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La speranza e l’orgoglio

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Una ben strana domanda

Vagando, un giorno, per un solitario sentiero di montagna, fra boschi immersi nel riverbero d'oro della sera, una domanda si faceva spazio fra i miei disordinati pensieri:
"Per chi canta il gallo?"
Eh, caro lettore, mi par già di sentirti: "Per chi canta il gallo?! Ma che razza di domanda è?! Costui deve essere un pò sbalestrato se su un sentiero di montagna si pone simili quesiti!"
Signori miei, quanto avete ragione...! Ma, a mia parziale giustificazione, dirò che tale domanda era, in un certo senso, come una di quelle note ossessive, uno di quei ritornelli incalzanti, che a tutti, certe volte, capita di sentire risuonare nelle orecchie e rimbalzare dentro la scatola cranica coma la pallina di un flipper; insomma, come uno di quei riff che ci fanno, inconsapevolmente, tamburellare le dita sul tavolo e battere il piede sul pavimento inseguendo un ritmo che solo noi sentiamo.
Ebbene, io, avanzando come un imperatore fra due cespugli di felci trasfigurati dall'autunno, andavo considerando le bellezze dell'Appennino; il suo futuro, il suo passato, le genti che lo abitano e che lo hanno abitato. E fra tutte queste meditazioni, ripetitivo come un mantra e fastidioso come un singhiozzo, il solito quesito bussava ai miei pensieri: "Per chi canta il gallo?". E immerso com'ero nella contemplazione delle vette che un suggestivo balcone naturale, all'improvviso, offriva al mio sguardo, mi capitava anche di cercare, senza troppa convinzione, una risposta a questa bislacca domanda.
Il gallo canta per festeggiare il nuovo giorno o per dare la sveglia al pollaio?
In ogni caso, mentre seguivo, non senza un malsano piacere, i processi del pensiero, a tale domanda si associava in me un sentimento oscuro e profondo: la necessità di un risveglio...

Il bilancio

La fine dell'anno si avvicina ed è tempo di bilanci.
Un bilancio: incombenza dei commercialisti, timore e tremore delle aziende in crisi e finanche della casalinga di Voghera che, a causa del nuovo conio e delle furberia tipicamente italiana di chi ci ha speculato sopra, non riesce ad arrivare alla fine del mese.
Ognuno, alla fine di un anno, ha il suo bilancio da fare. Un bilancio non lo si nega a nessuno. Il bilancio è legato alla fine dell'anno quanto le donne sgallettate lo sono ai palinsesti televisivi, quanto il cacio lo è ai maccheroni e la corruzione alla politica.
Prima, dunque, che la gente si infili le mutande rosse, prima che faccia saltare tappi di spumante dozzinale e si faccia saltare le dita con i mortaretti; prima che la gente si auguri, cinicamente, tutto quel bene e quella felicità che, nell'anno in corso - con ogni probabilità - non ha minimamente contribuito a realizzare; prima di tutto ciò, dicevamo, bisogna ritagliare una fetta di tempo per stilare il bilancio. E magari servirla sul piatto dei dolci, tra una fetta di pandoro ed una di spongata, affinché l'ultima incombenza dell'anno risulti, se non meno indigesta, un po' meno amara.
Noi, con tutta l'umiltà di chi sa bene di non avere neppure i rudimenti di ragioneria, vorremmo avventurarci a scattare una sorta di istantanea all'Appennino.
Come sta questo esimio paziente? E' in coma o scoppia di salute? Sta per essere quotato in borsa o rischia la bancarotta? Insomma, proviamo a tracciare il bilancio, che per pianificare il futuro, beh, basterà leggere l'oroscopo dell'astrologo di turno...

