieri dell’altro nella propria testa, è come sognare il mondo con gli stessi colori. Anche sentire i propri cuori vicini e volersi bene.

Zio Tobia si riempiva di tenerezza ogni volta che ricordava il loro primo incontro, avvenuto un giorno d’estate di due anni prima, in uno squallido garage dal portone arrugginito, fuori paese, lungo il torrente.

I cuccioli stavano sdraiati con le orecchie basse su un tappeto consumato. Appena il portone fu aperto, uno dei tre si alzò di scatto come una molla e si buttò letteralmente verso zio Tobia. L’incontro avvenne ancora prima che zio Tobia avesse il tempo di gettare un’occhiata agli altri due. Fu quasi costretto a prendere tra le braccia questo cagnolino bianco e rossiccio dal musetto appiattito, che si lasciò coccolare, e gli strofinò il musetto, tutt’occhi, contro il petto, verso il mento. In due anni diventò un cucciolone massiccio, dal pelo morbidoso e dalla lunga coda. Tu sei il cane più bello del mondo, gli diceva zio Tobia. Non aveva torto.

Era davvero uno splendido esemplare di origine russa, razza Moscow Watchdog, pelo medio lungo, muso dolce, con occhi scuri, intrisi di un accenno di intelligenza vivace e melanconica.

Un fischio attraversava il cortile, acuto come quello di una sirena. Era la sveglia del mattino, che preannunciava la voce di zio Tobia, che arrivava subito dopo … Tobias! Dormiglione! Capitano! Lo chiamava per nome e aggiungeva a volte dormiglione, altre capitano. Tobias riconosceva lo scorrere dei suoni di quelle parole, che arrivavano all’alba. Dopo il fischio, la loro giornata iniziava, dove era l’uno era l’altro, nel raggio di uno sguardo.

In un suo racconto zio Tobia aveva scritto: “Con te nelle vicinanze, io mi sento un principe, addirittura un re, con un fazzoletto legato dietro, al posto della corona, a fermare i miei riccioli ribelli. Provo una gioia profonda quando incrocio i tuoi occhi che mi guardano, e non mi sento solo”.

La gioia è anche prendersi cura. Zio Tobia gli aveva comprato una cuccia nuova, l’aveva posta vicino al muro all’ombra dei ciliegi.

La fattoria occupava interamente la collina. Sulla cima stavano le costruzioni. La casa padronale, lungo la facciata, aveva un pergolato di ferro, dipinto di rosso. Una pianta di roselline a grappoli ombreggiava la parte centrale. I fiori profumavano di antico. A sinistra un vecchio glicine. Il tronco nodoso e un groviglio di rami intrecciati si aggrappavano ai sostegni di ferro con un vigore visibile allo sguardo. La parte destra accoglieva l’uva fragola, blu e zuccherosa, una dolcezza.

Dietro la casa padronale si innalzavano gli edifici rurali: stalle, fienili, porticati, raccolti intorno a un grande cortile rettangolare, su cui si aprivano le carraie. Oltre il fienile c’era un piccolo lago con le oche. Verso nord i campi arrivavano fino alla periferia del paese. Il Palazzo del Comune aveva la torre che dalla collina sembrava a portata di mano.

Nel podere si raccoglieva erba medica, per le mucche, per il latte, per il Parmigiano Reggiano di montagna. Marchio prestigioso. Anche granoturco, frumento, verdure nelle righe dell’orto e, in più, qualcosa di speciale, perché il padrone, zio Tobia, era un poeta e metteva in fila parole e frasi, e racconti dipinti. Poeta contadino, anche pittore. Autodidatta e principiante in ogni campo.

Il poeta contadino era cresciuto a latte e storie. La mamma gliene aveva raccontate un’infinità. Ora, non poteva dormire se non leggeva qualche pagina con il preciso intento di estraniarsi e incastrare la sua vita con le storie di altri. In esse trovava riposo. Inoltre le storie mettevano le ali ai suoi pensieri, come gli uccelli quando si alzano dalle pasture e salgono verso l’azzurro.

Durante il giorno c’era sempre il tempo del racconto. Chi ha le storie nel cuore, desidera raccontarle, per non lasciarle morire. Ma la moglie Margherita era distratta. Zio Tobia non aveva ancora figli, allora fingeva di raccontare le storie al suo cane. In realtà le raccontava a se stesso, per impararle bene e riflettere su ciò che aveva letto. Ripeteva alcune frasi o pezzi di poesia fino a che non le aveva imparate a memoria, per impadronirsene.

