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Aristide Gazzotti ricorda la sua notte in una cella cilena

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Come hanno risposto alcuni al messaggio precedente: ricordo di una brutta esperienza, però Dio si fece presente quel pomeriggio dell'incidente, 5 anni fa, sfoderando una delle sue più nutrite schiere di angeli custodi.
Come scrivevo, quel ricordo è forse ancora vivo per alcuni.
Per alcuni, ma probabilmente ben pochi sanno che quella notte dell'incidente la passai in una cella della postazione dei carabinieri, sul lungomare di Arica. Sì: passai la notte in una fredda cella cilena.
La responsabilità dell'incidente era mia e dovevo risponderne, il giorno seguente, davanti ad un Giudice di Garanzia Cautelare.
Che notte!
I carabinieri si comportarono molto bene con me, con molto rispetto.
Mi parve che dispiacesse più a loro che a me rinchiudermi dietro quelle sbarre.
Ore prima mi avevano interrogato, controllato i documenti e realizzato l'esame di alcolemia in ospedale, fatto, questo, utile perché mi aveva dato la possibilità di rivedere tutti i nostri, bimbi e adulti, che stavano ancora realizzando accertamenti medici proprio lì.  Così seppi della situazione di ognuno. La prognosi per la professoressa Maribel era ancora riservata, purtroppo.
Quella notte non dormii, sdraiato come potevo su quel aspro sedile di cemento.
Prima mi tolsero i lacci dalle scarpe e dalla tuta.
Pensavo e pregavo. Non vedevo bene il futuro. Intravvedevo solo, dalla piccola inferriata della finestra, un cielo cupo. E da lì entrava la brezza notturna dal mare: sembrava il fruscio di una pioggia leggera, ma ad Arica non piove mai.
Passata la mezzanotte, gli amici riuscirono ad individuarmi. Mi portarono coperte e da mangiare, ma non accettai niente, chiuso nel silenzio per quella durissima esperienza.
Ero molto preoccupato per la salute di Maribel: poteva aver perso il braccio.
Non sapevo cosa sarebbe successo il giorno seguente, che era sabato, e non era neppure sicura la presenza di un Giudice per quel fine settimana.
...
Al mattino alle 6 il mio angelo custode notturno, vestito da carabiniere cileno, venne ad aprire le sbarre della cella. Ero l'unico trattenuto lì quella notte.  Mi chiese se gradivo una tazza di tè. No. Mi restituirono i miei documenti. Firmai un quaderno, ma non mi restituirono i lacci. In breve saremmo partiti per il tribunale. Mi avvisarono che normalmente la procedura era più rigida, ma che per riguardo verso di me non mi avrebbero ficcato in un  furgone blindato, fidandosi della mia poca pericolosità. Le manette me le misero solo all'arrivo nei pressi del tribunale. Lì mi presero in consegna alcuni gendarmi che mi fecero scendere ad un'altra cella più tetra e oscura nel sottosuolo del Tribunale. Anche quei gendarmi avrebbero voluto darmi una cella a parte, ma quel fine settimana nel loro hotel c'era troppa clientela e avrei dovuto condividere lo spazio. Non c'era neppure posto per sedersi.
A questo volevo arrivare con il racconto dell'incidente: il ricordo, le impressioni e le storie incrociate con quanti erano in cella con me quel sabato mattina in attesa dell'udienza. Ricordo i volti, alcune storie difficili.
Il signore ubriaco che si sfogava senza sosta perché era stato denunciato dalla moglie che non voleva più saperne di lui. Ma lui non le aveva fatto del male. Era andato a casa solo per vederla pur avendo interdizione legale di avvicinarsi a lei. Non l'aveva toccata, ma non resisteva lontano da lei. Voleva sapere come stava e se aveva cambiato idea, ed era entrato in casa pur essendo ubriaco fradicio. Il Giudice avrebbe capito le sue ragioni? Cosa ne pensavo io? Era colpevole di omissione e disobbedienza? Io riuscivo appena ad ascoltarlo: era in uno stato penoso e faceva compassione.
C'era anche un giovane senza età definibile, tutto sporco, che in quelle ore non alzò mai la testa abbracciata tra le sue mani. Perché stava rinchiuso lì in attesa del suo verdetto? Sembrava non gli interessasse più niente della vita. Più tardi arrivarono due ragazze giovani, fuori di sé probabilmente per droga. Erano ben vestite e ordinate, ma parlavano sotto voce tra di loro. La guardia le trattava male. Clienti frequenti di quel luogo? Cercavo inutilmente di scoprire il mistero del loro possibile delitto.
Arrivarono anche alcuni giovani tutti imbrattati di sangue. Li spinsero dentro in cattivo modo. Reagirono, ma erano ammanettati e potevano fare ben poco contro quei gendarmi energumeni, ben esperti nell'affrontare qualsiasi tipo di situazione.
Passai tre ore in quella cella, spettatore di un mondo non so se di vittime o di delinquenti, io momentaneo delinquente come loro. Solo guardavo e non mi sentivo né migliore né differente da quello strano campionario di umanità.
Seppi poi che tutte quelle persone vennero condannate a misure cautelari di detenzione preventiva. Un dispiacere.
Mentre guardavo e ascoltavo, venne l'avvocato d'ufficio a conoscermi per farsi carico del mio caso. Uomo di grande amabilità, con cui ci siamo ritrovati anche in occasioni posteriori, in luoghi più piacevoli.
Mi spiegò il senso e il procedere dell'udienza. Mi disse che era necessaria tutta quella formalità, ma che non dovevo preoccuparmi: il Giudice avrebbe dettato misure alternative nel mio caso per il delitto di "lesioni gravi e gravissime". Fu così. Anche se devo dire che la Giudice si dimostrò più scorbutica del previsto. Però: che importa. Durante un anno avevo l'obbligo di presentarmi in tribunale per firmare ogni tre mesi il libro di buona condotta e non reincidenza. All'una del pomeriggio uscii dal tribunale e poco prima i gendarmi mi tolsero le manette: libero! libero di ritornare dai nostri bimbi che nel frattempo avevano subito una incredibile trasformazione, felicissimi e spensierati. Infatti: tutta la città si era interessata della loro vicenda. Era venuta la televisione ad intervistarli. Il Sindaco e il Prefetto avevano messo a disposizione durante il periodo del soggiorno un pullman con autista compreso. Venivano mamme a portare dolci e regali. La mensa comunale si incaricò del pranzo e della cena per tutti noi, bibite incluse. Tour in barca e uso di piscina privata. Regali speciali per ognuno dei nostri bimbi.
Ben presto tutti si erano dimenticati dell'incidente e della Bolivia: viva il Cile! Del rientro in Bolivia si incaricò, alla fine, il Consolato boliviano.
Solo Maribel dovette stare in ospedale per tutto quel periodo, ma i bravi medici cileni salvarono il suo braccio. Le due sorelle, che furono le prime a soccorrerci, l'ospitarono con molto affetto nella loro casa e da allora non hanno mai perso il contatto con lei. Grazie all'aiuto del loro papà, dopo tre mesi il pulmino delle suore, tutto scassato, riprese la strada del rientro in Bolivia, su un camion. Grazie all'aiuto disinteressato di altri amici potemmo riparlo e farlo tornare come nuovo: quasi incredibile. Lo restituimmo -sano- alle suore e, ovvio, mai più glielo chiesi in prestito!
...
Ogni volta che scendiamo ad Arica passiamo per il chilometro 82, ben segnalato. Passiamo con calma, e in silenzio ringraziamo...
(Aristide Gazzotti)

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