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Crisi: Appennino chiama Europa

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La crisi in cui viviamo ha origini molto lontane. L’Appennino, a volte terra di confine, ne subisce più di altri territori le conseguenze. Alla crisi si potrebbe opporre una proposta europea coraggiosa.
Andiamo con ordine. Guardare alla storia dei popoli e dell’economia può anche essere un’esperienza molto interessante. Per insaporire le pagine dei sacri testi scolastici potrebbe essere sufficiente fare un parallelo con la cronaca attuale. Gli indizi economici dell’anno della recessione, infatti, sono accompagnati da episodi di cronaca e di politica significativi e, a volte, inquietanti.

Cronache di inizio anno
Pensionati e lavoratori che si suicidano prendendo a motivo principale motivi economici. L’Europa che torna sotto l’egida della Germania e del paese di Napoleone, il regno inglese che, diffidente, si defila. La borsa che sale e che scende in maniera compulsiva. La gente che inizia a utilizzare meno l’auto. L’Ungheria che modifica in termini nazionalisti la costituzione. La casta che difende se stessa. L’economia della moneta che non riesce da sola a bastare alla mancanza di una economia reale e vera tra gli stati. Misure di tassazione rivolte agli immigrati. Ognuno di noi, facilmente, può associare questi fatti ad altri momenti storici che presentarono analoghe evoluzioni: l’avvento del nazifascismo, la crisi del 1928, lo shock petrolifero degli anni Settanta, la disgregazione degli Stati e l’avvento della prima guerra mondiale….

L’Ottocento conobbe la pace ma…
Karl Paul Polanyi era un economista ungherese (toh!) che riparò in Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni, aveva una teoria sulla lunga pace che, in Europa, dal 1815 precedette lo scoppio della Grande Guerra e pazienza se negli stati “incivili” africani il colonialismo praticasse l’orrore in maniera diffusa. Per l’Europa si chiamavano: equilibrio tra le grandi potenze, gold standard (legame delle monete di uno Stato all’oro posseduto), economia capitalistica (basata sulla rivoluzione industriale e fondata sul principio di una autoregolamentazione economico-sociale attraverso il mercato), lo stato del diritto accompagnato al riconoscimento di alcune libertà fondamentali. Se questi principi dovessero valere anche oggi, saremmo a rischio di una nuova guerra. I fatti cui assistiamo ogni giorno lo dimostrano.

…mancava la solidarietà
Ai princìpi sopra esposti dopo la Seconda guerra mondiale per costruire un’Europa con la pace se ne dovette aggiungere uno molto importante. Quello della solidarietà. Il 9 maggio è festa d’Europa, perché un certo Schuman, ministro degli Esteri francese, lo stesso giorno del 1950, iniziava un suo celebre discorso sostenendo come “l'Europa non potrà farsi una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”.
La direzione intrapresa fu proprio questa: per realizzare una nuova società priva di contrasti si pensò di lavorare insieme nella produzione di acciaio e carbone, materie che, invece, in precedenza erano utilizzate singolarmente in ogni Paese per produrre strumenti bellici. Schuman aveva visto giusto perché dall’istituzione della Comunità economica del Carbone e dell’Acciaio (Cerca) prese via il treno a vapore della moderna Unione europea che della solidarietà fece baluardo. Tanto che mai, prima di oggi, in Europa si era visto un periodo simile di pace e prosperità. Fine delle guerre, crescita economica, solidarietà e unione monetaria.

