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La pieve che “venne trasferita” aveva per arciprete Frugerio, cancelliere di Matilde. E il campo dello “spedale” esiste ancor oggi!

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Pubblichiamo di seguito un articolo dello storico, esperto del nostro territorio, Prof. Giuseppe Giovanelli, sull'origine della chiesa della Pieve di Castelnovo ne' Monti, anticamente detta di Campiola.

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L’origine bizantina, collegata al Castron Bismanton, del quale scrisse il Mercati, pare fuori dubbio, mentre nel dubbio è la data. Difficile pensare che la pieve di Bismantova, o altra istituzione ecclesiale, esistesse nel 628, allorché passò da Bismantova San Bertulfo, terzo abate di Bobbio, proveniente da Roma. Se vi fosse stata una chiesa, con relativo xenodochio, ben difficilmente sarebbe stato costretto a trascorrere la notte in tenda, come effettivamente – stando al racconto di Giona di Susa - dovette fare.
Nonostante questo, la Pieve di Bismantova può vantare la collocazione tra le “pievi primigenie” della montagna reggiana, insieme a Minozzo, San Vitale di Carpineti, Paullo e Toano, come risulta dall’elenco delle 25 pievi citate dal diploma imperiale di Ottone II del 14 ottobre 980. La data costituisce un punto fermo per la sua esistenza, non ancora per la localizzazione. Quel processo del 1421, con il quale Vannuccio Dalli pretendeva il giuspatronato della pieve e che, a quanto pare, dovette andargli perso (ma è materia da studiare) ha finora creato molte complicazioni e molti dubbi su dove si trovasse la sede della pieve “bismantina”.
Sulla Pietra, dicono i testimoni a favore di Vannuccio; precisamente dentro al castello; ma, per timore di un colpo di mano da parte di armati nascosti fra i fedeli, che lassù si recavano due volte l’anno per festeggiare la Madonna, la chiesa venne trasferita in basso. Da qui l’ipotesi del Saccani del suo trasferimento dalla sommità della Pietra alla sede attuale, su quella collina in leggera eminenza tra la Pietra e Castelnovo, attorno all’anno 1225.
È sicura l’informazione? Certamente la chiesa all’interno del castello corrisponde a una tipologia diffusa e documentata sulla montagna reggiana. Così erano San Vitale e Toano; così erano le chiese di Vallisnera, Felina, Cola e chissà quante altre. Ma ci sono dei punti oscuri; per esempio: è verosimile che una chiesa plebana sia aperta alla popolazione due sole volte all’anno, quando ad essa si doveva ricorrere per i battesimi, i funerali, la settimana santa, il Corpus Domini? Non sembra piuttosto trattarsi di una chiesa “sine cura”?
In effetti, a mettere in dubbio la tesi del Saccani – che ormai ha più cento anni – intervengono recentemente alcuni studi nuovi. Quello di Maria Chiesi del 1980, ad esempio, certamente il più innovativo dopo il Saccani; oppure quello di William Montorsi del 1996 che, mediante un’attenta comparazione di tipologie architettoniche, pone le basi per una considerevole retrodatazione dell’edificio la quale, come vedremo, ben si concilia con la lettura di alcuni dei documenti più antichi.