I luoghi

Dire Appennino reggiano, ce ne rendiamo conto, significa dire, quasi esclusivamente, Castelnovo Monti.
Castelnovo, capitale della montagna, omphalos, caput mundi di questo piccolo lenzuolo di terra. Castelnovo è al tempo stesso la risorsa e il vulnus dell'Appennino reggiano. Castelnovo, cittadina che della città ha solo parzialmente i pregi e quasi tutti i difetti. Castelnovo, fondamentale risorsa lavorativa, culturale ed economica dell'Appennino e di tutte quelle persone che, altrimenti, non avrebbero altro destino che quello di imboccare la statale 63 o la fondovalle Secchia ed emigrare in pianura. Castelnovo, grattacapo urbanistico di chi cerca di raddrizzare le storture di un paese che ha avuto uno sviluppo incontrollato e privo di pianificazione. Castelnovo, al tempo stesso, cuore che distribuisce ossigeno alla montagna e tumore che ne fagocita le risorse.
Noi crediamo che la sfida del futuro non sia soltanto trovare il trait d'union tra la montagna e la pianura, ma anche trovare il punto di equilibrio per quanto riguarda i rapporti interni tra la capitale della montagna e i Comuni e i paesi che la circondano. Se, dal punto di vista turistico, Castelnovo ha il pregio di identificare in maniera univoca un territorio, dall'altro ha il difetto di svilire la ricchezza della montagna nel suo complesso.
L'Appennino reggiano è terra d'acqua e boschi di castagno, terra d'aria e di brughiere sommitali. Terra dove lo spazio si trasforma in tempo.
Oltre a Castelnovo, questi vasti spazi sono punteggiati da una costellazione di paesini che, adagiati placidamente su un pianoro o inchiodati ad un pendio, mantengono spesso un'aria assonnata e, nonostante tutto, lo stile vecchio di una saggezza contadina. In molti casi, all'osservatore distratto, può talvolta sorgere il dubbio che in questi paesi non vi siano più tracce di vita. In alcuni casi è così, purtroppo. Ma bisogna anche ammettere che questi paesini, al pari di Castelnovo, hanno subito, nei decenni passati, degli autentici stupri edilizi; stupri che ne hanno, in molti casi, alterato completamente la personalità, la fisionomia e la tradizione costruttiva rendendoli più o meno tutti simili. Anche i paesi hanno un'aura, una sorta di alone che coloro che li hanno costruiti ed abitati hanno, involontariamente, contribuito a realizzare. Ancora oggi, osservando le rose celtiche scolpite su certi portali e osservando mura di fienili crollati e parzialmente ricoperti dalla vegetazione, si possono immaginare le mani abili dei Maestri costruttori che le innalzarono; tendendo l'orecchio, forse, si può ancora udire il mugghiare dei buoi tra l'oro della paglia, e la narrazione dei racconti al lume delle candele che scandivano le sere precoci e senza televisione.
"La virtù sta nel mezzo" era la regola aurea dei filosofi greci. Tecnologia e tradizione non sono inconciliabili. Costruire il futuro sulla memoria: ecco la sfida perché l'Appennino reggiano diventi sempre più un luogo a misura d'uomo in cui sia piacevole vivere. Anche per gli uomini del 2006.

