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“Marie Antoniette”, ragazza di vita

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In molti, anche con fare critico, hanno avvicinato “Marie Antoniette” a “Lost in translation”, vedendo nell’ultimo film di Sofia Coppola una sorta di “Lost in Versailles”. Certamente, alcuni elementi della precedente pellicola si possono individuare, ma quelli che vorrei qui mettere in evidenza sono gli aspetti che rimandano al primo successo della giovane figlia d’arte: “Il giardino delle vergini suicide”, di qualche anno precedente, non meno toccante, forse soltanto più ingenuo. (Sorge spontanea la domanda: l’ingenuità in campo artistico deve considerarsi un pregio o un difetto?).

Cambia l’epoca, cambia la parte di mondo in cui sono ambientati, cambiano le classi sociali di riferimento, ma parecchie cose rimangono, a partire da Kirsten Dunst, splendida protagonista, sino ad arrivare alle musiche degli Air, talmente presenti da essere esse stesse importanti protagoniste.
Nel “Giardino delle vergini suicide”, Kirsten è biondissima, bionda almeno quanto la Johansson persa per Tokio: è il biondo il colore delle eroine della castana Sofia, il biondo con tutti i suoi rimandi estetici e simbolici, il biondo fatale e il biondo candido, il biondo che brilla d’oro e il biondo paglia, il biondo che luccica e il biondo che arde. In “Marie Antoniette”, rimane ugualmente bionda: ugualmente bella, ugualmente ribelle. È la giovanissima regina di Francia che non sa adattarsi al mondo dorato e statico di Versailles, che non sa ingessarsi innanzi all’etichetta, ma, al contrario, non può far altro che considerarla stupida. È la ragazza, prima ancora che la regina, è l’adolescente che sprizza vita e non sa contenere questa esplosione; ma Versailles è più forte di lei, è più forte della sua naturalezza, forte al punto tale da gettarla in pasto al lusso. Champagne a volontà, gioco d’azzardo, dolci a cascate, notti brave con damigelle complici, centinaia di scarpe preziose, lo sperpero esibito in una Francia sempre più in crisi, in una Francia che da lì a poco darà vita a quella rivoluzione i cui effetti saranno epocali.

Il tormento individuale, di pari passo con lo sconvolgimento politico e sociale di un mondo al tramonto: Sofia Coppola lascia quest’ultimo sullo sfondo, senza peraltro negargli la sua importanza, provando a concentrarsi sulla protagonista, provando a capirla, quasi a consolarla con la forza delle immagini. È un tributo all’empatia, a quel filo invisibile che riesce a legare sensibilità distanti nel tempo e nei costumi; è un’epidemia di empatia, che punta diritto allo spettatore, affinché esso riesca, almeno per la durata della pellicola, a sentire come avrebbe potuto sentire la malcapitata regina, per poi capire che, in fondo, tutto questo non era altro che energia giovane, energia di vita. In un certo senso, candore. Marie Antoniette risulta intimamente innocente laddove dal punto di vista politico commise errori enormi; la donna pubblica contro la ragazza privata, la ragione contro il sentimento, il potere contro la libertà. L’apparenza contro la vita.
Di questi motivi, storicamente perì.

Per questi stessi motivi, nel finale del primo film perì la bionda Kirsten “vergine suicida” agli albori degli anni Sessanta, quando una nuova rivoluzione stava per travolgere i nostri costumi, quando le sarebbe bastato attendere soltanto un poco per vincere la sua battaglia per la libertà, per i sentimenti, per la vita.

Paradossalmente, nonostante Versailles, i costumi impeccabili, le parrucche e le carrozze, “Marie Antoniette” è una pellicola decisamente meno storica rispetto al “Giardino delle vergini suicide”. Se nel “Giardino” l’erba sapeva di anni Sessanta e la nostalgia faceva da padrona, qui il messaggio è palesemente attuale: è la dichiarazione di empatia verso tutte le Marie Antoniette che oggi, nel mondo, premono contro le pareti delle loro Versailles di plastica o cemento.