Frugerio, l’arciprete della rinascita campiolese

Secondaria appare la questione del nome. Se “Bismantova” indica il territorio della Pieve e perciò è usato in alcuni dei documenti ufficiali più antichi, Campiòla (o “Campiliola”) ne indica l’ubicazione. Così nel 1070 la cappella di Busana è “in Bismanto” e la pieve di Santa Maria sorge “nel luogo detto Campiola” (1059). Se fosse stata sulla Pietra, visto che la dizione “ supra Petra de Bismanto” è già documentata nel 1062, i notai avrebbero saputo come dirlo. Significativo, a tal riguardo, il documento del 1089 col quale la pieve riceve in donazione quattro sestari di terra vitata posti attorno alla “clausura” della Pieve. Difficile pensare che la vite crescesse sulla Pietra, a 1047 metri di altitudine.
Ma è proprio questo documento che ci fa il nome di un arciprete che segna una tappa miliare nella storia della pieve e ce la introduce nel contesto matildico: Frugerio. Costui è cappellano e cancelliere di Matilde; è un letterato come Donizone, ma anche uomo pieno di iniziativa. È presente in numerosi atti della contessa come cancelliere o come testimone. Segue Matilde nei viaggi facendo parte di quel corteo di illustri uomini lombardi che la accompagnano in Tuscia, come risulta, ad esempio, nel 1100, allorché Matilde dona un campo per terminare la costruzione del duomo di Pisa. Tutto induce a identificarlo con quello stesso Frugerio che ricorda di essere stato cappellano pure del vescovo di Reggio Eriberto; tra questi e la contessa, infatti, corrono rapporti di reciproca stima e collaborazione, ed è quindi ipotizzabile il passaggio del cappellano dalla cancelleria vescovile a quella canusina. Il motivo può trovarsi nella morte del vescovo Eriberto databile a dopo il 1094.
Dal 1089 al 1113 il suo nome è legato ininterrottamente alla pieve di Campiola. La donazione di una terra vignata fattagli nel 1089 dal conte Uberto di Parma costituisce il primo atto a noi noto dal quale risulta l’impegno di Frugerio ad ampliare, restaurare e abbellire la chiesa di Campiola che, a questo punto, risulta già da tempo esistente in quel luogo, cioè in quello attuale.
I lavori hanno una prima conclusione certa con la consacrazione del 19 novembre 1091 da parte del vescovo Eriberto. Ancora ai primi del secolo XIX quel giorno segnava, a Campiola, la festa della consacrazione della pieve, a testimoniare che si trattava della consacrazione più significativa, quella che aveva dato e continuava a dare identità alla struttura ecclesiale, nonostante i tanti rifacimenti dei secoli successivi.
La consacrazione è ricordata nei pochi versi superstiti (un dictamen) firmati dallo stesso Frugerio, rozzi, fantasiosi ed esuberanti come quelli di Donizone. Sommariamente potremmo tradurli così:
“Già si erano compiuti gli anni di Cristo mille e novanta e correva l’indizione tredicesima. Trascorso era il giorno diciotto del mese di novembre allorché, il giorno seguente, questa casa di Dio venne consacrata in onore di Maria e, parimenti, del figlio di Zebedeo. In questa la beata Maria tiene il suo altare e il suo tribunale nella parte più degna poiché è quella centrale. Pietro ha la parte destra; il Battista la sinistra. Andrea e il fratello [Pietro], Scolastica e suo fratello Abbate [Benedetto], e san Biagio, la Vergine Daria, Grisanto posero le loro reliquie sotto l’altare centrale, Apollinare … [buco nel documento] Prospero posero le loro sotto l’altare di destra; Hermes in quello di sinistra. Tu, Nicola, presenti il tuo altare sotto la torre, adornato pure dalle reliquie di Lorenzo. Voi tutti, vi prego, siate di aiuto a me, che sono Frugerio, rettore della chiesa, autore di questa iscrizione. Ricordatevi dell’egregio pastore Eriberto il quale vi ha consacrato nel quarto anno del suo episcopato. E per aiutarlo, vi prego, supplicate Iddio”.
Il 1091 si avvicina straordinariamente alla data (1094-1110) ipotizzata dalla Chiesi, a dimostrazione della fondatezza del suo studio.

