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La missione del pastore

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CaminoRiceviamo e pubblichiamo.

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Io sono un camino di quelli all’antica, con una  grande bocca dalla quale si può ammirare la fiamma del fuoco e udire il crepitìo della legna che brucia ed emana un calore che, nei giorni plumbei e nebbiosi, ti riscaldano le ossa e ti procurano un benessere che ti gusta oltre misura.

Ora vi racconto una storia che mi è capitata tempo fa. Era un giorno piuttosto freddino e nebbioso e l’umidità penetrava nelle ossa facendone uscire tutti i malanni quasi fossero richiamati da una calamita.

I padroni di casa mi avevano riempito di legna di quercia, bella e stagionata, e quella legna, oltre a mandare un gran calore, emanava un profumo che il camino spandeva nell’aria, rinnovando pensieri di altri tempi.

Ad un certo momento bussò alla porta una uomo intirizzito che cercava un po’ di ospitalità; fuori cominciavano a scendere larghe farfalle di neve e il cielo si era fatto plumbeo e buio e quasi non si scorgeva più la strada.

Aveva l’aspetto rude ma composto e altero ed ispirava fiducia e serenità; così fu fatto entrare ed accettato con cordialità ma lui si avvicinò subito a me quasi immergendosi nella mia fiamma perchè aveva corpo e mani gelide e guardava la fiamma viva in un rapporto… ravvicinato, come d’amore, intenso, appassionato e che è durato fino a quando il suo corpo non si fu riempito di calore.

Si tolse il logoro e smunto giubbotto, posò finalmente a terra il grosso zaino rigonfio e si sedette vicino al fuoco, osservandolo in silenzio, mentre la fiamma consumava, scoppiettando allegramente e lentamente, tutta quella legna; il suo viso a tratti si illuminava e a tratti il suo sorriso si velava di amarezza e nessuno riusciva a capirne il perché.

Una volta che si fu riscaldato, si trovò finalmente a suo agio e gli si sciolse anche la lingua; cominciò a raccontare che lui aveva fatto il pastore e che, mentre le pecore pascolavano, lui raccoglieva tante ghiande che poi selezionava accuratamente la sera dopo cena, dando quelle brutte ai porci ed alle pecore, mentre, il giorno dopo, piantava le più belle e sane nel terreno, a distanza di qualche metro l’una dall’altra.

Ogni giorno cambiava zona coprendo un territorio piuttosto vasto e così facendo, per  anni, era arrivato a piantarne una quantità molto grande, che, crescendo, aveva formato una foresta in un luogo che era stato disboscato selvaggiamente per scopi puramente commerciali.

Il terreno, prima brullo ed arido, era diventato una straordinaria foresta di querce, allineate come se una mano invisibile le avesse ordinate in filari, e lo stupore e la meraviglia degli abitanti e delle guardie forestali erano grandi perchè non riuscivano a spiegarsi l’origine di questo miracolo dato che, a loro conoscenza, nessuno aveva messo mano a quella forestazione.

Il luogo era anche diventato un’oasi di pace e di tranquillità e meta di turisti che amavano fare scampagnate e passeggiare all’ombra di questi grandi alberi sui quali cinguettava ogni specie di uccelli. Gli abitanti del luogo ne ricavavano legna in abbondanza e ghiande che davano da mangiare ai porci la cui carne diventava così soda e saporitissima, ambita e ricercata da tutti.

Erano ricomparsi i funghi porcini, i finferli o galletti, le russule, i caprioli, le lepri e i fagiani e gli uccelli allietavano col loro canto tutto il bosco; gli abitanti ne erano felicissimi perché potevano trascorrere un po’ del loro tempo in quella quiete, portarvi i loro bambini, le loro famiglie e riuscivano a ricavare dalla abbondante selvaggina carni gustose facendone cibi succulenti, molto ricercati dai turisti e dagli abitanti stessi.

Quei semplici ed umili gesti di un pastore, abituato a vivere per molto tempo a contatto della natura, nel silenzio e nella quiete, avevano prodotto una ricchezza impagabile perché lui aveva capito, in quei lunghi tempi di solitudine e di riflessione, che bisognava rispettare la natura, amarla e magari fornirle solo un piccolo aiuto perché il miracolo lo avrebbe compiuto lei.

Allora è apparso chiaro il senso di quel velo di amarezza: nel fuoco ardente lui vedeva consumarsi il frutto del suo lavoro, vedeva la “sua” foresta bruciare e così scomparire di nuovo, ma nel suo sorriso  si capiva anche quante ricchezze e doni la natura ci può fornire e quanto sia straordinaria questa simbiosi.

L’habitat del pastore era diventata la natura nella quale si immergeva ogni giorno con le sue pecore e anch’esse ne avevano un bisogno grande, essa che forniva anche a loro il necessario per vivere e crescere e di essa non potevano fare a meno. Ora lui non aveva più le sue amate pecore che chiamava ognuna per nome, ma aveva ancora salute e gambe buone e non riusciva a staccarsi da quel mondo in cui aveva vissuto a lungo.

Dopo aver riposato la notte egli ringraziò per la gentile ospitalità, estrasse dallo zaino un po’ di pane e di formaggio pecorino, si caricò sulle spalle il suo zaino e, mentre si avviava per riprendere il cammino, una ghianda cadde dallo zaino; egli si voltò, sorrise, salutò tutti e continuò per la sua missione.

Lui aveva tracciato un cammino ma non bisognava abbandonarlo; ora si trattava di percorrerlo con altrettanta saggezza e amore perché l’amore che noi diamo ci viene restituito con il centuplo.

(Enzo Fontana, 20.12.2014)