Esprimeva la memoria dei paesaggi dipingendo. I suoi quadri preferiti erano i dipinti di pace di Fattori.

Il cane Tobias girovagò nel cortile, girò intorno alle costruzioni, guardò i ciliegi fioriti. Zio Tobia amava dipingerli. Che fosse da qualche parte con i suoi pennelli? Arrivò fino al campo più lontano dove s’innalzava un durone selvatico. Era primavera, i ciliegi dai fiori bianchi punteggiavano la montagna. Sembravano palle di neve sparse a caso sui versanti.

Verso mezzogiorno si scatenò un temporale, che durò un’ora. La pioggia scrosciava sopra la tettoia con rumore di sassi. Il cane Tobias cercò zio Tobia sotto la pioggia. Si inzuppò dalla testa alla zampe.

Nel pomeriggio continuò a cercarlo, ma non era mai dove lui andava. Non nei campi, non laggiù nella vigna, non nelle stalle, non nella stanza della mungitrice, non sul trattore blu cobalto. Ogni tanto abbaiava forte per farsi sentire. Alzava la testa spingendo il muso verso l’alto, così il suono risultava più chiaro: bu… bu… buuuu…  Non dormì nella cuccia, quella notte. Con le zampe impiastricciate di fango, si sdraiò sotto la tettoia, dove era solito aspettarlo.

Lo cercò nei giorni seguenti annusando l’aria. Seguiva il sole e sfuggiva le ombre, per cercarlo nella luce del giorno. Contrastava tra le costruzioni le folate del vento, che gli sollevavano il pelo, e lo spingevano in balia degli eventi. Che vuoto intorno. A volte partiva a zampe levate come se volesse sorprenderlo da qualche parte. Correva, squassando il pelo all’aria, fino ai confini dove le tracce odorose di lui si perdevano.

Si comportava come un ragazzo adolescente alle soglie della pubertà, che si smarrisce se è lasciato solo, e ha bisogno di una guida per inseguire desideri e sogni.

Ciò che il cane Tobias non riusciva a fare, era rendersi conto di questa assenza, sicuro dell’amore di zio Tobia per lui. Aveva sempre fatto la guardia con garbo. Compariva maestoso sul viottolo d’ingresso, appena qualcuno si avvicinava al cancello. Si incastrava nel paesaggio e incuteva soggezione.

”Torno presto, aspettami” diceva zio Tobia quando doveva sbrigare commissioni dove i cani non erano ammessi. Lui obbediente, lo aspettava.

Anche quell’ultima volta, tra folate di vento che sollevava mucchi di polvere e offuscava la visione degli elementi… aspettami, torno subito!, gli aveva urlato dal cancello.

Trascorse mesi ad aspettarlo… giugno, luglio, agosto… La collina divenne lussureggiante sotto il cielo azzurro e luminoso dell’estate, e lui sperduto tra i campi o sotto la tettoia, spaesato e ogni giorno più confuso.

La fattoria non era più il luogo meraviglioso di un tempo, quando assieme allo splendido cane da guardia, c’era un contadino con i capelli ricci che amava i poeti.

Zio Tobia era un poeta e un artista. Aveva cominciato, già da ragazzo, a contemplare l’alba. La contemplava attraverso la finestra mentre si vestiva, o mentre attraversava la grande aia, o saliva la scala del fienile.

L’alba compare troppo presto, per questo lo spettacolo comincia nell’indifferenza di molti, che data l’ora ancora dormono. Questo non accadeva a zio Tobia. Diceva una sua canzone-poesia:

Sono un contadino, ho il privilegio di vedere l’alba.

Assisto allo spettacolo teatrale, quando il cielo va in scena

e si colora di rosa, rosso, giallo, arancio. Verso oriente.

Le nuvole frastagliate ricamano il mio orizzonte.

Vedo ciò che ad altri è tenuto nascosto!

Zio Tobia aveva il privilegio di vedere nascere  un nuovo giorno, mentre le mucche muggivano e il gallo lanciava il suo brillante “chicchiricchiii!” Contemplava l’alba, i ranocchi, le foglie d’autunno, i corvi, i ranuncoli, amava i colori e i pennelli.

