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Il profumo della mia terra / Giugno 1ª parte

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Giugno   (Duomo di Otranto)

 

Giugno premia oppur castiga

con la paglia o con la spiga!

 Un altro vecchio adagio, ormai abusato e non più attuale (chi falcia più a mano?) diceva:

                                                       Giugno, la falce in pugno.

 Universalmente Giugno è il mese del raccolto più importante, il grano, delle giornate luminose, del lavoro che occupa già molte ore. Ma questa condizione è valida per i paesi della pianura e poco oltre. Per noi, e, soprattutto, per quelli più prossimi al crinale, mietitura e trebbiatura avveniva più tardi, a Luglio avanzato.

È anche il mese dei primi frutti (ciliegie, pere di San Luigi) e dei fiori più accattivanti e simbolici, come i gigli. Giugno, insomma, è un mese tutto da vivere, con buona pace per il contadino che, d’ora in poi, avrà ben poco tempo per riposare.

 I   fieni

Durante il mese di Maggio, normalmente, il fieno raggiungeva la giusta altezza e consistenza per essere falciato. Inizialmente si cominciava a darne alle mucche qualche forcata per abituarle all’erba fresca ed evitare che, dopo la stagione invernale, il cambio di alimentazione facesse loro male. Derbâr era il termine usato per indicare il passaggio all’erba fresca. Si destinava un appezzamento di prato per somministrare, ogni giorno, fieno nuovo alle mucche, ed ogni giorno il boaro andava in quel prato a prendere un poco di erba fresca, a volte a spalla, col Curghèt, altre invece col biroccio, in base alle esigenze della stalla. Ma bisognava anche pensare al resto dell’anno quando non vi sarebbe stato più fieno da falciare.

 C’è chi ammucchia e chi rastrella il fieno – 1957 – (Foto RS).

Per il fieno da conservare invece si partiva all’alba, in scala: iniziava il capofila, colui che dava la campata (antûn) e la cadenza delle falciate. Quando questi era abbastanza lontano partiva il secondo, e così fin che c’erano sgadûr. Un bel prato richiedeva alcune ore di lavoro. Di tanto in tanto bisognava fermarsi a dare la prêda al fèr, vale a dire ad affilare la falce con la cote. L’operazione della battitura (bàtre al fèr, o la fèra), invece, la si rimandava, preferibilmente, a quando la squadra rientrava per il pranzo.

Si aspettava che in superficie il fieno fosse secco, poi si rivoltavano le scie in modo che seccasse anche sull’altro lato, quindi si cominciava la raccolta. Col forcale si preparavano dei mucchi paralleli in modo che tra due di essi vi potesse passare un biroccio, poi lo si caricava. Una volta a casa, a secondo della disponibilità, lo si riponeva nel fienile (la tèša) ben ordinato e ben squadrato come se fosse una parete (al rêd), oppure si iniziava a costruire il pagliaio in prossimità dell’aia.

 

Il fieno veniva disposto in forma circolare. Via via che si saliva si tendeva ad allargare la circonferenza, poi, dopo un paio di metri, si riprendeva a stringere lentamente e a dare al fieno esterno una pettinata in modo che portasse la pioggia verso l’esterno. Al culmine si ponevano come due bretelle di fili di ferro di lunghezza variabile ai cui estremi era fissato un sasso. Si mettevano in forma di croce per bloccare i quattro lati e impedire al vento di scompigliare il pagliaio.

 La   mietitura

 Da noi la mietitura iniziava tardi. Il primo giorno utile era la festa di San Giovanni Battista (24 Giugno), ma il culmine arrivava solo per San Pietro (29 Giugno) e nei giorni seguenti.

Per Sân Švàn al furmênt l’è da tajâr

e la cavajunâra da fâr!

Mietitori nei dintorni di Selva di Trinità (Comune di  Canossa) 1954. (Foto Fontana).

All’inizio si cominciava con qualche piccola presa (bulâdi) ove il grano era più pronto, sia perché non si seccasse troppo, sia per permettere al resto di maturare meglio. Ma nel momento culminante bisognava correre. Allora ci si dava una mano tra famiglie. Si andava ad aiutare chi aveva il grano meglio esposto e più maturo in cambio di manodopera per quando sarebbe stato pronto il proprio. Perché il contadino sapeva quando era il momento giusto per mietere:

Se t’ vö tanta farîna

mèd la spîga quànd la strîna!