Le genti

- "Svegliatevi!"
- "...?!"
Ma no, no, caro lettore...Non farti ingannare! Qui i Testimoni di Geova che di sabato mattina vengono a suonare alla porta per distribuire l'omonimo opuscolo non c'entrano nulla!!
"Svegliatevi!" è quello che vorremmo dire alle persone che abitano la montagna.
"Svegliatevi!" vorremmo dire ai politici di ogni colore. Svegliatevi e smettetela con i giochini di potere e gli scambi di poltrone, con le gazzarre indegne, con le denuncie reciproche e la politica miope e di piccolo cabotaggio.
"Svegliatevi!" vorremmo dire ai cittadini della montagna. Svegliatevi dal vostro torpore e dalla vostra apatia. Smettetela con le lamentele sterili e il disfattismo. Smettetela di inebetirvi davanti alla televisione; riacquistate passione civile e voglia di fare. Non deleghiamo sempre ad altri quello che possiamo fare noi stessi.
L'Appennino reggiano ha grandi ed importanti possibilità! Ma anche la più splendida delle scenografie teatrali diventa una scatola vuota se non è supportata da un'orchestra che suona all'unisono e in maniera compatta. Dispiace dirlo, ma crediamo che, ora come ora, all'Appennino reggiano manchi proprio quel lievito che solo può favorirne lo sviluppo: l'uomo.
La montagna è sempre stata abitata da gente cocciuta, testarda. Gente fedele alla terra. Gente fedele a una terra che non ha mai "dato tanto e che faceva bestemmiare", salvo poi riconciliarsi con Dio vedendo i prati trapunti di fiori e un sole languido tramontare sul Cusna.
Ora che il vento è cambiato e che la tenacia dei nostri avi potrebbe consentirci di raccogliere diamanti da questa terra, ecco che, in noi, la tenacia sembra venuta meno e la lungimiranza ottenebrata.
Dov'è finita la pazienza dei nostri avi nel curare le piaghe della terra prima che queste si trasformassero in cancrena? Dov'è finito quell'intuito tutto contadino che li faceva guardare al tramonto e prevedere, con infallibile certezza, quello che sarebbe stato il domani?
Troppo rapido è stato il passaggio dal tempo in cui la gente produceva con l'abilità delle proprie mani a quello in cui la macchina ha sostituito, spesso, non solo la fatica fisica, ma ha sollevato anche dall'incombenza di doversi ingegnare ed esercitare il pensiero.
Chi, filosoficamente, è abituato a considerare in una visione unica l'insieme delle cose, non può non provare, osservando molti settori, la spiacevole sensazione di una generale improvvisazione ed approssimazione: nessuna idea chiara, nessuna prospettiva ben delineata, nessun progetto che guardi decisamente al futuro. Navigazione a vista tra banchi di nebbia fitta ed improvvise, quanto rare, schiarite.
Ma non vorremmo noi stessi cadere nel pessimismo. Ancora oggi ci sono nell'Appennino persone che, con la tenacia dell'edera, rimangono legate a luoghi da altri abbandonati da tempo. Sempre più giovani, volitivi e tenaci, hanno deciso di provare ad invertire la rotta, hanno deciso di provare a realizzarsi e a realizzare qualcosa in luoghi che sono, talvolta, molto disagiati. Sono storie, queste, che non fanno cronaca e che, in realtà, neppure dovrebbero farla; ma il fatto di vivere ed anche avviare attività lavorative, sfidando ogni logica, in luoghi decentrati e disagiati, ne fanno delle piccole storie straordinarie. Bisogna pur dire, che chi affronta certe avventure, spesso, si affida ad una passione e non al calcolo utilitaristico, e la loro avventura l'affrontano non grazie all'aiuto della politica, ma malgrado essa. Diciamolo pure: persone, anche giovani che, silenziosamente, nell'ombra, cercano di realizzare il proprio ideale ce ne sono, ma sono come neuroni scollegati gli uni dagli altri, mancano loro quelle connessioni che sole potrebbero creare pensieri ed idee innovative tali da non incidere solamente sulla vita di un individuo ma sul tessuto sociale ed economico di tutto un territorio. Una politica, non necessariamente illuminata ma semplicemente avveduta, avrebbe dovuto e dovrebbe favorire il crearsi di tali connessioni.