Adorava le illustrazioni e le storie di Beatrix Potter, scrittrice londinese, vissuta tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Molti animali, alla fattoria di zio Tobia,  si chiamavano come i personaggi inventati da Beatrix Potter: i conigli con i nomi di Peter e Benjamin... primo, secondo, terzo, un’anatra, la più bella, si chiamava Gemaima, nome affascinante per un’Anatra de’ Stagni..., il gatto aveva nome Tom Micio.

Il lavoro era duro. C’erano sì gli attrezzi meccanici, ma zio Tobia era piuttosto solo a condurre la fattoria. L’aiuto di Margherita era sporadico. Aveva tante mucche da accudire, i campi da rendere rigogliosi, il raccolto e il fienile da riempire. Il cane scorrazzava libero sull’erba tagliata, poi si sdraiava lungo disteso, rilassato, in un angolo del cortile in attesa che il lavoro del giorno finisse. Più pigro che stanco. Aspettava il riposo del suo padrone e catturava mosche, sbatacchiando la testa a destra e a manca.

Per zio Tobia il tempo del riposo era tutto suo.

Il paesaggio e gli animali stavano nel profondo del suo cuore e li dipingeva nelle varie situazioni. Quando zio Tobia disegnava, il cane Tobias non si accucciava ai suoi piedi, ma se ne stava ritto, vicino a lui, immobile e silenzioso. Stava così anche quando aspettava la sua voce che erano racconti. Se stava, invece, troppo tempo dentro casa, ci pensava Margherita. I cani fuori dalla porta!

All’aperto lo seguiva sempre. Lo seguiva nel suo andirivieni, sulla neve dietro alla volpe, nei lunghi pomeriggi sotto il sole tra le erbe tagliate, ubbidiva ai suoi comandi riportando all’ovile le pecore  e al cortile le galline che avevano superato il primo campo recintato dei cavalli.

“Ehi! Le tracce della volpe si stanno avvicinando troppo al pollaio. O ne fiuti l’odore o mettiamo le trappole, non hai sentito le galline agitarsi, questa notte?” diceva zio Tobia, mentre perlustravano la zona dietro le stalle. Le volpi erano un pericolo.

Poi arrivò quell’orribile ultimo autunno. Le foglie dell’uva fragola non erano ancora ingiallite.

Un pomeriggio, un’automobile rossa si fermò davanti al cancello spalancato, e il cane Tobias non corse e non abbaiò. Era la prima volta che accadeva. Non occupò il suo posto di guardiano. Il viottolo d’ingresso rimase deserto, il giardino incustodito, come pure il tavolo di legno e le panche sotto il pergolato con l’uva fragola ormai matura.

Dove si era cacciato il cane Tobias?

Non era lì, perché vagava stralunato con occhi di ghiaccio, fissi e vuoti, tra il cortile interno e il laghetto. Era da un po’ di tempo che si sentiva strano. Le oche, per ricordargli che doveva correre all’ingresso, gli starnazzavano contro, ma il cane barcollava, impaurito, in una direzione, poi in un’altra, rischiando, a causa delle zampe molli, di stramazzare al suolo ad ogni passo da quadrupede. Non  riusciva quasi a camminare, privo di forze e di energia. Come un ubriaco! Si nascose nel suo nascondiglio, sotto la tettoia in attesa che il tempo passasse.

Da quel giorno la stessa scena si ripeteva ogni volta che qualcuno si presentava all’ingresso. Quelle maledette oche! Maliziose. Da allora gli si erano rivoltate contro. Qualche ragione ce l’avevano. Il  cane Tobias non faceva più il suo dovere. Non correva a proteggere il cancello. E loro non lo lasciavano in pace. Spadroneggiavano chiassose! Gli si avventavano contro, perché volevano costringerlo a fare la guardia come un tempo. Colpite dai raggi rossastri del tramonto, in controluce, sembravano moltiplicarsi. Gli sfarfallavano addosso, luminescenti, con le ali aperte che aumentavano a dismisura la loro superficie corporea. Non c’era da meravigliarsi: in tempi antichi le oche del Palatino, della loro stessa specie, avevano difeso Roma dai Barbari!

“Lasciatemi in pace. Che ve ne importa di me?” abbaiava dentro di sé. Provava vergogna... e un inevitabile senso di sgomento. Era pur sempre un cane da guardia. Se lo ricordava solo per qualche momento, per via dello starnazzare delle oche, poi lo dimenticava completamente. Un cane più morto che vivo. Iniziava a scordare persino il padrone: l’amato zio Tobia.

