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L’effetto placebo

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Conosciuto in medicina da moltissimo tempo, l’effetto placebo consiste, sinteticamente, nel fatto che a volte i pazienti sembrano rispondere positivamente all’assunzione di una sostanza che non avrebbe, in teoria, alcun principio medicamentoso attinente ai sintomi di cui lamentano. In pratica, il solo fatto di assumere una medicina attiverebbe nel paziente l’aspettativa di ottenerne beneficio ed egli realmente arriverebbe ad avvertire e a riferire al curante, con assoluta autenticità e buona fede, la percezione di un sollievo.
Dal punto di vista della ricerca, si ovvia all’effetto placebo con gli esperimenti a “doppio cieco”, dove sia i pazienti sia i ricercatori sono all’oscuro se stanno ricevendo o somministrando il principio attivo o il placebo, al fine di ovviare alle influenze ed interferenze esercitate dalle aspettative degli uni e degli altri.
Nel tempo sono aumentati esponenzialmente gli articoli dedicati al tema dell’effetto placebo: solo due nei 148 anni tra il 1785 e il 1933, 15 nei 7 anni tra il 1945 e il 1952, 44 nei 5 anni tra il 1953e il 1958, fino ad arrivare a 1.500 tra il 1976 e il 1978. Gli stessi medici, ed in particolare psichiatri, hanno la necessità di tenere conto, nella prescrizione della posologia, dell’effetto placebo.
Molto se ne parla e molto se ne dice, varie sono le teorie formulate per spiegare questo effetto curioso e importante insieme, che richiama alla mente il potere della suggestione e la possibilità che personalità particolarmente influenzabili e poco differenziate e strutturate siano maggiormente sensibili all’effetto placebo. Si potrebbe anche ipotizzare di utilizzare una sostanza placebo in fase diagnostica, per discriminare sintomi con base organica da sintomi con base nevrotica o dalla simulazione i malattia a scopo strumentale (ottenere vantaggi, risarcimenti, tutela).
In realtà, le poche e recenti acquisizioni scientifiche di cui disponiamo ci dicono che: il placebo produce effetti misurabili a livello della fisiologia, non influenza solo la percezione soggettiva del dolore e l’ansia legata alla malattia: la simulazione, quindi, non è implicata in modo significativo nel produrre l’effetto placebo. Inoltre, quando ci si riferisce al placebo si tende a darne una connotazione di innocuità: forse serve forse no, ma male non fa. Errato: il placebo può creare dipendenza o addirittura peggioramento.
Il placebo, in definitiva, è un elemento che interviene nel campo: la sua valenza non può essere neutra perché esso si inscrive in una relazione medico - paziente e la sua presenza interviene a modificare quella stessa relazione. Analogamente si dica del farmaco ritenuto efficace per il trattamento del sintomo presentato dal paziente, o di qualsiasi altro intervento medico o psicoterapeutico del curante verso il paziente: la sua efficacia o dannosità è influenzata dalla trama relazionale e dai sentimenti di fiducia, sfiducia, diffidenza, confluenza, sudditanza esistenti nella relazione. La neutralità è un caratteristica riservata ai campi asettici, e le relazioni non lo sono mai. Stabilire che l’effetto placebo facilita o ostacola il processo di cura significherebbe pretendere di sapere a priori come si struttura e come evolve la relazione curante – paziente; le relazioni sono complesse e compito del curante è comprendere, di momento in momento, qual è il bisogno reale del paziente e rispondervi in modo appropriato. A volte il paziente ha bisogno di essere rassicurato e di avvertire la protezione e l’accudimento da parte dell’altro: probabilmente il farmaco funzionerà meglio e il placebo pure; a volte il paziente ha bisogno di svincolarsi, di separarsi, di imparare strategie proprie di coping di fronte al dolore e alla frustrazione: farmaci e placebo funzioneranno molto meno, potrebbero addirittura essere dannosi, perché tendono a ricreare una relazione di dipendenza non rispondente, anzi contraria, al bisogno reale del paziente.
Farmaci e placebo, ricoveri e trattamenti ambulatoriali, psicoterapie incentrate sull’autodeterminazione o sulla direttività: niente di per sé è efficace o inefficace né tanto meno neutro, ciò che fa la differenza è il bisogno del paziente e la capacità del curante di leggerlo.