A inizio anno, in questo spazio, discutevamo dell’esigenza, a partire dall'Appennino, di più Europa. Sul tema, a partire da un’analisi economica, si esprime Rossella Ognibene che, per Redacon, da alcuni mesi tratta il tema della crisi.
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Da più parti studi di istituzioni finanziarie stanno elaborando gli scenari ipotizzabili dell’uscita di uno o più Paesi dall’eurozona.
Innanzi tutto occorre valutare i limiti normativi dei Trattati Europei.
I trattati, infatti, non contengono clausole che disciplinano la possibilità da parte di uno Stato di abbandonare volontariamente oppure di essere espulso dall’Unione Monetaria Europea.
Il solo modo per “disciplinare” in modo “ordinato” l’uscita di uno Stato è quello di negoziare un emendamento del trattato che crei una clausola di uscita di un Paese dall’Unione Monetaria: la clausola deve però essere negoziata con tutta l’Unione europea (i Trattati sono dell’Europa a 27 paesi ) e non solo con i Paesi dall'area euro (sono 17 i Paesi dell’eurozona).
In sintesi, l’uscita “ordinata” di un Paese dall’Europa dei trattati non è procedura semplice e tantomeno “veloce”.
Ed il tempo manca. Grecia ha solo 6 settimane di autonomia finanziaria, dopo di che, senza gli aiuti europei e del FMI (Fondo Monetario Internazionale), non avrà più soldi per la macchina statale (stipendi pubblici, pensioni, servizi, ecc.)
Studi di istituzioni finanziarie di rilievo internazionale mostrano che esistono cinque principali costi potenziali derivanti dall’uscita dell’Unione Monetaria e dall’adozione di una valuta nazionale.
Riporto di seguito i contenuti dello studio di “UBS Investment Research del 6 settembre 2011, “Euro break-up – the consequences”.
CASO I: Default del Debito Pubblico
Se un Paese decide di abbandonare la valuta comune, si troverebbe di fronte a due scelte per quanto riguarda il debito pubblico:
- Lasciare il debito denominato in Euro: poiché a causa dell’uscita dall’Euro il Paese vedrebbe distrutto il proprio commercio estero; non riuscendo ad ottenere valuta estera (in questo caso Euro), non sarebbe in grado di finanziare il debito: di qui il default.
- Convertire il debito nella valuta nazionale: questo potrebbe essere interpretato dagli investitori come un segno di difficoltà nel ripagare i propri debiti. In tale situazione il tasso d’interesse sui debiti tenderebbe ad aumentare a livelli tali da decretare il default. Tuttavia, questo secondo scenario è indipendente dall’appartenenza o meno all’Euro (vedi gli avvenimenti della Grecia): il costo aggiuntivo che l’uscita dall’Euro avrebbe per lo Stato sarebbe invece il default del settore “Corporate”, le obbligazioni emesse dalle società. Le aziende avrebbero difficoltà a ripagare i propri debiti in valuta estera a causa del forte deprezzamento del cambio successivo all’uscita del paese dall’Euro (se il cambio si deprezza significa che sono necessarie più unità di valuta nazionale per acquistare una unità di valuta estera).
CASO II: Collasso del sistema bancario interno
L’incertezza derivante dalla nuova valuta genererebbe una corsa agli sportelli poiché, coloro che hanno depositi in Euro, ritirerebbero i loro soldi prima dell’avvenuta conversione. Nel caso di assenza di restrizione ai movimenti di capitale e persone imposti dal Governo si genererebbe un deflusso di capitali verso l’estero e un collasso del sistema bancario. Bisognerebbe realizzare la conversione valutaria all’improvviso, così da sorprendere e anticipare le mosse degli investitori. Questa soluzione è tuttavia irrealistica dati i tempi necessari di transizione da una valuta all’altra e la facilità di circolazione delle informazioni.
CASO III: Uscita dall’Unione Europea
L’intero processo di conversione dell’Euro in valuta nazionale sarebbe contrario ai numerosi trattati europei e comporterebbe una rottura unilaterale del Trattato di Maastricht, Trattato di Lisbona e Trattato di Roma. Inoltre l’introduzione di controlli al movimento di persone e capitale, molto probabili, decreterebbero la rottura di vari trattati europei. È quindi improbabile che un governo possa lasciare l’Euro e rimanere Stato membro dell’Unione Europea.
CASO IV: Perdita di benessere sociale derivante dall’attuazione di politiche protezionistiche
L’uscita di un Paese debole dall’Euro determinerebbe nel breve periodo un vantaggio competitivo in termini di svalutazione della propria valuta nazionale: tendenzialmente esporterebbe di più. Tuttavia i Paesi membri dell’Eurozona adotterebbero misure protezionistiche per difendersi commercialmente da questo Paese. Se ci fosse anche l’uscita dall’UE si verificherebbe il danneggiamento, se non l’interruzione, dei rapporti commerciali tra questo Paese e l’Unione.
CASO V: Disordini civili
All’interno del Paese si verrebbero a creare divisioni tra coloro che ritengono opportuno rimanere nell’Euro e chi no, tra chi ne ha tratto o ne trarrebbe un grave danno economico e chi no. Tali fratture interne potrebbero sfociare in disordini, addirittura guerre civili o, nei casi peggiori, sistemi dittatoriali al fine di reprimere i disordini sociali. Questo è quanto è successo storicamente.
Aggiungiamo che l’uscita di un Paese dall’Unione determinerebbe poi attacchi speculativi a quel Paese e agli Stati deboli dell’Unione (es. Italia, Spagna): ci sarebbe un contagio, con un enorme aggravio di costi economici e finanziari, basti pensare agli effetti sugli investimenti delle famiglie. La dissoluzione dell’Unione a questo punto sarebbe probabile e comporterebbe la perdita del peso internazionale dell’Europa.
Conclusioni
In ogni caso i costi sono altissimi: UBS prova a stimare concretamente il costo monetario pro-capite per il primo anno derivante dall’uscita di un Paese debole dall’Euro. È una cifra compresa tra 9.500 e 11.500 Euro a persona! Quindi, alla luce degli attuali avvenimenti, affinché sia vantaggioso per gli Stati membri rimanere nell’Unione Monetaria ed evitare d’incorrere nei costi sopra descritti, è fondamentale il raggiungimento di una completa integrazione delle politiche economiche.