Campiola era già lì anche prima del Mille

Le reliquie di San Prospero, Sant’Apollinare, la dedicazione a Santa Maria, tutto indica uno stretto legame con la Chiesa reggiana della quale Frugerio – e con lui tutti gli arcipreti di Campiola fino almeno al secolo XIV – è canonico. Ma diversi di quei santi sono anche titolari delle più antiche cappelle della pieve il cui territorio sale da Leguigno al Cerreto delle Alpi, prima tra le sponde sinistra del Tassobbio e destra dell’Enza, e da, Bismantova in su, su quella sinistra di Secchia. Cuore – chissà – dell’antico gastaldato.
Nonostante gli impegni reggiani e canusini, la presenza a Campiola di Frugerio e le iniziative per migliorarla materialmente e spiritualmente sono continue. Significativa, tra i suoi atti, l’attenzione a dotare di nuove cappelle (le future parrocchie) il territorio plebano, come testimonia la permuta di terreni con i presbiteri Teuzone e Gerardo di Monte Carù allo scopo di costruire in Cervarezza una cappella dedicata alla Madonna, “signora” di Campiola.
La sua opera trova sanzione ufficiale dal secondo successore di Eriberto, Bonseniore, che, in visita pastorale a Campiola il 25 marzo 1112, non trova parole per elogiare lo zelo dell’arciprete: “ …giungemmo alla Pieve bismantovina dove i canonici fanno comunità vivendo secondo la regola, sotto la guida del nostro diletto figlio l’arciprete Frugerio, e dove la chiesa [ci apparve abbondantemente dotata] sia di risorse che di doni votivi e di ogni ecclesiastico ornamento, migliorata con possedimenti di varia provenienza e di recente abbellita in tutte le sue parti; la nostra gioia fu tale e tanta che non abbiamo modo di esprimerla compiutamente”.
Per essere concreto, tuttavia, Bonseniore, ascoltata la relazione fattagli da Frugerio, restituisce a Campiola tutti quei beni che il suo predecessore Ermenaldo (962-979) le aveva sottratto a favore di Bernardo da Rosano e di Tedaldo da Canossa. Tra questi beni, anche terre circostanti la chiesa stessa. Dal che si dovrebbe evincere che la restituzione avvenga (non era possibile diversamente) con l’intervento di Matilde alla quale erano pervenuti per via ereditaria quei beni. Dunque, se Matilde è assente dalla Pietra, lasciata ai nobili locali, non lo è da Bismantova e non lo è, in modo particolare, da quel territorio più intensamente interessato dalla viabilità fra Toscana e Lombardia che è l’attuale displuvio castelnovese tra Enza e Secchia. Stando i suoi rapporti cordiali con Bonsignore e Frugerio, avremmo ottime ragioni per spiegarci tanta floridezza di Campiola.
Ne deriverebbe anche che Campiola esisteva già, in quello stesso luogo, nella seconda metà del secolo X, giusto come ipotizza il Montorsi, cioè negli anni che segnano il passaggio definitivo del gastaldato di Bismantova da Parma a Reggio o, se si vuole, della sua fine. Così, però, i problemi storici vanno complicandosi: ma allora quando ha chiuso i battenti la vecchia pieve sulla Pietra? A chi era dedicata: forse a San Giorgio visto che ci sono tracce, ancor più tardive, di un beneficio sulla Pietra e di una chiesa “sine cura” in Bismantova a lui intitolati, distinta da quella di Crovara? Comprendeva territorialmente l’alta Val di Secchia o questa era sotto la Pieve di San Vincenzo, come lascerebbero intendere alcune vicende di Frassinedolo?

Regole di convivenza che generano democrazia

Lasciando aperte, su tutto ciò, le dispute degli storici, osserviamo come si svolgeva la vita a Campiola nell’età di Frugerio, corrispondente a quella di Matilde che governa negli anni migliori del potere e della saggezza. Pare chiaro l’accenno di Bonsignore alla regola canonicale, cioè a quel modello di vita comunitaria dei sacerdoti addetti alla cura d’anime per il quale aveva operato, proprio sull’Appennino tosco-emiliano, attorno al Mille, anche San Romualdo, il fondatore di Camaldoli, che una cordiale amicizia legava a Teodaldo di Canossa, zio di Matilde, vescovo di Arezzo.
Il modello di vita dei canonici si differenzia poco da quello dei monaci. Secondo una “regula canonicorum” tra le più note, quella approvata dal Concilio di Aquisgrana nell’anno 816, i canonici vivono in ambiente claustrale sul quale, internamente, si affacciano i locali della vita comune, del lavoro, dello studio: il refettorio, i dormitori, le celle, le dispense. A ben guardare, questo schema compare ancora oggi nella pianta degli edifici di Campiola, ma in forma speculare rispetto a Marola. Qui il chiostro è a nord della chiesa; a Marola, sede monastica, il chiostro è a sud, in pieno sole, secondo l’orientamento benedettino.
Norme severe regolano l’uso del cibo e del bere sul quale non devono esistere distinzioni o privilegi, se non per ragioni di malattia. Si mangia insieme, nel refettorio, una volta al giorno, ascoltando in silenzio una lettura di edificazione spirituale e prestando tutti, a rotazione, turni di servizio alla mensa. Se un canonico, ritornando dalla cura pastorale della sua cappella, riceve in dono delle cibarie, le deve mettere nella dispensa comune. È obbligatorio l’orto dal quale i canonici, con il loro stesso lavoro manuale, ricavano quotidianamente verdura fresca.
Il canonico deve temere l’ozio. Perciò, nei tempi liberi dalle cure pastorali e dalla celebrazione diurna e notturna dell’ufficio, è invitato a dedicarsi ad una attività sia di mano che di mente. Il cibo che egli riceve deve essere meritato perché le risorse della canonica – è premesso in capo alla regola – sono dei poveri e ai poveri devono ritornare.
Nell’accogliere i novizi, l’arciprete scelga nobili e servi, ma non faccia prevalere questi su quelli. Strano? No. Se fossero tutti di famiglia servile, l’arciprete potrebbe sentirsi padrone e comandare dispoticamente minacciando di ricacciarli nella loro condizione di origine. Un giusto equilibrio con nobili può indurre l’arciprete a comportamenti più democratici.
La parola “democrazia” non c’è, è vero; c’è però la sostanza e non è poco in un mondo che lentamente usciva da consuetudini di vita barbarica. Se la democrazia moderna è figlia, come si suol dire, della “magna charta” inglese (1215, ma prima di questa c’è lo Statuto di Vallisnera, 1207, plebanato di Bismantova), bisogna allora riconoscere che abbia come nonne e bisnonne queste regole di convivenza che, da san Benedetto in poi, sanciscono di fatto la parità tra ogni essere umano e la priorità assoluta verso il povero e confluiscono, proprio negli anni d’oro di Campiola, nella Charta Charitatis dei Cistercensi.
Poteva essere senza effetto sul progresso civile della montagna reggiana che ogni giorno dal chiostro di Campiola uscissero sacerdoti che portassero nei singoli villaggi quest’esempio così concreto di vita?

