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“Burqa e burkini: già la legge dice che fare”

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Al tavolo politico-letterario Ernest Hemingway, dove si definiscono “costruttori di ponti e non di muri”, molto hanno riflettuto e dibattuto dell’uso da parte delle donne islamiche del burkini, del nigab, del sitar, del burqa e di ciò che stabilisce la Legge 22 maggio 1975, n. 152 (e successive modifiche)- Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico- il cui art. 5, dice:

“È vietato l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo
Il contravventore è punito con l'arresto da uno a due anni e con l'ammenda da 1.000 a 2.000 euro (1).
Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l'arresto in flagranza (2) (3)”  (1) Comma modificato dall'articolo 113, comma 4, della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successivamente dall'articolo 10, comma 4-bis, del D.L. 27 luglio 2005, n. 144.
(2) Articolo sostituito dall'articolo 2 della legge 8 agosto 1977, n. 533.
(3) La disposizione di cui al presente comma deve ritenersi abrogata in virtù di quanto stabilito dall'art. 230 disp. att. c.p.p.

Al tavolo ricordano che il burkini copre tutto il corpo ed il capo ma lascia scoperto il viso, il niqab è un velo che copre tutto il corpo, compreso il viso, ad eccezione degli occhi.  l’hijab, un velo che copre il collo e i capelli, ma non il viso, il sitar, un velo supplementare che alcune donne in jilbab (simile all’hijab) usano per coprire integralmente il corpo, compresi gli occhi, accompagnato da guanti per le mani, il burqa, un abito che copre integralmente il corpo, mentre gli occhi sono nascosti da una "griglia" in tessuto.

Burkini e hijab non impediscono la identificazione, non violano il comune senso del pudore, quindi, non rientrando nei divieti posti dalla legge 152/1975, al tavolo ritengono illegittimo impedirne l’uso che invece deve essere rigorosamente vietato per il niqab, il sitar, il burqa.

hijab
A sinistra l'hijab, a destra il burka, in mezzo il niqab
Il sitar
Il sitar
Burkini
Il burkini

Questo “sembra dire” in modo inoppugnabile la legge approvata dal Parlamento italiano, democraticamente eletto. Al tavolo Hemingway hanno utilizzato il termine “sembra” perchè pur avendo seri dubbi sull’opportunità di affidare all’interpretazione di organi amministrativi o giurisdizionali una materia così delicata e carica di implicazioni non solo riferite ad esigenze di sicurezza pubblica, il “Consiglio di Stato, sezione VI, decisione n. 3076 del 19 giugno 2008, il quale ha chiarito che, pur in assenza di una previsione esplicita, è possibile far rientrare tra i giustificati motivi che consentono di coprire il volto anche quello religioso o culturale. Nello specifico, il Consiglio di Stato sottolinea che il "velo che copre il volto "non è utilizzato generalmente per evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. Dunque, secondo il Consiglio di Stato la legislazione vigente consente l’uso di indumenti quali il burqa e il niqab anche in luogo pubblico perché il motivo religioso rientra tra i 'giustificati motivi' che escludono l’ambito di applicazione dell’articolo 5 della legge n. 152 del 1975”.

I membri del tavolo Hemingway ritengono che l’uso del burqa deriva da costumi culturali interpretati come precetti religiosi che veicolano una concezione del ruolo della donna incompatibile con i valori oggi condivisi dai cittadini italiani ed europei. Numerose testimonianze dimostrano che la pratica incide sulla dignità delle donne ed è spesso indotta prevaricando la loro volontà. Al tavolo Hemingway sono costruttori di ponti, ma draconiani:  rispetto delle leggi del Paese ospitante, e se queste non sono rispettate se ne ritornino liberamente al Paese di origine. Se poi insistono nel violare la legge, immediata espulsione.  Senza se, senza ma.

