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Abbiamo smarrito la “normalità”?

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(Foto Piero Caolzona)

 

Avevano destato non poca curiosità le formiche e le cicale simbolicamente rianimate dal “Conte da Palude” - che due mesi orsono, su RedAcon, ha riproposto per l’oggi l’antica favola di Esopo - tanto che un lettore chiedeva di vederle individuate fra le moderne categorie sociali.

La risposta più spontanea ed immediata che viene in proposito alla mente è certamente quella di assimilare le metaforiche formiche del “Conte” alla miriade dei piccoli e medi risparmiatori che nel corso degli anni hanno sommato laboriosità, intraprendenza, oculatezza, per mettere da parte una qualche “riserva” economica, così da poter affrontare con maggiore tranquillità gli eventuali imprevisti della vita, senza dover necessariamente pesare sugli altri (similmente alla scorta di provviste per l’inverno che vigeva nel mondo rurale dei lontani tempi andati, specie quando il raccolto dell’annata era stato più abbondante e permetteva dunque un maggiore accantonamento).

 
il “salvadanaio”

E’ pertanto ben comprensibile l’orgoglioso e tenace attaccamento di questi risparmiatori verso tale loro “salvadanaio”, che vorrebbero ben custodito e financo “inviolabile”, giacché lo sentono come una “proprietà” del tutto legittima e rispettabile, frutto di impegno e di sacrifici, e si ribellano all’idea che possa essere considerata una appetitosa “ricchezza” da tassare, o “tartassare”.

Il risparmio privato, d’altronde, quello cioè che viene convenzionalmente attribuito alle famiglie, è da sempre annoverato tra le virtù e i vanti del “sistema Italia”, anche perché lo si guarda come un prezioso salvagente cui far ricorso nei momenti di crisi, o come lo strumento con cui, all’occorrenza, dar sostegno a figli e nipoti (e semmai permettersi una qualche forma di generosità verso chi, meno fortunato, può aver bisogno di aiuto).

Niente a che fare dunque con la “totale dipendenza dal denaro”, ovvero con una visione “economicistica” del mondo, di cui parlano taluni critici o detrattori dell’odierno modo di vivere - ammesso e non concesso che abbiano ragione - ma si tratta piuttosto e più semplicemente di una mentalità ereditata dai tempi in cui gli ombrelli sociali forniti dallo Stato non erano molto estesi, e si doveva innanzitutto confidare sulle proprie forze e proprie risorse economiche, talché un po’ di “accumulo” diveniva utile, se non obbligato.
mentalità che merita rispetto

Se andiamo poi ad osservare le vicende del presente, e scrutiamo altresì l’orizzonte che volge al futuro, anch’esso foriero di incertezze, quella mentalità merita in ogni caso grande considerazione e rispetto - anche perché ci riporta alla terra, e alla sua “etica”, e ci lega ad un passato che non è tutto da buttare come forse ci eravamo abituati a credere - ed è stata quindi buona cosa l’avercelo rammentato anche attraverso l’insegnamento che ci giunge da una arguta “storiella” di oltre duemila anni fa.
Ma il richiamo alla vecchia favola di Esopo fatto dal “Conte” mi è sembrato portarsi appresso anche l’ombra di un sagace “retro-pensiero”, che spinge a sua volta ad una ulteriore riflessione, di portata più generale.

Per una non breve stagione, a partire dal secondo dopoguerra, il vivere quotidiano delle nostre comunità - come può ricordarlo un esponente di quelle generazioni - ruotava intorno ad alcuni punti fissi, ivi compresa una scala di valori e di priorità, ossia di regole non scritte per dirla diversamente, cui i più si attenevano con una sostanziale naturalezza, anche in ragione dell’impronta educativa ricevuta.

 

comuni denominatori

Si era cioè in presenza di “comuni denominatori” e di parametri che facevano da riferimento, e da faro o battistrada, per chi volesse servirsene, e andavano così a rappresentare, quasi in automatico, la “normalità” (la quale comprendeva giustappunto anche la cultura del risparmio, ogniqualvolta i bilanci familiari lo avessero permesso).

