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Nella tormenta!

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Da casa mia alla scuola? Due chilometri di mulattiera! Ma che mulattiera! A volte in piano, più spesso disagevole, con calanchi ripidi e tracciato stretto e scivoloso. L’ideale per la mula di don Abbondio. Giorno dopo giorno dovevo guadagnarmi il privilegio della scuola. E quel percorso lo dovevo completare da solo, senza accompagnatori e senza ... compagni di viaggio. A Castellaro ero l’unico in età scolare. Quelli nati prima di me avevano smesso di frequentare. Non so se per scelta propria o per imposizione dall’alto. Anche due braccia non ancora formate, quali potevano essere quelle di un ragazzo di circa dieci anni, diventavano una forza lavoro per portare al pascolo le pecore o per andare davanti alle mucche durante l’aratura, o per badare i fratellini più piccoli. E, se vogliamo essere anche un poco cattivi, andare a scuola non era considerato il massimo. C’era chi la considerava solo una perdita di tempo, una sottrazione di manodopera. Imparare era un verbo con una sola alternativa: imparare a lavorare i campi!

L’aula era uno stanzone al primo piano, pavimentato con assi di castagno che, ad ogni movimento, si lamentavano, cigolavano. Una vecchia stufa di ghisa tentava di diffondere una dose di calore, ma spesso era più il fumo che l’arrosto. L’amministrazione comunale aveva affittato lo stanzone a Maiola, dalla Minghîna, una vedova che viveva in due stanzette lì di fianco. All’aula si accedeva da una scala anch’essa in legno, di quelle coi gradini larghi, fatti con assi.

Per tutti noi la Minghina era una nonnina: ogni tanto, mentre salivamo le scale, si affacciava per allungarci un dolcetto confezionato da lei nei lunghi pomeriggi, quando la vista non la soccorreva più nella produzione di maglioni o scalfarotti.

In quell’aula, all’inizio dell’anno scolastico, trovarono posto ben cinque classi. E con un’unica maestra. Per fortuna dopo una quindicina di giorni le classi di quarta e quinta furono trasferite a Strada, località più centrale per il territorio della parrocchia, e unite agli alunni provenienti da Pineto. Rispetto ai primi tre anni delle elementari i frequentatori degli ultimi due diminuivano di molto. Quindi conveniva unire in un unico stabile i superstiti.

Eravamo verso la fine di Novembre di 1941, un Novembre come Dio comanda e come era di norma allora, quando le stagioni seguivano tranquille il loro corso. Un Novembre che non risparmiava copiose nevicate, che poi ci portavamo dietro fino all’anno nuovo.

Faceva molto freddo quando, al mattino, giungemmo in aula, ma le strade erano ancora pulite. La giornata trascorse come di consueto, con la maestra che si divideva fra le tre classi dando ad una i pensierini da scrivere, all’altra un problemino di aritmetica mentre continuava ad intrattenere l’ultima classe con esercizi alla lavagna o brevi letture. E nel frattempo ci preparava anche il pranzo su quella stufa a due fuochi. Se poi l’aula si impregnava di odore di cavolo o di verza cotta non ci importava. Il minestrone della maestra, chissà perché, era sempre buono, migliore di quello di casa.

La nostra giornata scolastica durava fino alle quindici, per questo ci veniva somministrato il pranzo in aula. Ma quel giorno il tempo prese una piega poco rassicurante, per cui la maestra decise di lasciarci uscire prima che le strade si coprissero di neve. Come il sottoscritto anche altri dovevano raggiungere borghi lontani dalla scuola. Ma almeno loro erano più di uno. Nevicava già, ma non ancora forte. Ma, appena raggiunta la strada, iniziò un turbinio di grandi falde che in brevissimo tempo raggiunse l’altezza di una scarpa. Lungo il mio tragitto, poco fuori dalla borgata, c’era una casetta isolata denominata La Cuèta. Vi abitava una signora anziana con un figlio ancora scapolo, o, come si diceva allora, pút. Vedendomi un tantino imbarazzato la signora mi invitò in casa, vicino al fuoco, e quando rientrò il figlio dalla stalla mi offrì anche la cena. Anzi, visto che ormai era buio, mi propose di restare a dormire in casa loro. La neve intanto era cresciuta e io avrei davvero avuto difficoltà a romperla per arrivare a casa, col rischio di scivolare in fondo ad un calanco senza la possibilità di chiedere aiuto. Da laggiù nessuno mi avrebbe sentito.

L’ospitalità della signora mi aveva messo a mio agio. Anzi, proprio non mi disturbava dormire per una notte fuori casa. Ma sul più bello, mentre ero coccolato dalla signora e dal figlio, si sentì bussare alla porta. Era mia zia Emma. Prima di passare da quella casa era salita al borgo e si era informata presso le case vicine alla scuola. Qualcuno le aveva riferito di avermi visto scendere in direzione di Castellaro. Cominciava a preoccuparsi. Non avendomi incontrato lungo la strada confidava nell’ultimo posto in cui avrei potuto trovare asilo. Per fortuna sua e mia fu così. Dopo aver ringraziato la signora mi prese a cavalcioni e si avviò verso casa. La neve ora superava il ginocchio, e la fatica era immensa. Io allora avevo sei anni e la zia sedici. Abituata ai lavori di campagna era robusta, forte, e non dimostrò difficoltà a portarmi fino a casa. Appena giunti i familiari ci tempestarono di domande, ma in essi traspariva soprattutto il piacere che la storia fosse finita bene.

 

6 COMMENTS

  1. La zia Emma era forse la figlia della Cliceria?, No, perchè dovrebbe essere tua cugina… Bel racconto, corredato di alcune parole dialettali. Ciao Savino, stai meglio con gli occhi? Un abbraccio ad entrambi.

    (Ilde Rosati)

    • Firma - ilderosati
  2. …”Se poi l’aula si impregnava di odore di cavolo o di verza cotta non ci importava. Il minestrone della maestra, chissà perché, era sempre buono, migliore di quello di casa…”. Odori che impregnano l’anima! Grazie per il racconto.

    (Sergio)

    • Firma - sergio