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Il profumo della mia terra / Maggio 1^ parte

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Maggio (Duomo di Otranto)

 

Maggio risveglia  i nidi,

Maggio risveglia i cuori....

                                                                                                           (Carducci, MAGGIOLATA)

 Maggio è stato ed è considerato da tutti il mese più bello. Ogni ramo dell’arte si è ispirata a Maggio. A scuola chi non ha studiato poesie su Maggio, sulla Primavera, i fiori, le rondini, il cielo sereno?  A tal punto da condizionare anche quel caratterino speciale di nome Giosuè Carducci. Si ha l’impressione che le cose belle della vita non stiano più nella pelle e vogliano esplodere in una miriade di colori e di luce. Maggio tappezza di fiori le strade che ci conducono all’estate. E di speranze il cammino dell’esistenza!

 Il Rosario

 La pratica del Rosario nel mese di Maggio era ben radicata anche da noi. All’imbrunire ci si radunava nell’oratorio e lì la nonna intonava “Un terzo del Santo Rosario”.  Altre contrade invece, più scomode, si ritrovavano presso la Maestà, l’edicola che non mancava mai agli incroci più importanti o nel muro di casa. Mancare alla recita era come venir meno alla parola data.

 

Due mani che rispecchiano tutta una vita: lavoro e preghiera! (Foto Pigoni E.)

 

Il fascino della recita in pubblico del Rosario coinvolgeva tutti, anche se per motivi diversi. Noi piccoli, al termine, avremmo potuto restare assieme a giocare per il tempo che le mamme o le zie si scambiavano le proverbiali due parole, vale a dire almeno un’ora. Per i giovanotti era più facile che tra un’Ave Maria e l’altra ci fosse anche la possibilità di incrociare lo sguardo della ragazza che interessava. Gli adulti si passavano le ultime informazioni e poi parlavano di affari. E solo quando una serie di contagiosi sbadigli risuonava nel buio ci si decideva a prendere la via di casa nonostante i ripetuti Stē fôrt (fermatevi ancora).

 

Le  croci  nei  campi

Le croci sono pronte. Manca solo l’ulivo benedetto

La solennità ricorreva il tre Maggio, rinvenimento della Santa Croce. La celebrazione sacra ricordava il ritrovamento della Croce di Gesù, per l’intervento diretto di Sant’Elena, la madre di Costantino imperatore. La liturgia, però, puntava tutta l’attenzione non tanto sul fatto storico del ritrovamento, che non presenta tutte le garanzie dogmatiche necessarie, ma sul valore reale della Croce, scelta come strumento per la redenzione umana. I contenuti teologici la gente li lasciava a chi aveva tempo e voglia di disquisire. Le interessava avere qualcosa di concreto cui aggrapparsi e dal quale essere protetta. Un qualcosa che trascendesse i limiti umani troppe volte dimostratisi contraddittori. Da qui l’esigenza di porre a guardia del proprio lavoro un ente non direttamente interessato ma ben disposto verso chi lo invoca.

Qualche giorno prima si andava nel bosco e si tagliavano tante verghe quanti erano gli appezzamenti coltivati, poi, col becco della mannaia (la pudàja) si produceva uno spacco nella parte più grossa, tale da potervi inserire un listello lungo una ventina di centimetri e della stessa larghezza della verga. All’interno dello spacco veniva messo anche un rametto di ulivo benedetto, bene assicurato perché il vento non lo asportasse. I più diligenti curavano maggiormente la costruzione delle croci, ripulendole dalla corteccia e sagomando le estremità del traversino e la parte alta del montante.

2008: Al termine della messa all’aperto si riporta la statuetta della Madonna nell’Oratorio

La mattina del tre Maggio il capofamiglia, di buon’ora, faceva il giro conficcando una croce nel punto più alto di ogni campo, curando che la croce fosse ben rivolta verso il terreno coltivato. Oppure incaricava dell’impegno i figli ancora piccoli, sguinzagliandoli in direzione dei campi. Quella figura a braccia aperte doveva proteggere tutto il campo, tutta l’annata, e, quindi, ogni tipo di raccolto. Questa tradizione l’abbiamo ripresa per tredici anni a Castellaro, e ci sono stati episodi da destare tenerezza, come quella signora che mi ringraziò, prendendo la croce, dicendo: ”Io di campi non ne ho più, ma la croce la metto nel vaso grande davanti a casa”!.

 Le  Rogazioni

 Verso la fine di Maggio o nei primi giorni di Giugno si svolgeva un altro rito suggerito sempre dalle esigenze dei campi. Se l’annata si presentava arida, se mancava la pioggia per il fieno e per il grano ci si premurava di chiedere l’aiuto divino con le Rogazioni. Ma questo gesto valeva anche per scongiurare temporali e grandinate o, peggio ancora, gli incendi, le pestilenze e la guerra. “A fùlgure et tempestate; A flagello terræmotus; A peste, fame, et bello cantava il Sacerdote, e la gente rispondeva: “libera nos,  Domine.