E tutto veniva fatto a mano: con la sinistra si prendeva una manciata di spighe, con la falce nella destra si tagliavano circa a metà gambo poi si riunivano in manipoli (manèli) legandole con alcuni steli dello stesso manipolo, poi si riponevano sullo strame con le spighe rivolte tutte nello stesso senso e possibilmente sollevate da terra. L’accorgimento evitava che nella notte o in caso di pioggia i grani prendessero troppa umidità. Quei manipoli venivano detti anche Pulàster. Quando i manipoli erano ben asciutti si procedeva a fare i covoni che venivano ammucchiati in biche (cavajûn) sempre con le spighe rivolte all’interno, estremo tentativo di proteggersi anche dagli uccelli. Per la legatura dei covoni si potevano usare legacci di legno (stròpi), ricavati in prevalenza da getti giovani di castagno o di salice, altre volte da un non meglio identificato arbusto che in dialetto viene chiamato intàna, oppure si utilizzavano steli di paglia di segale o dello stesso frumento appena mietuto (ligàm).

Notevole era una volta la solidarietà tra le famiglie quando si trattava del raccolto più importante. Ci si aiutava a mietere, a legare, a trebbiare.

Una bella tradizione era quella degli stornelli. Durante la mietitura, ma anche in altre circostanze, ogni tanto ci si fermava per un breve riposo. Se nei dintorni vi erano altri gruppi intenti ai lavori di stagione qualcuno cominciava a cantare. Si trattava di stornelli, e l’altro gruppo, provocato, era in qualche modo costretto a rispondere. Il duello si protraeva per la durata del riposo. Dopo era opportuno riprendere il lavoro.

I  primi  frutti  di  stagione

Nella seconda metà di Giugno arrivavano anche i primi frutti dell’anno. Per primi erano i duroni a cambiare colore, dal verde al giallo, poi al rosa, infine a un bel rosso rubino. L’abbondanza del raccolto consigliava di destinarne una buona parte alle confetture se non vi era la possibilità di venderle. Poi toccava alle ciliegie selvatiche, cioè non innestate, più piccole dei duroni, ma dal sapore più intenso a seconda del tipo di pianta e del terreno sul quale si trovavano. A fine Giugno inizio di Luglio, era la volta delle amarene. Quelle che non si consumavano in casa si facevano cuocere per produrre il maraschino oppure si mettevano entro dei vasi sotto spirito.

Allo stesso periodo comparivano anche i fioroni, la prima raccolta di fichi. Quella migliore sarebbe arrivata verso Settembre. Da soli o col pane, direttamente dall’albero o dal cestino in casa, costituivano una eccellente merenda. E anche questi, se ve ne erano in esubero, venivano aperti e fatti seccare al forno, poi messi in un vaso di vetro per la brutta stagione.

Le pere di S. Luigi, erano chiamate così perché giungevano a maturazione intorno al 21 Giugno, giorno più o giorno meno. In alcuni posti vengono dette anche pere di San Giovanni. Dalla colorazione che assumevano al momento della maturazione venivano anche dette, in dialetto, Pêr bianclîn, ossia pere pallide, pere sbiancate. In realtà la colorazione tendeva al giallo, ma tant’è. Avevano il brutto guaio di deperire in fretta, producendo al loro interno il maghèt, ossia una precoce inclinazione a marcire. Per non perdere il raccolto quelle che non si consumavano venivano essiccate al forno o al sole, alcune intere, altre a fette. Quelle intere diventavano i noti Pêr sèch, quelle a fette le si chiamavano Flìpi.

La  Santa  Comunione

 

Prima comunione a S. Stefano

In molti luoghi del nostro Appennino la Santa Comunione veniva amministrata durante il mese di Maggio o nella prima metà  di Giugno. Il parroco faceva in modo di celebrare la Prima Comunione in anticipo sulla festa del Corpus Domini, il giorno dedicato appunto all’Eucarestia.  In questo modo avrebbe avuto uno stuolo di bimbi per la processione. Per i comunicandi la preparazione era intensa. Ma anche coloro che la Comunione l’avevano già ricevuta venivano coinvolti. Esisteva infatti la Seconda e anche la Terza comunione solenne che impegnavano i ragazzi per un periodo considerevole.