Agli occhi di altri quel sistema appariva probabilmente troppo conservatore, ingessato e opprimente - oppure monotono e scialbo, e tendenzialmente retorico - ma chi non possedeva doti particolari da spendere, o “eccellenze” da esibire, o non amava i protagonismi e i riflettori, poteva invece sentirlo come un “grembo” ospitale e protettivo.
Difficile negare che in quel “mondo” vi fosse una certa qual dose di conformismo, che non significava tuttavia appiattimento e omologazione, non essendo impedito ad alcuno, salvo i normali limiti del nostro agire, di esercitare il proprio talento, e dar sfogo all’estro e alla creatività, come stanno a dimostrare i tanti, ormai non più giovani, che hanno allora raggiunto il “successo” e hanno potuto soddisfare le loro aspirazioni, e anche ambizioni.

 
rassicurante “normalità”

Ma al di là dei singoli destini vi era comunque una rassicurante “normalità”, ben connotata e ravvisabile, e di “libero accesso”, nella quale poter eventualmente far ritorno, o rifugiarsi, anche per attutire le sconfitte e le “cadute” che la vita può sempre riservare.
Ciascuno di noi può ovviamente avere di quel passato i giudizi più diversi e disparati - anche chi, per ragioni anagrafiche, lo ha sentito soltanto raccontare - ma vi è comunque un aspetto che si fatica a disconoscere, anche da parte dei suoi eventuali contestatori.

Quegli anni -  pur con il loro carico di squilibri e di insufficienze - non avevano prodotto nella società il clima di disorientamento, fragilità e sfiducia, che sembra contrassegnare i giorni nostri, per descrivere i quali si vedono impiegare i più svariati concetti, quali rassegnato pessimismo, superficialità, disadattamento, speranze smarrite, ripiegamento nell’individualismo, azzeramento della socialità, impoverimento spirituale.

A parte le terminologie e le “etichette” via via utilizzate, non è sicuramente facile decifrare le cause di un tale “decadimento”, verosimile effetto di una molteplicità di fattori e coincidenze, così come non è mai agevole il confronto tra passato e presente.

Nondimeno, col senno del poi, varrebbe forse la pena di chiedersi se, un po’ tutti, non abbiamo sottovalutato troppo la “normalità”, fino a perderla per strada, e se non sia il caso di provare a recuperarla, anche in fretta - o a ricostruirla, casomai secondo canoni più attuali - senza il timore di essere presi per retrogradi o “parrucconi”, perché viene in fondo da presumere che senza costumi di vita cui poter guardare e se del caso aderire, cioè senza un modello di vita in cui potersi riconoscere, aumenta per l’uomo il rischio di sbandare e di “perdersi”, come appunto pare stia oggigiorno succedendo per taluni pezzi della nostra società.
(P.B.)

3 COMMENTS

  1. Un argomento da un milione di euro… gentile P.B. temo non sia questo il luogo di discussione più idoneo per riflettere su valori così importanti che riguardano non solo la società attuale ma la storia, la filosofia, la nostra archeologia culturale già archiviati da secoli di relativismo, il cui culmine è stato raggiunto negli ultimi 40 anni e come una diga che crolla ha finito per trasportare a valle detriti, macerie e anche tante cose che sarebbero state ancora utili. Non occorre essere troppo cinici per rendersi conto che questi argomenti non interessano che piccoli gruppi isolati di uomini che continuano a coltivare il cattivo eserciio di mettere insieme fatti, esaminarli e tentare di capire dove sta andando il mondoe dove stiamo andando noi. Solo oramai semplici esercizi retorici per dare spaio ai microbici “distinguo” di una società che alla parola “normalità” preferisce la parola “diversità”, originalità, avendo da tempo oramai confuso, in una Babele, tempio di maestri del pensiero improvvisati (attori, guitii, giornalistuincoli) che la normalità è noia, la quotidianità contadina una sorte di peste bubbonica e la creatività di questa umanità omologata si traduce in uno sballo di branco, dove le persone si illudono di scegliere compagni di viaggio con i quali condividono idee che al primo stormire di foglia vengono accantonate. Temo che solo un cataclisma o un diluvio potrebbe farci desistere dal continuare questo tempo di ordinaria follia. Vorrei tanto essere smentito da una folta partecipaione a questo thread di discussione… vedremo…
    Buona notte signor uomo normale.