(Il portavoce del “tavolo Ernest Heminway” , Mario Guidetti)

17 COMMENTS

  1. La questione, com’è ovvio, presenta due aspetti: uno meramente giuridico e un secondo che riguarda la presenza di costumi culturali altri in un contesto culturale tendenzialmente omogeneo. Per comodità li trattiamo separatamente. Dal punto di vista del diritto, la questione è, come giustamente qui messo in luce, già risolta: l’uso di tutti questi abiti è legittimo. Il caso secondo cui l’uso di tali abiti sia conseguenza di una prevaricazione sulla donna è, sempre dal punto di vista giuridico, di altrettanta facile soluzione: la vittima o qualsiasi altra persona sporgerà denuncia; sarà, quindi avviato un processo che, appunto sulla base di testimonianze, porterà a una sentenza. Quanto al secondo aspetto, vorrei rilevare alcune affermazioni del Tavolo, a mio avviso, erronee o, alquanto superficiali:

    a. «pur avendo seri dubbi sull’opportunità di affidare all’interpretazione di organi amministrativi o giurisdizionali una materia così delicata e carica di implicazioni non solo riferite ad esigenze di sicurezza pubblica»: il che significa “la questione in oggetto, che riguarda l’incontro tra culture, non può essere affidata alle sole autorità giuridiche”; affermazione, sì, legittima, ma che sembra ignorare quanto, già da tempo, avviene nei tribunali, dove talvolta, quando necessario, ci si avvale della consulenza di antropologi culturali, e in alcune recenti trattazioni giuridiche, ben consce dell’esigenza di modificare il sistema giuridico proprio in relazione a questi casi. In altre parole, il Tavolo, almeno da quanto è possibile desumere dalla frase riportata, pare non essere a conoscenza di tali dinamiche: in caso contrario, avrebbe fatto bene, magari elogiandoli, a rammentare tali sforzi.

    b. «L’uso del burqa deriva da costumi culturali interpretati come precetti religiosi»: frase errata o alquanto contorta: o s’intendeva dire “l’uso del burqa deriva da costumi culturali a loro volta derivanti da interpretazioni di precetti religiosi” (corretto, ma nella versione originale, decisamente non intellegibile!) oppure ci troviamo di fronte, almeno secondo il Tavolo, a costumi culturali interpretati come precetti religiosi; il che significherebbe che quelli che, in realtà sono solo costumi culturali sono arbitrariamente e (da come si intravede dal tono) erroneamente elevati a precetti religiosi da alcuni: vieni da chiedersi, quindi, in base a cosa o a quale sua presunta autorità il Tavolo possa decidere ciò, quando una qualsiasi persona che pratica ciò ci dichiara che essi sono precetti religiosi. Qualcuno potrebbe appellarsi al fatto che questi costumi culturali non sono precetti religiosi perché non contenuti nei testi sacri islamici (lo suppongo senza conoscere i testi sacri islamici, ma per prevenire il caso in cui qualcuno mi opponga ciò): a tal proposito sottolineo che un precetto religioso non è tale perché scritto su un testo ritenuto ciò; supporlo significherebbe negare il carattere di religioso a diverse espressioni, appunto, religiose: vorrei ricordare, ad esempio che gli antichi Greci non avevano un libro sacro; se supponessimo quanto detto poco fa ne deriverebbe che essi erano atei o che non avevano una religione, il che, ovviamente, è falso. Prima di fare certe affermazioni sarebbe quindi necessario ascoltare attentamente le parole di quanti praticano ciò di cui stiamo trattando: se le parole ci dicono che quelli che noi riteniamo solo costumi culturali sono precetti religiosi, perché negare, in una trattazione che si vorrebbe seria, quanto ci è stato dichiarato? Per concludere, la questione dell’incontro tra culture diverse è oggi più pressante che mai. Qui non abbiamo voluto negare la necessità di coniugare trattazione giuridica e analisi di tale questione; al contrario abbiamo ricordato quanto sta accadendo nei tribunali. Ma abbiamo anche voluto ricordare che l’analisi di tale fenomeno deve essere condotta in maniera consona e non superficiale: tale invito è ancor più prezioso se ci ricordiamo che viviamo in un momento in cui il termine etnia è, se ben osservato, il termine politicamente corretto per razza — parola troppo scomoda —, così come integrazione per assimilazione.