Dalle nostre parti, il giorno fissato, il parroco, alcuni chierichetti e la gente della borgata percorrevano un tratto di carraia per raggiungere incroci o alture da dove si potesse dominare gran parte del territorio lavorato. Lungo il percorso si recitava il rosario, le litanie dei Santi e altre formule adeguate alla circostanza. Arrivati al punto scelto il parroco impartiva la benedizione, dopo avere invocato Dio perché concedesse la sospirata pioggia e allontanasse ogni tipo di sciagura, e quindi aspergeva con l’acqua santa i quattro lati corrispondenti ai punti cardinali.

2006: Ricollocamento della Croce alla Costa del bocco,

sull’antica strada per Gombio. (Arch. RS)

 Le Rogazioni sono nate nell’antica Roma. La Chiesa le ha riprese trasformando in sacro un rito pagano destinato a chiedere l’assistenza divina sui raccolti. In antico il rito si svolgeva il 25 Aprile (Rogazioni ordinarie maggiori) e nei tre giorni antecedenti l’Ascensione (Lunedì, Martedì, Mercoledì, rogazioni minori). Quelle straordinarie invece si tengono quando vi è una calamità urgente. Nella chiesa cattolica le Rogazioni furono istituite del vescovo di Vienne (Francia) san Mamerto.

E qui permettete una breve digressione. In un imprecisato paesino a levante del nostro una frana stava mettendo in pericolo la casa di Mingùl. Parroco e fedeli decidono di fare una processione propiziatoria per impetrare la salvezza della casa. La processione si avvia, il parroco intona le litanie dei santi intercalate dall’espressione tipica citata sopra. Gli uomini rispondono con la loro voce cavernosa: Lìbera nos Dòmine. Alle donne presenti il latinorum del parroco non piace molto, per cui decidono di interpretare in modo personale l’invocazione. Alla successiva proposta del parroco esse precedono gli uomini con questa invocazione, (trasformandola in un balletto): sa drìta la ca’ d’ Mingùl, turututùl, turututùl.

Pellegrini  a  Bismantova

 

 In viaggio verso Bismantova – 1937 – (Archivio Vanicelli).

Il mese di Maggio era anche il mese del pellegrinaggio alla Pietra, (come è detta Bismantova). Le famiglie si organizzavano in modo che nelle quattro domeniche del mese tutti i componenti, in turni diversi, si recassero al santuario. Normalmente le prime a muoversi erano le mamme. Come se volessero dare il buon esempio. Se la comitiva era consistente un poco prima del santuario iniziava la recita del Rosario, col doppio scopo di aiutare lo spirito e il cammino. Al santuario si fermavano solo lo stretto necessario per i sacramenti poi rientravano subito a riprendere i lavori della casa. I giovani, di solito, preferivano andarci l’ultima domenica conciliando il pellegrinaggio con una allegra scampagnata che prevedeva l’ascesa sul monte e un pranzetto al sacco. E questa era la comitiva più nutrita e più chiassosa.

Terminate le pratiche in chiesa prendevano il sentiero della cima. Sul pianoro comparivano ciambelle, pane fresco e affettati, a volte anche coniglio o pollo arrosto e l’immancabile fiasco di quello bianco preso dal Vasèl cìch, la botticella del vino buono. L’aria fresca e la vicinanza al sole davano la carica di gioia e spensieratezza che facevano dimenticare gli oltre quindici chilometri percorsi all’andata e da ripetersi per il rientro. Si, perché tassativamente a Bismantova ci si doveva andare a piedi. Solo i vecchi o gli invalidi potevano recarvisi sul biroccio o a cavallo.

 Il matrimonio

Maggio e Settembre erano i due mesi preferiti per celebrare i Matrimoni. Settembre era legato all’espletazione dei lavori più pesanti e agli ultimi periodi di tempo bello. Maggio lo sceglievano perché si era appena usciti dal rigoroso inverno e dagli impedimenti morali che sconsigliavano il rito festoso del matrimonio durante il periodo di Avvento e di Quaresima. Inoltre una eventuale gravidanza portava la nascita del figlio all’inizio della primavera, con vantaggi non indifferenti per il neonato e per la puerpera.

Data l’importanza del fatto e il rispetto che una volta si dava al sacramento, l’evento era scandito da un rituale preciso e solenne. Quando un figlio decideva di sposarsi il padre di questo si presentava alla casa della futura nuora per chiederne la mano. Un poco sul serio e un poco sul faceto si intavolava una discussione tra i due “vecchi” tale da far sembrare che la richiesta andasse a monte. Ma faceva parte della tradizione anche questo, ereditata forse dagli intrighi per le nozze di nobili e portata avanti più per gioco che sul serio. Ci si accordava quindi per la data, poi i nubendi, se ne avevano i mezzi, si recavano dal sarto per gli abiti. Se erano troppo poveri ci si arrangiava con quello dalla festa oppure si andava in prestito. Ho sentito raccontare di più fratelli che si sono sposati con lo stesso vestito. Poi iniziavano le pratiche burocratiche: andare insieme dal Parroco per tutti gli incartamenti e le pubblicazioni, e andare anche in comune per lo stesso motivo. Intanto altri preparativi fervevano nelle due case, con particolare interesse verso il pollaio e la cunjâra (la gabbia dei conigli) ....

