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“Oltre la crisi”

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Riceviamo e pubblichiamo.

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Il nostro è un grande e stupendo Paese, ricco di storia e  di cultura, con un patrimonio artistico unico al mondo, costellato di ineguagliabili bellezze naturali e paesaggistiche, stimato e invidiato per l’ingegno e la creatività che ha sempre saputo esprimere. Più di una volta, nel passato, questa  nostra Italia ha attraversato periodi  difficili e tribolati, ma è sempre riuscita a riscattarsi, grazie appunto alle sue doti e anche alla sua “nobiltà d’animo” che nei modi e nei momenti più inaspettati le fa dare il meglio di sé e le fa tirar fuori  le sue straordinarie potenzialità.

Timore per i nostri risparmi

Di fronte a tali sue innegabili  “qualità” viene spontaneo chiedersi  come mai l’Italia possa essere precipitata nella  crisi attuale  -  dominata dallo “spread” e dalla speculazione   internazionale  -  che sembra interminabile e  ci fa temere ogni giorno per i nostri risparmi e  che ha imposto misure economiche molto dure e severe. Tasse e imposte  che hanno già scontentato parecchie categorie e altre sono sul “piede di guerra” per i tagli che si stanno preannunciando  nell’operazione di spending review, che, detta in italiano, sarebbe la revisione della spesa pubblica. Una medicina amara per gli italiani, che diviene ancora più sgradevole e indigesta se non riusciamo a guardare oltre la crisi. Durante il tempo del suo mandato, il governo in carica, a guida del prof. Monti, si è proposto di ottenere il risanamento dei conti pubblici, per poi far ripartire il Paese, e a quel momento noi dovremo sapere dove andare, verso quale modello puntare,  perché soltanto così i sacrifici di oggi potranno essere meglio sopportati.

Recuperare il buon senso

Noi riteniamo che il nostro futuro debba veder  recuperato  tutto il buono e il buon senso che c’era nel “sistema Italia” e che per una serie di ragioni si è disperso o si è spezzato. Ricostruire e aggiustare  il positivo di quel  passato riserva certamente meno incognite rispetto all’avventurarsi  in “nuovo” tutto da inventare. Non possiamo infatti dimenticare che l’Italia ha avuto anni di florida prosperità, ma era comunque un benessere non egoistico, che sapeva essere solidale con i meno fortunati, dentro e fuori i confini nazionali, e lì dovremmo ritornare, o almeno provarci. Risale giusto a quell’epoca il riequilibrio tra le zone più “forti”, come le aree cittadine e metropolitane, e quelle più “deboli”, vedi  i  comprensori montani.

I tre poli ospedalieri provinciali

Oggi, ad esempio,  si teme per la sopravvivenza degli ospedali più piccoli, ma andrebbe ricordato che un tempo, proprio per scongiurare una siffatta eventualità e volendo restare nei dintorni di casa, erano stati concepiti i tre poli ospedalieri provinciali  (Reggio - Guastalla - Castelnovo ne' Monti)  in ossequio al  principio della  sussidiarietà tra territori, secondo il quale anche i distretti meno popolati e più dispersi non potevano essere sguarniti dei servizi essenziali; quell’idea approdò  in seguito nel piano Pal, rimasto a sua volta ampiamente incompiuto, anzi disatteso. Questa era l’Italia  “saggia” e misurata di quei trascorsi  decenni, che nella sua azione programmatoria sapeva guardare non soltanto alla logica dei numeri, nella fattispecie quelli degli abitanti traducibili in voti, ma aveva sempre presente  il senso della equità, ossia della pari dignità tra le persone, indipendentemente dal loro luogo di residenza (e anche della rispettiva classe sociale). Poi qualcosa è sfuggito di mano e per certi versi si è anche esagerato nei diritti rispetto ai doveri,  anche con l’aiuto dei contestatori di turno, così da generare centri di spesa incontrollati che hanno assorbito ingenti quantità  di risorse, anche a scapito  di chi ne aveva effettivamente più bisogno.  E’ stato il periodo della “finanza allegra”, che tuttavia ha fatto comodo a tanti, non possiamo nascondercelo, anche a chi ne beneficiava e ora  semmai grida allo scandalo.

