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“Handicappato, un termine che non mi piace”

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Handicappato! Non mi piace usare questo termine. C’è chi lo usa per offendere, una chiara forma di volgare stupidità, altri parlano di disabile, di diversamente abile. Personalmente lo uso non avendo trovato un altro vocabolo per dire la dignità della persona che, nella vita, parte ferita nel corpo o nella psiche, rimanendo comunque persona degna di rispetto e di onore. E’ una riflessione personale che nasce dalla lettura della recensione del libro di Matteo Schianchi: La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà, che vorrei acquistare per entrare sempre più in questa “nazione”, che non vorrei considerare “terza” ma pari alle altre.

Di fronte all’handicap l’uomo tace. Non ha risposte. Nessuno ha risposte. Sul piano umano c’è solo il silenzio, dietro al quale si nasconde la compassione o, più spesso, la paura, il rifiuto. Il dolore che colpisce l’innocente è un’egnigma lacerante, inquieta le coscienze. Un ragazzo con handicap è il vertice del dolore innocente: perché Dio, che è amore, vuole che alcune sue creature siano ferite nel corpo e nell’anima in modo irrimediabile? Chiedersi il perché dell’handicap è guardare l’abisso. Siamo di fronte ad un bimbo o ad una bimba che, nel suo nascere, subisce violenza dalla malattia, da un qualcosa di misterioso, di congenito che lo accompagna tutta la vita.

Se è vero che ogni anno nascono tre milioni di bimbi con malformazioni gravi, la maggior parte dei quali muore entro i primi tre anni di vita, significa che ogni giorno ne nascono 8.000 gravemente handicappati. Come spiegare questo?

L’handicap ci dice che l’uomo è natura fragile: ci sono storie di chi subisce l’handicap ma anche le storie di chi si prende cura di chi è colpito dall’handicap, gratuitamente, senza limite di tempo, donando la propria vita, scrivendo stupende storie d’amore. Dove appare la miseria dell’uomo appare anche la sua nobiltà: chi li accarezza, chi li fa danzare, cantare, lavorare, giocare, danzare, chi li bacia come baciasse il figlio di Dio, come entrasse in comunione con Lui, chi inventa ogni giorno qualcosa di nuovo, di insolito, un dvd, un Cd, un canto, un posto di lavoro… chi con la forza dell’amore spazza via paure e vergogna e rifiuto. Un amore senza moderazione. Smodato. Sregolato. Senza freni. Senza misura. La misura dell’amore è di amare senza misura! “Nella vita, proprio come nella tavolozza del pittore, non c’è che un solo colore capace di dare significato alla vita e all’arte, il colore dell’amore” (Chagall). Di questo colore molti giovani hanno dipinto le loro vacanze, vivendo al mare o sui monti con gli “handicappati”, i diversamente abili, che agli occhi di chi li accoglie senza pregiudizi sono “bellissimi”, figli di Dio, da Lui prediletti.

1 COMMENT

  1. Non si deve aver paura delle parole
    Sono certa che i nostri figli disabili siano davvero “bellissimi figli di Dio e suoi prediletti” ed è per questo che rimango indifferrente alla parola “handicappato” se dietro c’è attenzione e non compassione, ascolto e non indifferenza, condivisione e non paura, ma soprattutto c’è voglia davvero di conoscere questo “pianeta” che sembra diverso ma non lo è poi tanto. Sicuramente dall’incontro non potrà che scaturire un flusso di amore che scorrerà dall’uno all’altro, semplicemente, e andrà “oltre” all’immagine, oltre alle parole, oltre ai gesti, sarà puro arricchimento per tutti.
    Grazie Don Chiari.

    (Alma mamma di Davide)