Eusebio e Luigina si sono sposati nel 1911 e poi si sono trasferiti a Genova (Arch. RS).

Nel giorno stabilito lo sposo con gli amici si recavano nella parrocchiale della sposa e là la attendevano. La Messa doveva essere solenne il più possibile: meglio se era cantata con tre sacerdoti. Al termine il corteo con gli sposini si recava alla casa di lei per il pranzo che si protraeva fino al tardo pomeriggio. Si formava nuovamente il corteo per andare alla casa dello sposo. E mentre la comitiva camminava cercando la via più breve e più comoda, la giornata si avviava al crepuscolo. Dalle alture lungo il percorso si udivano spari. Gli amici degli sposi esprimevano così la loro gioia.

Nei paesi più prossimi alla toscana usava la cerimonia della consegna della sposa. In questo caso la coppia partiva assieme dalla casa di lei par andare in chiesa, ma vi erano ostacoli da superare. All’arrivo del fidanzato la sposa veniva nascosta, e alle richieste di lui i parenti presentavano altre persone (la sorellina, la nonna, la mamma, una finta gobba ecc.). Se gli amici dello sposo erano astuti e riuscivano a scovare la promessa sposa il gioco finiva subito. Davanti alla porta di casa un poeta improvvisato cantava un paio di ottave di buon augurio e di lode della sposa, cosa che puntualmente inteneriva madre e figlia. Terminata la sceneggiata si formava il corteo, ma non è ancora finita. Lungo il percorso c’era l’imboscata, come vedremo più avanti. In questo caso gli ostacoli venivano frapposti prima di celebrare il matrimonio.

Nella fascia del medio Appennino questa serie di ostacoli veniva rimandata alla sera. L’usanza voleva sottolineare le difficoltà che la coppia avrebbe incontrato (un esame per constatare se erano veramente pronti ad affrontare le difficoltà che la vita avrebbe riservato?), ma lo si faceva anche per dare alle cuoche il tempo di predisporre tutto per la cena. Ecco allora che la strada poteva essere impedita da una rosta fatta di tronchi e rami.

Nel nostro territorio il peggio per gli sposi arrivava quando il corteo raggiungeva la casa di lui. Puntualmente la porta era chiusa e nessuno veniva ad aprirla. Anzi, al momento che lo sposo bussava qualcuno dall’interno fingeva di non conoscere l’ospite invitandolo ad andarsene. Vi era tutto un formulario di battute scontate ma alle quali non ci si poteva sottrarre. Quando finalmente dalla cucina giungeva l’ok, il guardiano scorbutico fingeva di intenerirsi ed apriva la porta.

 Nei paesini più a monte del nostro, come si diceva, le due cose le facevano coincidere sullo spiazzo di casa improntando un grottesco processo che si concludeva con una sanzione per gli sposi sintetizzata del distico:   Qui non passa gente bella / se non paga la gabella.

Toccava allora all’avvocato difensore fare sfoggio di eloquenza per risolvere il problema, e agli sposi elargire confetti e liquori per concludere il processo.  Naturalmente la cena non poteva essere inferiore al pranzo altrimenti che figura avrebbe fatto lo sposo?! Le portate continuavano fino a tarda notte, irrorate dal miglior vino della cantina.

Le cuoche fanno bella mostra dei loro capolavori – 1963 – (Arch. RS).

Nelle case dove era possibile disporre di una stanza era facile che vi fossero anche i suonatori per fare i classici quattro salti. Altrimenti bisognava aspettare che il lambrusco producesse i suoi effetti per potere andare a letto. Ma non era ancora finita per gli sposi, perché puntualmente c’era lo scherzo nel letto. A volte si trattava solo del sacco, ma altre volte era più crudele: sulle lenzuola nuove, profumate di bucato, vedevi luccicare qualcosa: era lo zucchero che qualche bontempone vi aveva versato per impedire ai malcapitati sposi di potere dormire.

 

 

 

2 COMMENTS

  1. Maggio è un mese incredibile per l’esplosione della natura in Appennino. Ma è denso di significati anche per chi di noi ha avuto il piacere di nascere qui qualche anno fa. E, magari, ha fatto in tempo a vivere alcune delle tradizioni descritte da Savino. Avevo rimosso le rogazioni dalla mia memoria, poi, come un flash back eccole tornare alla mente grazie a quest’articolo. E mi rivedo con le braghette corte, la nonna che mi spiega delle rogazioni e scrutare curioso e intimorito l’orizzonte. Grazie Savino.

    (Gabriele A.)