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E dai sassi informi nacquero i volti di Nasseta

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(Alessandro Toni e la sua Annetta)
(Alessandro Toni e la sua Annetta)

Ieri sera mi sono recata presso la Corte della Maddalena, a Busana, per visitare la mostra di Alessandro Toni “I volti di Nasseta”.

Nella suggestiva cornice della corte sono esposte numerose sculture realizzate con materiali diversi: marmo bianco di Carrara, terracotta, sassi in arenaria tratti dal nostro Appennino.

Rappresentano sembianti ispirati a Nasseta (su cui Rosa Maria Manari, padrona di casa, ha scritto "Alla corte di Nasseta, storia di un paese che non c'è", 2012) e da subito colpisce la varietà di interpretazione della figura umana; da “Annetta”, i cui lineamenti delicati tratti dal marmo bianco suggeriscono un’assorta meditazione, alle due teste in terracotta raffiguranti “Il giudizio di Dio” che mi rammentano “Attila, flagello di Dio", film del 1954 con Anthony Quinn, per le fisionomie vagamente asiatiche.

L’aia raccoglie le sculture dai tratti più classicheggianti; in alcuni casi ricordano, per esempio, le teste dei grandi pensatori (Socrate di Lisippo) o, come nel caso di “Annetta”, riportano ad alcune immagini del Rinascimento.

La conoscenza dell’anatomia della figura, da parte dell’autore, è evidente, anche se spesso sceglie di stravolgerla in favore di una maggiore resa espressiva e drammatica. Incontriamo allora volti quasi distorti, dalle arcate orbitali innaturalmente prominenti, con occhi ridotti a piccole cavità, quasi cieche, bocche aperte in smorfie o grida, colli taurini.

A mio parere solo avendo una buona conoscenza dell’anatomia umana, e quindi sapendo cosa si ritrae, si può “scavalcare la scuola” e rendere lo spirito che si desidera fare albergare nelle raffigurazioni che si realizzano, anche attraverso il grottesco, senza cadere in una inconsapevole approssimazione.

Sono proprio questi volti che vengono accolti, in una lunga teoria, nel cortiletto interno che ha ospitato anche un gradevole buffet.

I massi, raccolti nel nostro Appennino, si liberano dall’eccesso della materia e si fanno immagine, spesso mostruosa, sempre contorta.

Mi rammentano le parole del sommo artista, Michelangelo Buonarroti, per il quale la figura era imprigionata nella pietra ed era compito dello scultore estrarla e darle vita (“far emergere la figura dalla pietra come se la si vedesse affiorare da uno specchio d’acqua” – Vasari).

Così volti emergono dal sasso, incompiuti, quasi intrappolati tra la nostra dimensione e quella della roccia. Alcuni levigati, altri “pettinati” con i segni della gradina che ha dirozzato la materia. Restano così, sospesi tra ciò che erano, ciò che sono e ciò che avrebbero potuto essere, se solo lo scultore non avesse deciso per loro il destino che hanno.

Lo stesso Michelangelo adottò la pratica del “non finito” del quale sono un chiaro esempio i “Prigioni” e la “Pietà Rondanini”.

Anche la finitura contribuisce a dare all’immagine una percezione quasi tattile. Mi riferisco ad “Annetta” che ha il viso ed il collo levigati, ove la luce scivola dolcemente, mentre il copricapo e l’abito mantengono un aspetto ruvido. L’effetto è quello di un volto serico, quasi ascetico, in contrasto con i panneggi più “terreni”.

Le terracotte, grazie anche al colore più caldo e la superficie scabra trattata grossolanamente, suscitano un forte senso drammatico, immortalando immaginifiche figure che hanno albergato nel nostro Appennino.

Tra tutte quelle esposte due sole sculture valicano la rappresentazione figurativa per accostarsi all’astrattismo, volti delineati da piani geometrici che grazie all’effetto di luci ed ombre suggeriscono espressioni futuristiche.

Nel 2015 può essere legittimo domandarsi quale significato possa avere la scultura e l’arte figurativa genere, dal momento che altre forme d’arte rappresentano il vero con il massimo realismo (fotografia, cinema); francamente la risposta che mi do è che se un’opera mi piace non importa se sia astratta o realistica, né quale sia il suo valore intrinseco; nel secondo caso ritengo sia significativa in ragione delle emozioni che suscita e quando, come nel caso di Toni, rende comprensibile ai più un’immagine cui è stato insufflato uno spirito che la rende viva e traspare grazie ai gesti sapienti dell’autore.

L’esperienza è stata certamente interessante e non escludo di tornare a visitare la mostra per poter cogliere lo spirito delle statue nella pace dell’incantevole corte e nel silenzio che cala dopo ogni inaugurazione.

Come detto in precedenza l’esposizione è ospitata all’interno della Corte della Maddalena, luogo magico per bellezza ed atmosfera; una piccola, ma solo per dimensione, perla nel nostro Appennino e, come una perla, nascosta agli occhi dei più. Occorre cercarla, incunearsi nelle viuzze di Busana per trovarsela davanti, dimessa nell’aspetto ma ricca di particolari e dettagli all’interno. Una chicca per intenditori.

La mostra proseguirà fino al 30 agosto secondo questi orari di visita: sabato e domenica 10-12 e 17-19.

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Alessandro Toni dice di sè

Sono nato a Castelnovo ne’ Monti il 22 gennaio 1975. Nel 1999 mi sono iscritto alla scuola di scultura di Canossa guidata dal maestro scultore Vasco Montecchi. Ho frequentato corsi tenuti dal maestro Mario Pavesi e nel 2005 mi sono iscritto all’Istituto d’Arte Paolo Toschi di Parma dove ho incontrato il professore Fausto Beretti. Ho conseguito la qualifica di Maestro d’Arte nel 2008 e dal 2010 al 2013 ho collaborato con la scuola di scultura di Canossa insegnando tecniche di lavorazione della pietra agli allievi del secondo anno. Ho sempre lavorato spostandomi tra i monti del nostro Appennino e la nostra pianura dove tuttora abito e lavoro.

Quindi, senza mai scordare le mie radici, ho iniziato ideare e a lavorare ispirandomi alla storia di Nasseta e ai tanti personaggi che rievoca. Alle “fole” dei nostri vecchi e ai racconti narrati e documentati da Maria Rosa Manari.

È un progetto in “evoluzione” con il quale intendo fermare delle memorie e dare un volto e un’espressione alle figure che la storia di Nasseta e la nostra montagna ci hanno consegnato.

Questo significa ridare loro vita, continuare a ricordare e a mantenere vivo il rito del racconto.

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