Pesa l’assenza di una politica unitaria
L’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti individua in motivi storici, culturali, congiunturali ed esterni, la crisi dell’economia italiana ed europea. L’unione (solo) monetaria ha rivelato tutta la sua fragilità. A Schuman non sono seguite scelte altrettanto coraggiose. L’assenza di una unione politica tra gli stati ha lasciato spazi alla finanza che in alcuni casi (ricordare quando la Banca Centrale chiese all’Italia una manovra per lo sviluppo?) ha preso il posto della democrazia.
In tempi non sospetti Romano Prodi sostenne che i grandi cambiamenti (maggiore unione tra gli stati, oltre la moneta) si potranno fare solo a seguito delle crisi. E’ verosimile: diversamente i grandi cambiamenti non avvengono e, a distanza di sessant’anni l’Europa è priva di politiche economiche, estere e militari comuni.
Nel mentre l’incepparsi della crescita economica porta inquietanti risvolti, anche in Appennino facilmente percepibili. Si chiamano perdita del lavoro, blocco del commercio, aumento del divario tra chi possiede di più e chi possiede di meno, aumento del divario di servizi tra i territori ricchi e svantaggiati (Appennino), flussi di persone che si spostano verso le zone più ricche con episodi che abbiamo citato, crisi del piccolo artigianato, insicurezza e perdita del risparmio e molto altro.
C’è un rischio guerra? Se alle armi sostituiamo le tensioni sociali e la prepotenza della finanza (che al contrario della solidarietà tende a eliminare il più debole), sì, il rischio di una guerra tra classi e stati è oltremodo reale. Gli esiti francamente non sono prevedibili, per altro (in Italia) dinnanzi a una classe sociale arroccata sui propri privilegi come, impietosamente, dimostrano le prese di posizione di queste ore.

L’Appennino, osservatorio privilegiato
L’Appennino rappresenta un osservatorio privilegiato. Mentre le città italiane, dalle cronache che leggiamo, esprimono leader, festival e modelli di vita, con una autoreferenziale ricerca del benessere, con il serio rischio di perdere di vista l’Europa, la montagna propone un modello (europeo) di soluzione alla crisi molto più semplice, che dell’unione politica vera degli stati ha bisogno come l’aria.
Ce lo indica lo spirito di solidarietà dei paesi. Ce lo indicano i monumenti ai caduti presenti in ogni piazza dei nostri comuni che mai più vorremmo erigere. Ce lo indica il nostro essere “riserva” di stile di vita, per dirla alla Giovanni Lindo, o “Parco nel mondo” come insegna la nostra storia di emigrazione. Ce lo indica la nostra maggiore apertura alle persone (retaggio positivo di secoli di lavoro di comunità) rispetto al modello condominio delle città capoluogo. Ce lo indica chi sceglie l’Appennino consapevole che non sempre il benessere può e deve aumentare, ma il benessere economico può diminuire e, allora, la ricetta è quella di una volta, con uno stile di vita sicuramente più povero ma di relazione, con le persone e l’ambiente. Lo stesso che i nostri nonni ci hanno raccontato. Non ultimo, chi scrive si è ricreduto sulla fuga dei cervelli: i giovani neolaureati che partono dall’Appennino e iniziano a girare il mondo si arricchiscono in fatto di formazione ed esperienza; forse, un giorno, alcuni di loro torneranno e, allora, crescerà la civiltà stessa dell’Appennino. Pur consapevoli, certo, che in silenzio e da anni già da decenni siamo alle prese con un reddito medio inferiore, una modesta concentrazione di abitanti, una conseguente minore rete di servizi, un’età media che si alza e, sempre più spesso, chiamati all’incontro con le nuove popolazioni.

La soluzione europea
In questo quadro l’Appennino è, suo malgrado, parte di una società globale che, per altro, ha gettato le basi per la crisi del sistema manifatturiero italiano aggravando in Italia la crisi economica.
Dinnanzi a una crisi globale una prima risposta forte può giungere solo da una nuova Europa. Politicamente unita e, quindi, capace di essere democratica, solidale, forte anche a dispetto della finanza.
Per fare una Unione europea veramente unita occorre che la politica degli stati sia meno autoreferenziale, il tema sia posto in agenda e i cuori delle persone si aprano a questa (rivoluzionaria?) idea. Se facciamo nostro quest’ultimo punto i politici dovranno adeguarsi.

(G.A.)

PS: In tempi di crisi anche gli evasori sono chiamati a fare la loro parte. Ben venga la trasparenza sui conti correnti e, anche se a quel tempo non ci saremo, la scomparsa della moneta a favore delle carte di pagamento. Con oltre 100 miliardi di euro recuperati all’evasione l’Italia sarà davvero un grande paese.