    (M.N.M.)

  2. DIARIO DELLA CRISI / Bilanci
    Arrivano… arrivano sempre, e a volte, te li trovi addosso portati da altri, non bastassero i tuoi: saltano i rifugi come rocche cadute all’assedio del tempo, ruderi nudi gli errori di un passato, che il tuo essere diventato un altro rende ancora più nitidi e violenti, ma non puoi intervenire su di essi, non sono più tuoi; tu sei – altro – ma loro sono lì a ricordarti e ne sarai prigioniero. Passa la tua vita… con le sconfitte e i premi… gli incontri così vicini che ne puoi ancora vedere i colori, riesci ancora a distinguerne i suoni ma è passato, distanti, e come gli errori non ti appartengono più; li hai commessi quegli errori e li hai pagati: ti hanno imposto di pagarli per poi, il tuo averli pagati, fosse prova contro di te di averli commessi…
    Ma la vita continuava e non si era dimenticata di te…
    …e così le cose che hai fatto… il vederle crescere come fossero organismi vivi, il vederle irrobustirsi, prendere forza, consistenza… vederle là, in piedi, dopo aver tolto le casseforme… per poi non sentirle più tue il giorno della consegna. Quanto si è amato… quanto siamo stati amati… poi solo il tempo a strappare i ricordi. Il gioco allora, del viversi liberi in un mondo che si muoveva intorno a te libero… quel rincorrersi per mezza Europa per vivere un’emozione… girare mezzo mondo a cercare, illudendoti di trovare nelle cose che facevi, l’appagamento ad una nostalgia che non ti avrebbe mai abbandonato e la tua vita vissuta come esplosione: vita, follia e la stessa morte vissuta nei cantieri, in cava, in galleria, coniugate insieme nella disperazione di cercare un limite che non fosse il tuo. Ora il tuo limite è qui… il presente, il tuo presente, una crepa definitiva su di un lastra: i tuoi anni.

    (mv)

  3. Può esservi senz’altro del vero nelle parole di M.N.M., laddove sostiene, se non ho interpretato male, che vi sono argomenti poco seguiti perché ritenuti di scarso interesse, al punto che il trattarli si esaurisce in un “semplice esercizio retorico” per dare spazio a “microbici distinguo”. Se però le conclusioni di un tale ragionamento arrivassero a dirci che conviene astenersi dal considerare tematiche che hanno poco “indice di ascolto”, anche perché si rischia di fare soltanto della pura e inutile “accademia”, mi sentirei di controbattere con una obiezione, o, meglio, una riflessione.
    Nel nostro Paese vi sono filoni culturali, vedi anche sul piano politico, che non hanno attualmente molto seguito, sono cioè nettamente minoritari. Se valesse la logica di M.N.M., così come l’ho intesa, se prevalesse cioè sempre e comunque la forza dei numeri, non varrebbe allora la pena di dedicar tempo e intelletto a “linee di pensiero” date per perdenti, ma mi pare che in questo modo si andrebbe ad impoverire ingiustamente il confronto delle idee (senza alcun riferimento alla mia “microscopica” nota commentata da M.N.M.). Va da sé che chi esprime idee “perdenti” deve rassegnarsi ad aver minore attenzione, e meno lettori, salvo che non riesca pian piano ad invertire le cose. Riconosco nel contempo che, quantomeno a mio vedere, non si dovrebbe indugiare oltremisura su disquisizioni che rimangono troppo astratte, nel senso che non possono in qualche modo avere una trasposizione pratica, e concreta, nel nostro quotidiano.
    Chiedo poi scusa a M.N.M. se avessi travisato i suoi concetti o non ne avessi compreso la reale essenza.

    (P.B., 30.6.2012)