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La mucca… gonfia

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bruna-alpinaNon ricordo la data. So solo che era tempo di guerra, forse all'inizio dell'autunno del '43, in quel periodo in cui non si capiva cosa sarebbe successo. Non c’erano state ancora rappresaglie, ma l’Italia era in mano ai tedeschi e ciò, di sicuro, non prometteva nulla di buono.

Era una domenica pomeriggio con un tempo splendido, e ciò convinse molte persone a condurre al pascolo mucche e vitelli, oltre le pecore. Nei prati c’era l’erba ricresciuta dopo l’ultimo taglio, ma non ancora fatta, cioè non adatta per essere falciata e fatta seccare per l’inverno. Conveniva farla brucare direttamente dagli animali sul posto. L’avrebbero raccolta loro, senza sprecarne un gambo. E senza doverla falciare, far seccare, rastrellarla e portarla a casa.

Quel concetto di recuperare l’erba direttamente mediante il pascolo penso fosse congenito, e quel giorno deve avere contagiato i contadini della vallata. Si vedevano mucche al pascolo a Roncolo, a Legoreccio, a Vedriano, a Gombio.

Le condizioni favorevoli avevano anche suggerito di approfittarne per iniziare a pulire sotto i castagni. Così avevano fatto due signori di Pietranera che possedevano un piccolo castagneto a nord di Castellaro, quasi a contatto con le case, e speravano di riuscire a pulire il fondo in quelle ore di luce e di sole.

Ad un certo punto però qualcosa interruppe la serenità di quella domenica pomeriggio. Era come se uno spirito malefico avesse oscurato il sole e avvelenato l’atmosfera. Nonostante fosse ancora alto il sole e la giornata splendida, nei diversi borghi ci fu come una fuga verso casa, un riportare nelle stalle le mucche per sottrarle ad un pericolo imminente. Cosa fosse successo veramente nessuno me lo ha mai saputo spiegare. O forse nessuno lo ha mai saputo. Si parlò di atmosfera e di rugiada avvelenata.

Ricordo soltanto che Michele, il nostro cugino e vicino di casa, riportando a casa le mucche, cominciò a chiedere aiuto a tutti quelli del villaggio. Una sua mucca, di pochi anni, già addomesticata al tiro e promettente anche come produttrice di latte e di vitelli, era  gonfia, cioè in pericolo di vita. Poteva restare soffocata da un momento all’altro se non si interveniva subito.

Esistevano diversi metodi di intervento, alcuni empirici, altri un poco più scientifici. Il più semplice e pratico consisteva nel mettere in bocca alla mucca una manciata di salici freschi, foglie comprese, e costringere la mucca a masticarli. Il sapore amaro del salice avrebbe aiutato la mucca a ruttare e liberarsi dei gas intestinali. Ma non servì. Intanto la maggior parte degli uomini della borgata era corsa a dare una mano.

Bisognava mantenere la mucca in piedi per permetterle di espellere i gas. Anche i due di Pietranera erano saliti a dare una mano. Ma la mucca di Michele ormai non ce la faceva più, traballava  e continuava a gonfiarsi. I presenti si procurarono pali lunghi qualche metro e li misero sotto la pancia della povera bestia, incrociati, chi a destra e chi a sinistra, e con le spalle tentarono di tenere in piedi la mucca.

Da Donadiolla era corso su anche un signore che possedeva uno strumento adatto per quelle situazioni. La chiamavano sonda, e consisteva in un lungo tubo di gomma, a forma vermicolare, che veniva inserito a forza nella bocca dell’animale e spinto fino al ventre, e per farle tenere aperta la bocca l’utensile era dotato di un traversino di legno che impediva all’animale di chiudere la bocca. I tentativi di raggiungere la bolla di gas all’interno della mucca furono tanti, ma la povera bestiola continuava a peggiorare.

Ormai la disperazione si vedeva sul volto di tutti i presenti. E per aumentare l’angoscia qualcuno avvisò i due signori di Pietranera che li stavano chiamando disperatamente da casa loro. Si affacciarono sul fianco del Martino, in un punto dove era possibile parlare con il loro borgo. La conclusione? Anche una loro mucca era gonfia. Salutarono i presenti con scongiuri reciproci e si precipitarono verso il Mulino Rinaldi con la speranza di arrivare in tempo a salvare il loro capitale.

Nell’aia di Michele intanto la disperazione coinvolgeva tutti. La Peppa cercava di distrarre i bambini che si erano ammucchiati sul ballatoio, davanti all’uscio di casa. Ma forse tentava di fare coraggio a se stessa.

Michele, consigliato da uno del posto un tantino più anziano, accetto l’ultimo tentativo possibile, l’ultima speranza di tenere in vita la mucca. Quel signore aveva con sé, avvolto in una guaina di stoffa, un oggetto strano. Era l’ultimo rimedio a disposizione. Lo chiamavano, in dialetto, al Triquârt. Era una specie di pugnale di acciaio inossidabile, composto da due elementi. Bisognava introdurre nella pancia della mucca quella lama, poi, con una manovra speciale, ruotare il manico ed estrarre la parte interna dell’oggetto. Così diventava come una spoletta e il gas poteva uscire. Tutti sapevano che una mucca salvata col trequarti sminuiva di valore. Ma sempre meglio averla viva che vederla morire soffocata. Neppure questo gesto raggiunse l’effetto desiderato. Ad un certo punto la mucca strabuzzò gli occhi, emise un rantolo soffocato e smise di lottare con la morte.

Lo capii dal fatto che tutti gli uomini che la reggevano con le stanghe lasciarono che la mucca si appoggiasse sul terreno. Lo capii anche nel vedere Michele alzare gli occhi al cielo come per chiedergli un perché, una spiegazione, poi correre sul ballatoio, prendere in braccio i suoi due figli e piangere a dirotto con loro.

Non ricordo come finì a Pietranera, né se negli altri paesi vicini vi furono altri casi simili. Ricordo invece che i paesani cercarono in tutti i modi di consolare Michele, offrendosi anche di aiutarlo a superare quel brutto momento. Il giorno dopo, a mente lucida, Michele cercò di salvare il salvabile. Scompose la mucca e i paesani contribuirono comperando pezzi di carne. Non troppa perché era difficile conservarla. Non c’era ancora la corrente elettrica, quindi era impossibile utilizzare il frigorifero. Ma i paesani il loro piccolo contributo cercarono di darlo.

2 COMMENTS

  1. Il triquart io lo conservo, ancora tra i miei cimeli di un tempo. Ricordo da bambino di averlo visto adoperare più di una volta da mio nonno e devo dire che non ho mai visto una mucca morire per avere mangiata erba medica fresca, oltre al tre quarti, come rimedio contro il rigonfiamento delle mucche, si metteva in bocca a forza un ramo di salice, di quelli innestati che si usavano anche per allacciare le viti, se ne facevano dei fasci, poi al momento di adoperarli si mettevano a bagno in una pozza di acqua per renderli più malleabili, se ne ricavavano anche delle ceste e dei cavagni, ossia cestini con il manico, servivano per la raccolta della frutta, delle castagne ed anche dell’uva quando si vendemmiava. Io ne conservo ancora alcuni che adopero ogni tanto.

    (Beppe)

    • Firma - Beppe