Il presepe come metafora

Andando dalle parti di Gazzano, piccolo paese nel comune di Villa Minozzo che, un po' pomposamente, è stato definito "paese dei presepi", si possono visitare i presepi realizzati dal maestro Antonio Pigozzi.
E' una opportunità per il visitatore di accostarsi a questa affascinante forma d'arte.
I diorami di Pigozzi partono dagli eventi narrati nei Vangeli ma li collocano nei borghi e nei territori caratteristici del nostro Appennino; questo crea un forte impatto sul visitatore, specie in quello che ha dimestichezza con le nostre zone perché, in questo modo, le scene acquistano una straordinaria intensità e vigore dovuto al fatto che gli eventi non ci sembrano più collocati a grande distanza nel tempo e nello spazio, ma ci rimandano ad un ambiente familiare che potrebbe essere anche quello di pochi decenni fa (dell'inizio del Novecento). Questi eventi però, per una strana alchimia, possono considerarsi al tempo stesso fuori dell'orizzonte temporale.
Visitare una mostra di presepi significa essere disposti a perdersi per ritrovarsi calati in un altro ambiente, almeno per il tempo in cui dura la visita. Significa allungare lo sguardo sui viottoli polverosi di quel mondo in miniatura, sui suoi intonaci scalcinati, sui portali in arenaria, sulle minuscole finestre illuminate da lampade a petrolio dietro le quali, immaginiamo, pulsa la vita; una vita calda, intima e raccolta. Ma sopratutto significa accarezzare con lo sguardo i personaggi che popolano quel mondo, immobilizzati in gesti che non hanno più nulla di storico ma sono diventati anch'essi archetipo; a ben guardare, sono gesti che si ripetono da sempre e che, mutatis mutandis, accadranno sempre.
Che ne siamo consapevoli oppure no, spesso, guardando le scene siamo presi da un desiderio vago, indefinito, di un mondo in cui tutto è risolto. Guardando con gli occhi della nostalgia, allora, quelle scene di povertà contadina si presentano come una Arcadia lontana e perduta e per questo vagheggiata e desiderata.
I cieli che fanno da sfondo, poi, hanno qualcosa di magico e conferiscono alle scene una sospensione e un'attesa che non può non colpire; il loro colore, sia esso il blu cobalto del secondo imbrunire o l'azzurro chiarissimo appena dopo l'alba, abbraccia la scena e si congiunge armonioso alle sagome dei monti e delle colline che ci sono note.
Usciti dalla mostra e riabituati gli occhi alla luce, però, ci si ritrova nel 2005, nell'"edonismo" fatto di telefoni cellulari e fotocamere digitali.
Dando un'occhiata intorno ci accorgeremo che tanto è stato fatto ma che tanto ancora rimane da fare. E se il sentimento confuso che ci accompagnava durante la visita non si è dissolto uscendo, come la neve al sole, forse, lo porteremo con noi e ci darà nuovi stimoli per apprezzare ciò che abbiamo e per cercare di creare una montagna sempre più vivace e vitale. Un mondo che non sarà, ovviamente, lo sciocco riproponimento di un passato che non può tornare (e che, per molti versi, non è neppure auspicabile), ma la sintesi di passato e futuro. Dietro le finestre illuminate non troveremo certo lampade a petrolio ma connessioni a banda larga e TV satellitari e, magari, una nuova apertura mentale e la voglia di aprirsi al mondo pur rimanendo fedeli alla terra. E fuori delle mura di casa, un ambiente che sia percepito davvero come bene comune e, come tale, meritevole di essere curato e conservato con tutto il rispetto di cui saremo capaci se saremo davvero consapevoli che da esso dipende il nostro benessere.
Potrebbe essere solo un sogno? Certamente. Ma forse è l'unico sogno che l'Appennino può permettersi se vuole continuare a vivere.

Anche per la nostra testata on-line si conclude un anno abbastanza intenso.
Anche per noi è tempo di bilanci...
Abbiamo cercato di profondere tutto l'impegno di cui siamo stati capaci (compatibilmente con i nostri impegni) in questa impresa.
Abbiamo ricevuto segnali di sostegno e anche qualche piccola gratificazione per il nostro operato.

In occasione delle feste natalizie, vorremmo augurare all'Appennino in genere e in particolare a tutti i lettori che ci hanno espresso apprezzamento e a tutti quelli che ci hanno rivolto critiche costruttive volte a stimolare un sempre migliore servizio un:
Buon Natale e Felice Anno nuovo e...ad majora!