Eppure lo faceva impazzire, quando arrivava fischiettando sul cortile, e quando alzava il braccio e schioccando le dita lo chiamava a sè. Il cuore, appena lo vedeva, gli esplodeva nel petto. Quella sua codona non stava più ferma, un’energia animalesca gli attraversava il corpo fino alla punta delle zampe pelose, se fosse stato un leone avrebbe ululato. Squassava il pelo per concentrare la forza, poi partiva e lo seguiva. Lo avrebbe seguito in capo al mondo.

Non scoprì mai che Zio Tobia non sarebbe più tornato.

La morte balla su zoccoli d’argento, traballanti, e ogni tanto cade, e trascina qualcuno con sé. Zio Tobia era stato trascinato via, nel periodo dei ciliegi fioriti. Non c’era più a calpestare i luoghi dove era nato e vissuto. Se n’ era andato all’improvviso, caduto tra i narcisi che stava raccogliendo lungo il bordo della strada verso il paese. Ne voleva raccogliere tre, uno per Margherita, uno per sé e uno per Tobias. Ma non fece in tempo, il terzo non si aggiunse agli altri due già raccolti, rimase sull’argine come se niente fosse accaduto. Dritto e altero. Un’automobile pirata aveva investito zio Tobia e senza neppure preoccuparsi di lui, aveva proseguito la sua corsa. Lo avevano portato all’ospedale, alla fattoria non era più tornato.

La morte si era preso il poeta, e con il poeta si era presa gli occhi, le mani, i piedi, il suo sorriso, i colori, le canzoni, i dipinti, le parole, le poesie. Il silenzio della sua voce entrava dentro alle orecchie di Tobias e gli torturava il cuore. Annaspava alla ricerca di una parola di richiamo che non arrivava da nessuna parte.

Margherita attraversava il cortile senza chiamarlo né con la voce, né con lo sguardo, né con lo schiocco delle dita, né con il fischio che diceva: ehi, dai, orsù, andiamo! Le ombre arrivavano lente.

Margherita, in inverno, non riusciva a sognare l’estate. In più nell’estate non riempiva la sua mente di luce, di colori, di profumi, di racconti, di viaggi, non raccoglieva nel suo cuore il calore del sole. Gli occhi di Margherita, senza zio Tobia, si spensero ancora di più alle bellezze del giorno. Il suo cuore non esprimeva amore, come se ne fosse priva. L’amore è passione, una dolce pazzia. Deriva dalla vicinanza, dal contatto, non ci può essere amore con l’indifferenza. Quando dovette occuparsi della fattoria perse la pazienza e la ragione. La fattoria divenne dura e fredda, perché cambiò il suo legame con il luogo. Tutto quello che era meraviglioso, improvvisamente divenne inutile. Non esiste la bellezza se non attraverso gli occhi di chi la guarda.

Per scaldare il suo cuore freddo, Margherita iniziò a bere.

Tutto cominciò con una Coca bevuta nel caldo di un pomeriggio: “Mettiamoci un goccetto di gin, dicono che diventa più buona e stuzzica il cervello!”

Si convinse che era buona anche se, in verità, quell’amarognolo finale lo trovava disgustoso.

Si abituò all’amarognolo, poi comprò della birra, gialla e spumosa, che lasciava tracce di baffi.

Sola nella cucina, al tavolo rettangolare, alzava il bicchiere…

“Salute! La schiuma mi stordisce, mi inebria, mi stupisce, mi toglie i pensieri, mi sento beata, piuttosto imbambolata!” canticchiava. La birra fresca era deliziosa, andava giù che era una meraviglia. La metteva un po’ di buonumore, la faceva sentire più allegra.

Poi cominciò a stappare le bottiglie della cantina, faceva avanti e indietro, svampita e inebetita. La fattoria stava andando in rovina. Le mucche muggivano disperate.

Arrivava, ogni giorno, un lontano cugino a mettere un po’ di ordine.

La ciotola gialla del cane - con la scritta gialla più scura: - Amico Cane - ( c’era scritto proprio così!), era a destra della cuccia, vicino alla finestra della cucina. Nella confusione più totale, quando la mente era annebbiata, Margherita aveva preso a versare birra, gin e vino anche nella ciotola del cane. Non gli importava niente di Tobias. Non voleva percorrere la sua strada buia in solitudine, ma condurre il cane con sé in un immaginario inferno. Voleva fargli del male, per gelosia.

