Home Cronaca Dalla Libertà / L’Albania in un libro di testimonianze

Dalla Libertà / L’Albania in un libro di testimonianze

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In copertina è ritratta un'aquila, simbolo della nazione, che si libra sui monti natii e sulle nubi che li fasciano per volare verso il sole, ad ovest. In basso il filo spinato, emblema di una terra imprigionata dal regime comunista e spauracchio di un popolo, gli albanesi, di cui in "Terremoto a Tirana" Serena Luciani ha efficacemente scritto che "chiusi da cinquant'anni in quella piccola patria dai confini invalicabili come in uno scrigno di cui un pazzo avesse bloccato la serratura gettandone via la chiave in un bosco buio, si sentivano avvolti dal silenzio del mondo fino a soffocarne".

Con questa citazione si apre "Sotto il cielo delle aquile", libro d'esordio del concittadino Robert Shkurti, nato a Durazzo nel 1962 e residente a Reggio da 13 anni e mezzo. Il senso d'oppressione di quelle parole introduttive fa costantemente da sfondo agli otto capitoli di questa galleria letteraria. Vicende vissute o comunque intercettate in prima persona dall'autore, raccontate con buona capacità narrativa e stile diretto. Un sentimento di disagio e spaesamento accomuna tutte le storie, inseparabilmente accompagnato, però, da un chiaro amore primigenio per il Paese delle aquile. Nostalgia inestinguibile, nonostante le delusioni e le sofferenze fisiche patite sia da chi è rimasto sia da chi, come Robert, ha scelto di inventarsi un futuro dall'altra parte dell'Adriatico e dello Ionio. Oggi Shkurti è ben integrato: dal 2000 fa il tornitore alla Interpump di Calerno, dopo che nei primi anni reggiani ha lavorato come manovale in edilizia e successivamente nella cooperativa Unit Service. Sua moglie Vojsava è maestra part time in una scuola per l'infanzia. Le figlie hanno preso parte attiva alla realizzazione del libro: la maggiore Klaudia, che studia Lettere e Lingue straniere a Parma, si è occupata della traduzione del testo, mentre Xhesika (Jessica), che a settembre inizia il 5° anno del liceo magistrale in Scienze sociali, ha disegnato l'immagine di copertina. Completa la famiglia Angelo, terza media, che quando attraversò il mare per sbarcare in Italia era da sette mesi nel grembo della madre.

"Se ripenso a quel viaggio con le bambine e mia moglie incinta - dice Robert all'inizio del nostro incontro - mi rendo conto di essermi assunto una responsabilità enorme, forse ho commesso una sciocchezza... Ma era l'unica cosa che potevo tentare per salvare la mia famiglia dalla miseria". In "Esodo", il capitolo più autobiografico, quell'avventura è ripercorsa per filo e per segno, dai disastri sociali causati dal post-comunismo con l'inganno delle "piramidi", alla chiusura del bar gestito dalla madre di Robert (oggi ricongiunta alla sua famiglia reggiana), sino alla rischiosa traversata a bordo di una nave controllata dalla mafia albanese.
Era il marzo 1997 e il passaggio all'altra riva costava circa un milione di lire, comprensivo, nel caso specifico, di guasto al motore, notte all'addiaccio e moto ondoso forza sette. Il giorno dopo il traumatico arrivo al porto di Brindisi, Robert e i suoi cari vennero inseriti in un gruppo diretto a "R." (Reggio Emilia). A questo punto la narrazione, nel testo, s'interrompe su alcuni interrogativi sospesi: "Avremmo trovato lavoro? Avremmo imparato bene l'italiano?".

L’incertezza iniziale si diradò quasi subito. Per 13 mesi la famiglia immigrata fu accolta nel padiglione "Besta" del San Lazzaro. Cibo e alloggio erano gratuiti, sicché l'uomo poté impiegare i primi guadagni per saldare il debito che portava sulle spalle: di 5 milioni di lire ("per un albanese - precisa – paragonabile a circa 50.000 euro di oggi"). Col tempo venne poi la sistemazione in un vero appartamento e, cinque anni fa, il trasloco in un'altra zona della città.

Robert non smette ancor oggi di ringraziare il Comune, la Provincia, Acer, i poliziotti e i vicini di casa che hanno contribuito ad una piena inclusione sociale della famiglia. Anche perché la sua idea d'integrazione è limpida: "Sono ben conscio di ciò che significa essere un immigrato, so che devo rispettare la cultura e le leggi di qui e sto veramente male ogni volta che il comportamento di qualche connazionale mette in cattiva luce la maggioranza degli albanesi che vivono e lavorano lealmente in Italia".

Robert è figlio di genitori musulmani ma si definisce non praticante; un tipo cordiale e volitivo, che nel tempo libero ama leggere e si tiene in contatto con l'associazione albanese "Skanderbeg" di Parma. Oggi, in procinto di diventare a tutti gli effetti cittadino italiano, è fiero che i figli possano studiare nel nostro Paese: "Dico loro che sono avvantaggiati, perché conoscono bene due lingue, due culture; si sentono sia italiani che albanesi". Ed è curioso che stiamo parlando a ventiquattr'ore dal suo ritorno dalle vacanze, trascorse con tutta la famiglia proprio a Durazzo, dove la storia è cominciata. L'Albania del 2010, commenta Robert, è molto diversa e decisamente migliorata rispetto a quella raccontata nel libro, lo Stato in cui "la proprietà privata si riduceva ad una bicicletta" e i salari erano da fame. "Si vedono tante belle case nuove e un po' più di benessere, anche se la politica lascia sempre a desiderare", annota.

Benché recenti, appaiono già lontani gli anni della prima emigrazione vissuta da Robert - per cinque mesi, nel 1991, a Salonicco – e ancor più remoti i ricordi d'infanzia, negli anni poverissimi in cui s'invidiavano i "blue jeans" o i capelli lunghi banditi dal Partito comunista. Tutte le bugie spacciate come dogmi dal regime vengono a galla impietosamente tra le righe del libro, grazie anche all'intervento di Max Bruno, un vicino di casa che si è interessato della pubblicazione di questi racconti e che firma la prefazione.

"Spero solo - vaticina Shkurti - che il mio libro rappresenti un mattone di quel muro che gli immigrati in Italia stanno costruendo giorno dopo giorno con il loro lavoro onesto". Intanto ci consegna una dichiarazione d'amore per l'Albania e insieme una testimonianza coinvolgente e "universale" sulla precaria condizione di chi è costretto ad abbandonare la propria terra.