Quel giorno dovevamo essere rigorosi con noi stessi. Ai nostri tempi vigeva ancora la legge del digiuno dalla mezzanotte e quindi bisognava stare attenti a non ingerire neppure una briciola o una goccia d’acqua.

La chiesa addobbata dava già un tono di solennità all’evento. Lo completavano gli abiti accurati del gruppetto di bambini disposti in un settore riservato, in chiesa, e la presenza di tanti parenti. Certo non si poteva nascondere una buona dose di emozione: parroco e parenti seri insistevano sul fatto che andavamo a ricevere nientemeno che il Signore in persona e quindi dovevamo esserne degni. E al momento di ricevere la particola qualche goffaggine scappava di sicuro: non si doveva masticare la particola, ma quella si appiccicava al palato e, in qualche modo, bisognava pure farla sciogliere! Al termine della Messa il parroco invitava i neocomunicati in canonica per un goccio di caffelatte e un pezzetto di torta. E la cosa ci faceva sentire importanti.

Lungo il tragitto di ritorno era tutto un congratularsi da parte di coloro che non erano intervenuti alla cerimonia. Giunti a casa si consumava il pranzo che, in definitiva, non differiva da quello delle altre domeniche, poi si poteva andare in giro per il borgo, o a visitare parenti, col vestito bello, rincorsi dai richiami delle mamme che si raccomandavano di non sporcare l’abito. A quei tempi non usava ancora fare regali o pranzi. Al massimo qualche parente poteva donare qualche soldino con la raccomandazione di “farne conto”.

Famiglia al completo in occasione della Prima Comunione

 1920/ 1925 circa  (Archivio RS)

Il Corpus Domini

La festa del Corpus Domini un tempo era molto sentita, come del resto tutte le funzioni religiose. Un tempo la si celebrava il Giovedì successivo alla festa della SS.ma Trinità, vale a dire dieci giorni dopo la Pentecoste, sessanta dopo la Pasqua. Col concilio Vaticano II la festa è stata spostata alla domenica successiva.

 

Infiorate per il Corpus Domini 

 A convincere la Chiesa ad istituire questa festività hanno contribuito diversi elementi:

  • Nel 1208 suor Giuliana del monastero agostiniano di Mont Cornillon ebbe una visione in cui Gesù le chiedeva di adoperarsi perché venisse istituita la festa liturgica dell’Eucarestia. La festa fu istituita nel 1247, ma limitata alla diocesi di Liegi.
  • In quell’epoca un teologo, Berengario di Tours, sosteneva che la presenza di Cristo nell’Ostia era solo simbolica. Contro tale tesi si cominciò a dare importanza alla festa dell’Eucarestia.
  • Nell’estate del 1263 un sacerdote boemo, Pietro da Praga, che dubitava della reale presenza di Cristo nell’Eucarestia, si recò a Roma per pregare sulla tomba di Pietro. Rasserenato, riprese la via del ritorno. A Bolsena i dubbi lo assalirono nuovamente. Mentre celebrava la Messa nella chiesa di Santa Cristina, alla consacrazione, l’Ostia cominciò a sanguinare. Pietro raccolse l’ostia nel corporale, corse a riporla in sagrestia, poi si recò dal Papa che era in Orvieto. Nel 1264 Papa Urbano IV° estese la festa a tutta la Chiesa.

Reliquiario di Orvieto

Le disquisizioni e i dibattiti non cessarono, e neppure le “dimostrazioni” che quello non era un miracolo soprannaturale. Ma la festività acquistò tanta importanza che divenne una gara a chi la rendeva più fastosa. E, in pratica, il Duomo di Orvieto è stato costruito per custodire le reliquie del miracolo di Bolsena.

Da noi il parroco faceva una preparazione alla festività insistendo sul valore dell’Eucarestia. In particolare organizzava i bambini che avevano fatto la prima comunione. Il giorno della festa dovevano recarsi in chiesa col vestito della Iª Comunione, e le bambine portavano un canestro con dentro petali di fiori da spargere lungo il tragitto davanti al sacerdote e all’Ostensorio. E, lungo il tragitto della processione, alle finestre comparivano drappi, tappetini, oggetti ricamati.