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“Lost in translation”, ovvero “sull’amicizia”

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Per chi si sente solo. Per chi si sente estraneo. Per chi continua a farsi troppe domande. Per chi ricerca tenerezza. Per chi è felice, perché no? “Lost in translation” è il vostro film.
La storia è semplice: Bob, attore americano al tramonto, si reca a Tokyo per girare lo spot di un whisky, allontanarsi per un attimo dalla moglie, ritrovare se stesso; nello stesso hotel soggiorna Charlotte, giovane laureata in filosofia, anch’essa americana, da due anni sposata con un fotografo e già in preda a milioni di dubbi. Anime sole nell’enorme e chiassosa metropoli, i due si cercano, si conoscono, si frequentano, condividono solitudini e smarrimenti. Nasce un’amicizia vera, talmente profonda da risultare inverosimile, d’altri tempi. Un’amicizia che li cambierà per sempre, che darà loro la linfa necessaria per guardare avanti sorridendo.

“Lost in translation” è un dolcissimo apologo sull’amicizia, declinata in tutte le sue componenti.

Bob e Charlotte si parlano a lungo e sanno ascoltarsi, al bancone del bar o sdraiati sul materasso, davanti a strane pietanze etniche o nella sala d’aspetto di un grande ospedale; spesso si parlano rimanendo in silenzio, con sguardi che penetrano, smorfie che strappano sorrisi e gesti che farebbero invidia al più giocherellone dei bambini. Si parlano quando sono distanti, l’uno tra i vapori della vasca da bagno, oppure a letto con la cantante della hall, l’altra nel giardino delle ninfee di Kyoto. Il loro parlarsi diviene bisogno, necessità di sopravvivenza, perché amicizia è comunicazione.

Bob si prende cura di Charlotte, la porta in braccio sino al letto, addormentata e appagata al termine di una serata di drinks e karaoke; le racconta di lui, di sua moglie, dei suoi figli, le spiega come cambia la vita quando si diventa genitori, con tutto il cuore affronta i suoi dubbi su di un futuro ancora immaginato, donandole ottimismo. Allo stesso modo, Charlotte si prende cura di Bob, contagiandolo con la dolcezza dei suoi vent’anni, traghettandolo tra taxi, discoteche e sale giochi nelle notti pazze della metropoli, chiedendogli di raccontarsi, prendendolo per mano. Sono una strana coppia, Bob e Charlotte, tra loro nasce quella alchimia perfetta che permette all’uno di capire quando l’altra ha bisogno di aiuto, e viceversa, e tutto ciò risulta spontaneo, naturale, perché amicizia è prendersi cura vicendevolmente.

Bob e Charlotte non si vergognano delle loro stranezze, delle loro debolezze, dei loro dubbi. Come bambini che giocando esternano emozioni insospettabili, giorno dopo giorno il loro rapporto si fa sempre più buffo e profondo, ludico e sentimentale. Agli sguardi curiosi e indagatori seguono sorrisi e lacrimucce, grida e sussurri, la complicità in ogni piccolo gesto o intenzione, perché amicizia è offrirsi all’altro gradualmente, senza far violenza, con generosità.

Bob è sulla soglia della mezza età, ha alle spalle una vita interessante e guarda le cose con disincanto; Charlotte è giovane, la vita deve ancora in gran parte conoscerla, e nei suoi occhi ancora si riflettono i sogni di quando era bambina. La loro amicizia non è ostacolata dalle differenze generazionali, ma, al contrario, è rinvigorita da queste.
Bob è maschio, Charlotte è femmina, ma i punti in comune sono tanti, e l’amore è fra loro una possibilità respinta a priori. È possibile l’amicizia tra un uomo e una donna, così come tra persone appartenenti a generazioni distanti, perché l’amicizia va oltre le barriere.

Tenerezza, gentilezza, complicità, dolcezza, bisogno reciproco, parole romantiche, giornate indimenticabili, ma anche gelosia, tormento, sensi di colpa, riconoscenza, perdono. Risate, pianti, insicurezze, sorprese. Il piacere di scoprirsi. Meraviglia. Un legame viscerale. Il dolore dell’addio. La speranza di rincontrarsi presto. La certezza di rincontrarsi prima o poi, da qualche parte nel mondo, e che sarà per sempre. L’amicizia tra Bob e Charlotte racchiude tutto ciò, e molto di più. Sfugge alle parole, alle immagini, a ogni possibile interpretazione. Si fa intima, magica, di un altro pianeta. Sfugge alla forza di gravità. Si fa assoluta. Perfetta. Unica. Per molti versi, simile all’amore, anche se essa non è mai stata amore, non è mai voluta essere amore. L’amicizia, quella vera, non è meno profonda dell’amore, né meno importante, meno totalizzante, sconvolgente, rivoluzionaria, spirituale, preziosa. Potente. L’amicizia non è amore, perché essa si basta da sé, è completa in sé, non ammette altro.

Guardatevi “Lost in translation”, capirete che cos’è l’amicizia. Il tempo di orientarvi nel caos di Tokyo, e ben presto anche voi diventerete amici di Bob e Charlotte. Potrete così penetrare nei loro smarrimenti, captare i loro desideri, condividere i loro pensieri. L’indomani, vi metterete a fare smorfie come il vecchio Bob, oppure cercherete tra la folla quel paio di occhi acquosi che all’istante vi porteranno altrove. Gli occhi di Charlotte. Occhi che guardano al futuro. Con coraggio e fragilità. Cercando qualcuno in grado di capirli. Cercando un amico.

Lost in translation, regia di Sofia Coppola, con Bill Murray e Scarlett Johansson, USA, 2003, 102 minuti