La priorità dell’hospitale

C’è dell’altro ancora nella regola dei canonici al quale occorre riconoscere il dovuto peso nella storia della nostra montagna. Gli anni di Frugerio sono anche quelli più problematicamente caratterizzati dal passaggio (per dirla con Dante) di palmieri che vanno in Terrasanta, di peregrini che vanno a San Giacomo di Compostela, di romei che vanno a Roma. Bismantova, più di tutte le altre terre della montagna, è interessata da questo passaggio visto che attorno alla sua Pietra si incrociano le strade che da Reggio vanno a Luni e da Parma a Lucca.
Ebbene, la regola dei canonici vuole che, esternamente al chiostro, ci sia l’hospitale, perché l’accoglienza viene per il canonico “ante omnia”. Tutte le risorse della comunità (ad eccezione delle decime delle cappelle che servono al mantenimento delle cappelle stesse) sono prioritariamente da destinare all’ospedale. “E si dia incarico a un fratello di soda formazione di accogliere i viandanti come se, nelle loro membra, accogliesse Cristo stesso, e di somminsitrare loro quanto è necessario, secondo le disponibilità della canonica”.
La canonica deve accogliere, in luogo adatto, anche poveri e malati. Il fratello che adibisse ad altri usi i beni dei poveri deve essere severamente punito e rimosso dall’incarico.
Così, dunque, era anche a Campiola, almeno finché la regola ebbe il rispetto che le imposero arcipreti come Frugerio, vescovi come Eriberto e Bonseniore, una sovrana come Matilde. Poi sopravverrà la triste decadenza delle guerre civili, delle rapine, delle commende, quando ci si dimenticherà che i beni della pieve sono “prezzo del peccato” di chi li ha donati e “alimento dei poveri” di Cristo.
Tracce dell’hospitale sopravvivono a lungo a Campiola. Ancora sul principio del secolo XVIII la pieve aveva un beneficio – sotto il titolo più recente di San Pietro Martire – col quale mantenere due letti per i viandanti e relativa dispensa di frumento. Ancor oggi, ricorda l’arciprete emerito don Giansoldati, una pezza di terra porta il nome di “campo dello spedale”.

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Rielaborazione di un pezzo, dello stesso autore, pubblicato sul settimanale "La Libertà" del 31 luglio 1999 e comparso sotto il titolo: "L'età d'oro della Pieve di Campiola".

1 COMMENT

  1. Nel respiro di un articolo, mille anni della nostra storia. Grazie professore!
    Documentato, preciso, interessantissimo. L’articolo del professor Giovanelli ci conduce tra storie antiche di un millennio eppure… così vicine. Perché racconta di sassi che possiamo ancora ammirare lì dove sono stati inaugurati una volta divenuti chiesa dal vescovo Eriberto. Perché parla di altari sotto i quali ora possiamo immaginare le reliquie dei primi santi. Perché ricorda di Matilde, che i nostri piccoli studiano a scuola e i grandi provano a fare ‘volano’ del nostro territorio. Perché riesce a unire tracce su pergamene secolari a testimonianze orali odierne (quella di don Battista) che ancora indicano là, dove lo ‘spitale’ forse sorgeva. E’ incredibile questo respiro temporale così ampio e racchiuso nel soffio garbato di queste parole.
    Lei, professore, ci svela gratuitamente una storia che è nostra. Ma che senza gli storici come lei sarebbe storia di nessuno.
    Un grazie sincero.

    (g. a.)