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“Tu sì que vales” riflessione su nuovi adolescenti e genitori moderni

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Genitori smarriti sull'orlo di una crisi di nervi si aggirano talvolta con una sporta di domande, tra scaffali di librerie, trasmissioni televisive, internet, alla ricerca di risposte ed istruzioni per l'uso sulla gestione dei figli, soprattutto adolescenti.

I conflitti hanno accompagnato i riti di passaggio nel traghettare le generazioni dall'adolescenza all'adultità. Almeno fino agli anni Ottanta, poiché nella storia abbiamo assistito a un'evoluzione della famiglia e alla distribuzione del potere all'interno di essa.

Se fino a pochi decenni fa il modello di famiglia occidentale era quello normativo, etico, delle regole, ora siamo di fronte a una crisi di identità del padre, che ha barattato il proprio potere con l'amore dei figli. Il padre che prima dettava le leggi all'interno della famiglia ha lasciato il posto al padre affettivo, intercambiabile con la madre, un padre amorevole verso cui è inutile e difficile ribellarsi. Il padre normativo incentivava alla ribellione, alla trasgressione, ad abbandonare il nucleo famigliare per ricrearne uno proprio, andando via di casa alla ricerca della propria autonomia ed indipendenza. Parallelamente, l'emancipazione femminile ha portato la madre fuori dalla mura domestiche, facendosi sostituire dal padre in alcune mansioni un tempo esclusivo dominio materno. Tuttavia il nucleo familiare è stato salvaguardato, che ci fosse la madre o il padre ad accudire la prole. Di fatto oggigiorno i figli faticano ad andarsene da un nido comodo, protetti in questa comfort zone, dove cercano di sfuggire al senza, e ad evitare il vuoto, tanto aborrito e temuto.

Occorre perciò fare una riflessione sull'idea di figlio, su come la società contemporanea pensa i propri bambini.

Secondo lo psicanalista Gustavo Pietropolli Charmet  (2015), l'adolescente di oggi ha perso la spinta a ribellarsi all'autorità, diventando un giovane al contempo fragile e spavaldo. Un tempo, nella credenza popolare l'idea di educazione partiva dal presupposto che i bambini fossero alberi storti, da raddrizzare. I genitori contemporanei ritengono invece che il bambino vada ipervalorizzato, che egli sia a priori socialmente competente e nasca sapendo già cosa sia giusto e corretto. Pertanto le nuove generazioni sviluppano un rapporto pallido con le regole, poiché non esistono che blande conseguenze nel trasgredirle. L'ipervalorizzazione del bambino, protetto a tutti i costi dai fallimenti, porta a un'esasperazione narcisistica; ne consegue la rincorsa di un modello di perfezione con cui soprattutto l'adolescente viene chiamato a confrontarsi. In altre parole, i genitori idealizzano il figlio, lo pensano già perfetto, e nel sopravalutarlo finiscono col negargli le difficoltà, facendogli così un grande torto. Non mettendo in preventivo anche la sua vulnerabilità, lo rendono senza volere vulnerabile. Inconsapevolmente, in buona fede.

Per voler riscattare il bambino svalutato e invisibile della società patriarcale, si ricoprono i figli di oggetti e di sì, dando per scontato che siano felici , e si finisce per creare piccoli fragili tiranni.

Da adolescente, quando l'individuo inizia a confrontarsi con i modelli esterni, si insinua il dubbio di non essere così vincente e capace come gli era stato fatto credere. E inizia una sorta di ansia in risposta alla pressione sociale di come si deve essere per piacere e arrivare.

Una possibile prima riflessione di noi genitori potrebbe essere: cosa stiamo davvero chiedendo ai nostri figli? Cosa accade all'adolescente che si sente inadeguato di fronte a tale modello imposto di bellezza e capacità?

Secondo Pietropolli Charmet l'adolescente sprofonda in un sentimento di vergogna che può portarlo a comportamenti estremi. Nel rincorrere questo mito di valore eccelso, di perfezione estetica, di dover aver talento per forza, si combatte quotidianamente con il senso di inadeguatezza, e si fa di tutto per nascondere la propria fragilità, esibendo una propria immagine, il più simile possibile a chi "conta", esibendo una vita a suon di selfie e protagonismo.

Si pensi ai programmi televisivi e ai loro titoli, "Tu si que vales"; "X factor"; "Masterchef", dove oltre al talento c'è esaltazione dell'io, e pare non esserci luogo per l'aurea moderazione. Se da un lato c'è l'incitazione positiva a far bene qualcosa, dall'altro si crea sconcerto e smarrimento se nel confrontarsi si finisce per non percepirsi speciali in nulla.

Inoltre le nuove generazioni sono spinte precocemente a una socializzazione costante, avvolte da una rete che in apparenza protegge dall'isolamento, ma che in realtà impiglia in un bombardamento mediatico e impedisce di sperimentare noia e solitudine, intesa come la capacità di stare in silenzio, con se stessi.

Il gruppo, reale o virtuale, perennemente presente crea senso di appartenenza, fedeltà e gratitudine. In cambio garantisce intrattenimento, divertimento e adrenalina. Laddove il picco euforico inizia a languire, il gruppo può proporre eccessi di sostanze, e può arrivare a intraprendere una vandalizzazione del territorio, pur di restare nelle sensazioni "up", sempre su di giri.

Pertanto un'altra riflessione dovuta dalla comunità educante è: come gestire questa esagerazione narcisistica a cui siamo quotidianamente sottoposti? Come bilanciare approvazione e incoraggiamento, necessari per lo sviluppo di una sana autostima, con la tolleranza della frustrazione, accettazione dei propri limiti e incapacità?

Lo psicologo sociale non ha soluzioni preconfezionate, rileva ciò che accade e stimola un pensiero collettivo. Occorre prima prendere atto di quanto succede e degli effetti educativi prodotti, per poi poter progettare azioni efficaci congiunte e condivise. Porsi intanto l'interrogativo stimola senz'altro a considerazioni fertili. Mettersi in ascolto di quanto avviene è già foriero di soluzioni. Se è vero che si cresce soltanto se prima si è sognati, come sostiene il pedagogista Danilo Dolci, allora possiamo iniziare a pensare ai nostri figli né come eroi, né come sconfitti, ma capaci di risorse per vivere in modo resiliente, affrontando le esperienze, anche negative, traendone insegnamenti.

La demonizzazione della fragilità ha prodotto finti supereroi. Il messaggio dell'ultimo film della Pixar, Inside Out, propone di riconsiderare le emozioni, tutte, come funzionali e con pari dignità, compresa la tristezza. Si può insegnare alle giovani generazioni ad accettare il down come fisiologico, a vivere l'ombra come luogo da esplorare e non da cui fuggire vergognandosi. E' necessario chiamare la collettività, adolescenti compresi, a una presa di responsabilità per se stessi e per la comunità.

Le conseguenze dei propri gesti devono essere ribadite, e le azioni dannose vanno riparate, in maniera utile per sé e per gli altri.