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Attacchi di panico: discorso a parte

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[…] d’un tratto sopravvennero poi disturbi cardiaci […] una violentissima aritmia, una tensione cardiaca, un senso di pressione e bruciore costanti alla regione del cuore, una corrente di calore nel braccio sinistro, qualche accenno di dispnea [ respiro affannoso ], tutto ciò mi accadde sotto forma di attacchi, che si protraevano per due terzi della giornata ed erano accompagnati da un senso di oppressione sull’umore, che si esprimeva con immagini di morte e di decesso..
Sigmund Freud, lettera a Fliess del 14 Novembre 1897[1]

Non ci sono parole realmente efficaci per descrivere l’attacco di panico [2]. Un clinico lo sa bene, ma ancor meglio lo può testimoniare chi ne viene colpito e sopraffatto. Il terapeuta apre la porta a persone che cercano di parlare di quell’indicibile che sta loro accadendo, intenti a domare con le parole qualcosa che sfugge ad un’opera di classificazione. Un compito difficile, quanto può esserlo narrare del fulmine mentre si abbatte sulla mura domestiche. L’attacco di panico è un sisma privato, è una crepa della propria casa che si espande mentre gli edifici del circondario appaiono saldi. ‘ Non so cosa mi stia succedendo, ‘ Sino ad oggi la mia è stata una vita tranquilla’, ‘Ho paura a prendere l’auto’, ‘ Sto chiusa in casa da almeno due settimane..’. Con questo repertorio di frasi si lancia una corda per aggrapparsi al mondo, nella speranza che possa placare la scossa tellurica non prevista da alcuno strumento. Il panico regala la dannata idea di essere stati scelti per sperimentare questo particolare infarto della vita quotidiana. Il panico affibbia uno stigma, alimenta se stesso e conduce all’isolamento, spezza il legame sociale.

Che fare? In via preliminare è alquanto importante dare una verniciata di normalità a questo cataclisma, accogliendolo come una cosa frequente. Ospitare le parole del soggetto che soffre, significa anzitutto farlo rientrare in un discorso, fornirgli l’attaccapanni sul quale poggiare l’abito di solitudine e anormalità che si trova cucito addosso. Le persone che soffrono di crisi di panico sono costretta ad indossare una maschera con la quale interfacciarsi col mondo. Si tratta di fare una scelta, quella di imboccare una strada di rettifica e di consapevolezza. Una scelta che spesso può essere rimandata potendo contare su una quantità inusitata di rimedi pronto uso utili a tamponare qualsiasi tipo di interrogazione questo fenomeno rechi. Il panico costituisce una risorsa, ma una risorsa che non può fare a meno dell’Altro. La difficoltà a portare in parola questo disagio obbliga l’individuo ad un percorso nel quale deve districarsi in una giungla di rimedi, lunghi e brevi, spesso incapace di trovare sollievo e pacificazione e di estrarre da tutto questo rumore di fondo il proprio malessere. Un ‘proprio’ che è invece l’elemento centrale di un approccio terapeutico, che deve poi saper fare a meno dell’etichetta con la quale si chiede aiuto. Nessuna maschera da parte del soggetto sofferente, nessuna ricetta da parte di chi occupa la posizione del terapeuta. La sensazione di normalità che avvolge il soggetto che decide di entrare a far parte di un gruppo, serve a smontarne l’armatura patologica, accantonando l’idea di un difetto della macchina da liquidare nel minor tempo possibile. Il panico non è un sintomo, è una risorsa. E lo è nella misura in cui lo si accetta come un Caronte che ha lo scopo di traghettare l’individuo verso una rettifica del proprio essere, preludio ad una ritessitura di una storia nel legame sociale, al riscatto della parola strozzata.

Sovente panico e angoscia sono erroneamente intesi come sinonimi L’angoscia occupa da tempo immemore le pagine dei poeti, degli scrittori, dei testi religiosi[3]. L’angoscia è quell’affetto che mette alla prova terapeuti e pazienti. Un affetto presente tanto oggi, quanto nelle passate generazioni. Un affetto quotidiano, normale. Il senso di precarietà che affligge l’individuo contemporaneo, l’incapacità a capire cosa le istituzioni si aspettino da lui, la difficoltà a definire un posto nella società del lavoro, nella trama del legame sociale, riassumono l’interrogativo principe che sfocia nell’angoscia: cosa vuole l’Altro da me?

Come porsi dunque oggi all’ascolto di chi soffre? Come andare al di la di categorie diagnostiche diffuse e banali? Come mettere a lato tutto ciò che occlude la parola? L’approccio psicoanalitico oggi vive, e vive più che mai nel sociale, e sempre più spesso ha l’obbligo di confrontarsi con altri approcci che si occupano della riabilitazione del soggetto.

Che dire delle terapie? Dei diversi approcci al problema? La contrapposizione terapie brevi- analisi interminabile, non ha modo di sussistere se noi siamo capaci di osservare la scansione temporale. La persona che chiede aiuto perché le cosiddette ‘crisi di panico’ gli stanno impedendo al vita, può scegliere di salutare il clinico nel momento di un benessere raggiunto. Dopo, solo dopo, accade che quello stesso individuo, messo al lavoro da ciò che egli ha saputo toccare, chieda di approfondire le questioni spinose che sente dentro di lui agire alla stregua di movimenti tellurici, e per le quali il cosiddetto ‘panico’ è stato solo un elemento di disvelamento. In quel momento si apre una fase qualitativamente diversa, che interessa il discorso del soggetto, non più focalizzato sull’emergenza sofferente che ha costituto il ‘casus belli’ che lo ha portato a domandare un aiuto, ma chiama in causa un opera di approfondimento, di rettifica, che non può prescindere dalla sua struttura clinica e dall’Inconscio. Il lavoro al di la del panico da insomma la cifra dell’individuo

(Maurizio Montanari è psicoterapeuta e Consulente Lidap)
Fonte: www.lidap.it

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NOTE:
1 S. Freud, Lettere a Wilhem Fliess 1887 - 1904, Torino, Boringhieri, 1986
2 Panico deriva dal latino panicus, che a sua volta è figlio del greco panikon, termine che origina dal Dio Pan. Il Dio Pan era il Dio delle montagne e della vita agreste, patrono del riposo meridiano. In particolar modo era detto ‘timor panico’ o ‘terror panico’ quel timore misterioso e indefinibile che gli antichi ritenevano cagionato dalla presenza del dio Pan.
3 "Isacco cominciò a farsi delle domande. Alla fine seppe che doveva chiedere qualcosa a suo padre. Dimmi papà, io sto portando la legna,e tu stai portando il fuoco, ma non abbiamo nessun animale. Non abbiamo bisogno di un agnello per fare il sacrificio?".