Il debito pubblico era interno

Ma occorre anche fare dei distinguo: oggi si tende a dar tutta la colpa dei nostri guai al debito pubblico che si è prodotto durante la prima Repubblica, ma quel debito era per la quasi sua totalità un debito interno, non era cioè prigioniero della “finanza creativa” e dei “titoli tossici” e avrebbe potuto diventare pure un investimento se avesse prodotto alla fine  il giusto  ritorno (come succede a una famiglia che ottiene un prestito o contrae un mutuo e riesce a farlo sapientemente  fruttare attraverso il proprio lavoro). Poi è arrivata la globalizzazione con tutto il suo carico di “gioie e dolori”. In ogni caso, l’odierna situazione, seppur complessa e difficile, può essere recuperata. Di recente, infatti, autorevoli fonti istituzionali hanno parlato di 60 miliardi di sprechi e di 300 miliardi aggredibili sui 650 di spesa pubblica. Ci dicono anche che negli ultimi 30 anni i costi dei  servizi erogati dagli enti  pubblici sono aumentati del 30% rispetto a quelli forniti dal settore privato. Vi sono pertanto i margini per mettere in sicurezza i conti pubblici e non smantellare lo “stato sociale”, pur se si renderanno  inevitabili  alcune azioni correttive, anche piuttosto  incisive, proprio al fine di razionalizzare la spesa per l’avvenire.

Occorrono forze politiche non improvvisate

Occorre avere nel contempo consapevolezza che una operazione di questa natura e dimensione richiede il sostegno di forze politiche non improvvisate, ma di collaudata esperienza e consolidata identità, con i “piedi per terra”, e che sappiano affrontare, se necessario, i momenti di eventuale  impopolarità. Pur con i suoi limiti e imperfezioni, cui occorre evidentemente porre rimedio, l’Udc è sicuramente una di quelle forze, e deve farsi promotrice e partecipe di una aggregazione tra soggetti politici di cultura moderata, che sanno esprimere una pluralità di valori tra loro compatibili e complementari, di ispirazione cattolica, liberale e riformista. Le loro rappresentanze possono  essere avvicendate e ringiovanite, ma resterà sempre un rassicurante filo conduttore, tipico dei partiti storici, ad evitare che il cambio degli uomini si trasformi in tanti e incontrollabili personalismi e ad impedire altresì che il pur necessario pragmatismo prenda il sopravvento sulle idealità. Al di là delle odierne contingenze e vicissitudini, nel Paese c’è ancora bisogno dei moderati, che facciano da custodi e da  “guardiani” ai valori fondanti delle nostre comunità e sappiano evitare e contenere gli eccessi e i radicalismi.

Moderatismo e innovazione

Moderatismo non significa affatto immobilismo, anzi, perché soltanto chi è un “conservatore” dei valori e delle tradizioni può permettersi di essere un reale “innovatore”, posto che tutto il nuovo che andrà a proporre non snaturerà in alcun modo l’identità del proprio Paese - si tratta  cioè di un nuovo che non è a ruota libera - e dunque nessuno avrà  motivo di spaventarsi. Moderatismo sta anche a significare costanza e metodo e al tempo stesso pazienza nel perseguire gli obiettivi. Occorre più tempo per arrivare, ma i risultati sono più solidi e duraturi.  La storia del novecento ci ha purtroppo insegnato cosa succede  quando si ha troppa fretta e si affidano  ad un “salvatore” i destini di una nazione.

(Robertino Ugolotti, direzione provinciale Udc)

 

1 COMMENT

  1. La custodia dei valori fondanti e costitutivi delle nostre comunità è cosa importante, perché l’esperienza insegna – al di là delle personali e legittime opinioni di ciascuno – che quando un popolo scorda o trascura la propria identità e imbocca la strada dell’omologazione, fino al “nichilismo”, c’è il rischio reale di non mettere a frutto, anzi di disperdere, il lavoro svolto con impegno e fatica dai padri e predecessori. In tal modo, se cioè si va disperdendo questo prezioso retroterra, una società può infatti andare incontro a un doppio impoverimento, vuoi sul piano etico-valoriale vuoi su quello economico, al punto che, estremizzando i concetti, non rimangono poi energie e risorse per sé e nemmeno per gli altri, si arriva cioè alla condizione che “non ce n’è più per nessuno”, come si usa comunemente dire. Mentre invece occorrerebbe che i paesi più “forti” e “benestanti” potessero rimanere tali – pur con i necessari adeguamenti richiesti o imposti dall’evolversi delle situazioni e circostanze, interne ed esterne – anche per continuare ad essere di aiuto a quelli più “deboli”. Non dovrebbe nel contempo meravigliare che un paese, in casa propria, difenda con orgoglio il “primato” della propria cultura. Primato non significa affatto alterigia o senso di egemonia nei confronti degli altri, ma semplice e doveroso rispetto del proprio passato e delle proprie radici e tradizioni; un rassicurante patrimonio “immateriale” che resta a disposizione anche di quanti, giovani o meno giovani, sono oggi in giro a vario titolo per il mondo (se e quando decideranno di far ritorno a casa).

    (P.B., 10 luglio 2012)