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Da “La Libertà” / Gerontocrazia Italia

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Proponiamo di seguito un articolo, che ci pare interessante ed attuale, che viene pubblicato nel numero ora in edicola (7 agosto 2010) de "La Libertà", il settimanale della nostra diocesi.

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Tra gli innumerevoli effetti devastanti dell’attuale crisi finanziaria, uno dei più perniciosi nel mondo industrializzato è costituito dalla curva ascendente del tasso di disoccupazione fra i giovani, salito di sei punti nell’area Ocse fra il 2007 e il 2009. Quando i giovani cessano di essere il motore di un’economia, la crescita economica a lungo termine viene messa in pericolo, ed i conflitti sociali diventano una effettiva minaccia per l’ordinamento politico democratico.

Italia caso limite

In questo senso l’Italia rappresenta un caso limite, dal momento che persino giovani lavoratori altamente qualificati, benché solitamente oltre la soglia di età relativa al tasso di disoccupazione giovanile (in Italia pari al 29,5%), vengono emarginati. In quanto una delle società di più rapido invecchiamento al mondo, con un’economia ed un sistema politico inaccessibile ai suoi giovani, l’Italia presenta tutte le caratteristiche di una gerontocrazia. Stando a uno studio dell’Università Luiss di Roma, metà dei dirigenti di vertice nel campo degli affari e della politica hanno 60 anni o più. Inoltre l’istituto statistico nazionale, Istat, mette in rilievo che nel 2009 circa il 60% degli individui fra i 18 ed i 34 anni (ed il 30% di quelli fra i 30 e i 34) viveva con i propri genitori in conseguenza della propria incapacità a mantenersi da sé.

Il sistema scricchiola

Due milioni di persone nella stessa fascia di età venivano catalogati come “disoccupati, studenti o apprendisti”. Il sistema scricchiola ed i giovani italiani rischiano di diventare la prima generazione della storia moderna che sta peggio di chi l’ha preceduta. Non sorprende che il 79% della disoccupazione prodotta dalla crisi finanziaria sia attribuibile a giovani lavoratori precari. Anche se il Paese è pur sempre lontano dagli impulsi radicali del 1968, la preclusione dell’Italia nei confronti dei propri giovani può rischiare di preparare il terreno per una “rivolta” generazionale. Nel corso degli ultimi 30 anni l’Italia è caduta in una trappola da vecchiaia – un meccanismo auto-rafforzantesi per cui aspiranti pensionati (vecchi) si sono serviti del controllo del sistema politico per impedire alle nuove generazioni (la parte più dinamica ed innovativa della popolazione) di ottenere una fetta della torta. I giovani erano soliti credere che, da vecchi e con accesso al potere, il loro tenore di vita sarebbe stato almeno altrettanto alto di quello delle precedenti generazioni. Invece la gerontocrazia ha semplicemente realizzato i sogni di uguaglianza e sicurezza sociale delle vecchie generazioni a spese della gioventù attuale, che è stata caricata di uno schiacciante fardello di debito pubblico.

Si lavorerà nella vecchiaia?

Generosi favori, andamenti demografici ed assenza di serie politiche familiari garantivano il mantenimento del contratto sociale, ora in pericolo. In primo luogo, gli alti livelli di debito limiteranno tanto i benefici sociali quanto la capacità dei futuri governi di scambiare favori con voti. In secondo luogo la globalizzazione, un sistema d’istruzione di bassa qualità ed istituzioni deboli generano incertezza ed insicurezza per i giovani, mettendo così in pericolo le prospettive di crescita dell’Italia – e quindi la prospettiva che le future generazioni verranno compensate in vecchiaia per una vita di sacrifici e duro lavoro.

Sscontro generazionale

Il processo per sfuggire alla trappola da vecchiaia e permettere alle giovani generazioni di assumere un ruolo chiave nell’economia può essere o graduale e relativamente indolore, oppure brusco e relativamente traumatico. Nel primo caso i politici realizzano riforme strutturali volte a ridistribuire costi e benefici fra le generazioni. Nel secondo ci troviamo di fronte ad uno scontro fra generazioni. Questa situazione somiglia a quella di quelle organizzazioni in declino descritte nel pionieristico trattato di Albert O. Hirschman “Exit, Voice and Loyalty”, uno dei teorici dell'economia sociale di mercato. Quando la qualità di un’istituzione o di un sistema politico si abbassa, i suoi membri possono ritirarsi (“exit”), migliorare la situazione intervenendo direttamente (“voice”) oppure accettare passivamente il declino delle condizioni esistenti (“loyalty”).

Pensare criticamente

In Italia prevalgono – e credo sia sotto gli occhi di tutti - “ritiro” e “accettazione passiva”. Il primo può essere fisico (l’Italia è il solo Paese europeo che sta vivendo una “fuga” piuttosto che uno “scambio” di cervelli) o silenzioso (per esempio, bassa partecipazione al voto). Ma la difficoltà di avere un pensiero critico in un contesto di scarsa libertà di stampa, unitamente a trasferimenti di ricchezza interfamiliari a vantaggio dei giovani, mantengono la maggioranza fedele al sistema. La modalità “intervento diretto” è in Italia quasi assente, perché l’insoddisfazione, per quanto diffusa, rimane di gran lunga insufficiente per poter far nascere un movimento di protesta organizzato. Invece “ritiro” e “fedeltà al sistema” allontanano la possibilità di crescita di quella coscienza collettiva di cui l’Italia ha bisogno per sfuggire gradualmente alla trappola da vecchiaia.

Come si apriranno la strada i giovani? Con la democrazia o con la rivolta?

Sarà un conflitto pacifico o violento? Nel primo caso, un eventuale ipotetico “partito dei giovani” potrebbe servirsi delle istituzioni democratiche per far pressione in vista di radicali tagli ai benefici goduti dai vecchi. Nel secondo caso, delle proteste violente potrebbero portare a un’ondata rivoluzionaria simile a quella del 1968. Sfortunatamente, le tendenze demografiche rendono più probabile il secondo scenario, dal momento che i giovani saranno una minoranza, incapaci di conquistare il potere con mezzi democratici.

Solo adottando serie politiche familiari, che dovrebbero toccare anche nuovi immigrati – che di solito sono abbastanza giovani – si può arrivare con maggiore probabilità ad una “transizione” sociale ed economica di tipo democratico, che riduca le spinte conflittuali o l’afasia sociale. Gli uomini di governo, i politici, ma anche i responsabili delle organizzazioni economiche (a partire dagli imprenditori) – tutti preoccupati su temi (e su interessi “di bottega”) del breve periodo - dovrebbero guardare e riconoscere i pericoli che emergono da questi giovani abbandonati a se stessi. È più che mai urgente che le vecchie generazioni comincino ad agire con saggezza. Come cattolici, poi, che spesso ci appelliamo al doveroso principio di “solidarietà”, tale obiettivo lo dovremmo sentire e vivere come imperativo etico da trasformare in precisa azione politica.

(Luigi Bottazzi)