Nella ciotola il cibo era affogato dentro liquidi con strani odori. Tobias vi affondava il muso più volte al giorno. Verso sera comparivano il tremolio delle gambe, il senso di vuoto, la fissità degli occhi, duri, acquosi. Comparivano le oche a starnazzargli contro.

Povero Tobias! Si sentiva stralunato, debole, infelice, e si nascondeva sotto la tettoia, passando oltre il trattore blu. Per legge di natura, non esiste una ruota perfettamente uguale a un’altra, ma verso sera, guardava la prima ruota e gliene compariva un’altra uguale, quasi sovrapposta. Vedeva doppio. Gli accadeva altrettanto con le quattro oche del laghetto, che gli sembravano otto, contro l’orizzonte che scuriva.

Faticava ad addormentarsi, aveva una sensazione di vertigine così forte che si sentiva precipitare in un vortice verso il centro di un abisso. Chiudeva gli occhi e aspettava, poi molto tardi si addormentava. All’alba lo svegliava il canto del gallo, ma non si muoveva, continuava a dormicchiare fino a metà mattinata. Chi passava davanti alla fattoria, non volgeva più lo sguardo a cercarlo. In poco tempo era sparito dai pensieri della gente.

A metà mattinata cominciava a stare meglio. Al tepore del sole recuperava forze ed energie. Si alzava lento e tranquillo e percorreva il tragitto dal portico fino alla cucina. Poi tutto ricominciava da capo, perché Margherita beveva al mattino presto e non si dimenticava di versare il suo veleno nella ciotola gialla.

Il dolore e l’ indeterminatezza entrarono per la prima volta nel cuore di Tobias. Si sentì incapace di reagire, non ci provò neppure, completamente impreparato ad una simile condizione. Era ormai la fine. Sarebbe bastato andarsene. Ma Tobias non era cresciuto con spirito intraprendente e con voglia d’indipendenza, ai cani da guardia gli si richiedeva solo fedeltà. Lui rimase fedele, ma di una fedeltà senza valore.

Passarono anche i giorni d’autunno. Sbiadirono i colori fino a scomparire. Poche tracce di verde, solo alberi spogli, foglie bagnate e a mucchi, colori spenti sotto un cielo che rare volte dava respiro a questo senso di oppressione. Il più delle volte stazionava la nebbia, una nebbiolina grigiastra, fredda e umida che entrava nel corpo a ingrigire anche le ossa. L’inverno, alla fattoria, portò un’angoscia ancora più marcata; nel cortile non tentavano neppure di prosciugarsi le pozzanghere, mentre il fango conservava le immobili impronte delle ruote del trattore, a cui si aggiungevano le tracce di qualche animale coraggioso che vagava come in un deserto.

La vita si nascondeva sotto terra, per rinascere dopo l’inverno. La nuova vita sarebbe esplosa a primavera, come tutte le primavere. Prepotente, inarrestabile. Ma intanto non lasciava trasparire nulla di quello che sarebbe accaduto, c’era solo immobilità, grigiore, silenzio. Le porte pesanti chiudevano dentro le luci e i suoni abituali, e li tenevano prigionieri.

La vita covava sotto la terra, in attesa. Ma Tobias non riuscì a vedere la nuova esplosione primaverile. Morì come zio Tobia. Annebbiata era la sua vista nel crepuscolo che anticipa la sera, quando rimase schiacciato sotto le ruote del trattore blu cobalto che il cugino di Margherita stava rimettendo al suo posto, sotto il portico, perché non sarebbe servito fino all’arrivo della nuova stagione. Fu buttato in una buca scavata lungo il fosso e coperto con palate di terra fredda.

In quell’anno 2020, con i ciliegi in fiore era morto zio Tobia, il poeta, e con lui, nella fattoria, la poesia, la narrazione, lo specchio riflesso delle emozioni. Morì la poesia, perché senza i poeti la poesia muore. Tra le foglie cadute e il freddo nel cuore, con la morte del cane Tobias morì anche l’amore, la fedeltà, l’amicizia. Nella penombra della cucina rimase Margherita con la sua solitudine, la mente vuota e nell’alito uno stomachevole odore di alcool.

L’anno era il 2020, ma avrebbe potuto essere il 2021… il 2022… il 2023…