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Via Padova: serve educazione, cultura e rispetto

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Mercoledì 17 febbraio, alle ore 21, nella chiesa di via Padova (a Milano, ndr) si tiene una veglia di preghiera per rileggere, con gli occhi della Fede, i fatti di via Padova. Io non ci sarò. Non avendo trovato un sostituto, sono atteso, fuori Milano, ad una veglia di preghiera con oltre un centinaio di giovani. Andrò e dirò loro che sono contento di appartenere alla Chiesa di Milano che, nel suo leader spirituale, il cardinale Dionigi, con i suoi preti e i suoi laici è operosa, anche in via Padova, dove non alimenta divisioni, non dà spazio a rancori, vendette, giustizialismi di gruppo e cerca di vivere, per quanto possibile, secondo una logica di Vangelo.

Non è un prete di frontiera il parroco, don Piero Cecchi, ma prete del Vangelo, quando dichiara ai giornalisti che “qui non bastano l’ordine pubblico e la repressione degli abusi. Serve educazione, bisogna investire nel costruire cultura e rispetto… Se si guarda con sospetto e si pensa di risolvere i problemi con la forza, si sistemano momentaneamente i problemi, ma non si risolvono alla radice… Chiediamo solo rispetto per la sofferenza delle persone, tutte, italiane e straniere”. E i preti del Decanato di Turro si sono messi dalla sua parte, invocando legalità, giustizia, opera di mediazione e di riconciliazione, gettando a larghe mani semi di pace e non di odio, di emarginazione, di rifiuto.

Nel “Discorso alla Città” del 2006, il Cardinale, parlando delle periferie, ha detto che «il futuro della nostra comunità civile non sta in una “ordinata ghettizzazione” rispettosa di alcune norme di convivenza più per necessità che per convinzione. Le diverse identità devono essere messe in condizione di non temersi reciprocamente, bensì di aprirsi alla reciproca stima e conoscenza. Poi, il futuro apparterrà ai figli di queste comunità, che dovranno costruire loro, tutti insieme, da cittadini, la città del domani…. Non avrà mai un’anima una città, in cui convivono senza incontrarsi, ma si ghettizzano – rese “periferie” le une alle altre – comunità diverse: da quella italiana, la nostra, a quella islamica, a quella cinese, a quella rumena, albanese, bielorussa e tante altre ancora».

Dobbiamo credere che sia possibile convivere, nella legalità, nella sicurezza ma anche nel rispetto, nel dialogo, nella solidarietà! «L’assenza di speranza è già essa stessa disperazione - disperazione di fronte a noi stessi, di fronte alla storia e al suo e nostro futuro, non semplicemente di fronte alla possibilità di ritorno ad un’umanità diversa per chi ha intrapreso un sentiero diabolico…».

Non dobbiamo temere questa umanità, che viene da oltre confine! La dobbiamo guardare con giustizia ma anche con cuore aperto, con uno sguardo di misericordia: «Non si tratta di un perdonismo fuori luogo, che non tiene conto delle legittime domande che vengono dal corpo sociale: la certezza del diritto, la sicurezza dell’irrogazione della pena, il riconoscimento effettivo dei reati commessi, la sicurezza personale, il rispetto della donna e dei bambini. Semplicemente è l’affermazione di una misericordia nel senso civile: non dobbiamo mai dimenticarci che chi ci sta davanti è un uomo, qualunque cosa abbia fatto, per quante volte abbia dimenticato il valore della vita dei suoi simili, per quante volte abbia dimenticato il bene della sua umanità. So che questo può apparire duro, ma non lo è. Non è forse più dura la società che sceglie la legge del taglione? Quanto terribile è “occhio per occhio, dente per dente”! Quale tragico destino incomberà sulla comunità che entra nell’ottica di una giustizia come vendetta sociale!».

Dobbiamo ricercare risposte “insieme”, amministratori, chiesa, forze di volontariato, cittadini, italiani e stranieri, per dare una nuova identità alle periferie – non esiste solo via Padova – perchè senza identità «la periferia è il luogo migliore per nascondersi, per mimetizzarsi, per fuggire a se stessi e alle proprie responsabilità, per evitare di avere un’identità: la ricostruzione vera delle periferie passa anche attraverso processi che impediscano di mimetizzarsi, di nascondersi, di sfuggire alle responsabilità personali e collettive, che impediscano di autodistruggersi e che favoriscano il dialogo, la conoscenza reciproca, la partecipazione».

Commentando le parole del Cardinale, avevo ricordato l’intervento di don Bosco, a Parigi, nel 1884: »La salvezza della gioventù, o signori, è nelle vostre tasche… i benefizi che oggi rifiutate loro, verranno a domandarvelo un giorno, non più con il cappello in mano, ma mettendovi il coltello alla gola e forse insieme con la roba vostra chiederanno pure la vostra vita”. Siamo ancora in tempo a prevenire? Con don Pietro, don Virginio, don Massimo, don Gino ed altri don, che lavorano in Caritas o negli oratori, in comunità di accoglienza, con tanti loro collaboratori e collaboratrici, oso dire di sì, siamo ancora in tempo!