    (Un lettore)

    • Firma - Un lettore
  2. Al tavolo Hemingway ringraziano il lettore per aver portato ulteriori elementi di riflessione – restano tuttavia convinti che, al di là delle motivazioni, il lavoro delle forze dell’ordine (alle quali va tutta la nostra gratitudine) debba essere favorito rendendo identificabili le persone, tutte le persone, nessuna esclusa, indipendentemente dalla etnia. La prima ed immediata identificazione la si ha dal viso che, nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, deve essere scoperto. O no? Grazie a Redacon che ci dà la possibilità di dialogare.

    (Mario Guidetti)

    • Firma - Mario Guidetti
  3. Non ritengo di fondamentale importanza la questione burkini ecc., ma leggendo il primo commento de “Un lettore” (profondo conoscitore delle nostre leggi, quanto segue non vuole essere una accusa a lui rivolta, ma una riflessione sulla vulnerabilità del nostro mondo) è stato interessante trovare il potenziale concretizzarsi delle parole riportate dal monsignor Giuseppe Bernardini, vescovo di Smirne (Turchia), il 13 ottobre 1999, in Vaticano, nel corso della seconda assemblea speciale per l’Europa del sinodo dei Vescovi: “Durante un incontro ufficiale sul dialogo islamo-cristiano, un autorevole personaggio musulmano, rivolgendosi ai partecipanti cristiani, disse a un certo punto con calma e sicurezza: Grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo!” L’uso degli strumenti democratici contro la democrazia, delle garanzie per abolire le garanzie, delle leggi contro la legge è una vecchia abitudine delle forze dittatoriali o aspiranti tali. Oggi il tentativo pare ripetersi: si invocano i diritti democratici per il velo, le moschee, la legalizzazione degli immigranti, per poi, un domani, puntare ad abolire quelli di tutti gli altri applicando le leggi religiose islamiche. E questo, purtroppo, con il silenzio o addirittura la complicità di molti di quelli che strumentalmente, nel corso dei decenni passati, hanno appoggiato ogni tipo di rivendicazione contro le regole sociali e morali di ispirazione cristiana e che ora ben si guardano di contrastare il nemico del loro nemico, ossia di opporsi all’islam politico nemico dell’Occidente cristiano. Sempre rimando sul tema della democrazia che va difesa da se stessa, ecco le parole dell’immenso Platone – La Repubblica (non il giornale, eh!) Cap. VIII, Atene 370 A.C.: “…quando il cittadino accetta che, di dovunque venga, chiunque gli capiti in casa, possa acquistarvi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e ci è nato; quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine; c’è da meravigliarsi che l’arbitrio si estenda a tutto e che dappertutto nasca l’anarchia e penetri nelle dimore private e perfino nelle stalle?” “In un ambiente siffatto, dico, pensi tu che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?” “Ecco, secondo me, come nascono le dittature.” “Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo”.

    (A.B.)

    • Firma - A.B.
  4. Fare riferimento agli antichi Greci è — lo credo per certo — un po’ come avventurarsi in un campo minato; il motivo è semplice: l’immensa distanza che corre tra il nostro mondo post-moderno e il loro; l’abisso che separa la nostra politica dalla loro. Mi spiego meglio. Partiamo dai Greci. Come riportato nel mio precedente commento, i Greci avevano una religione e da questa riprendo. Un inno — perduto — di Pindaro ci narra l’ordinamento del mondo, cioè dell’essere da parte di Zeus: ora, il contenuto è molto più ricco e pregnante (per i curiosi, aggiungo solo che si tratta di una testimonianza del fatto che per i Greci la parola e, in particolare il canto, hanno un fondamentale ruolo ontologico), ma ai nostri fini basta questo, cioè: per i Greci il mondo, l’essere è già ordinato, vi è un fondamento oggettivo delle cose che già di per sè produce ordine; le singole città, le poleis fanno parte dell’essere e, quindi anche i loro singoli ordinamenti politici, le loro leggi sono naturali, proprio perché parte di un ordine già dato in natura; così come naturali sono quelle leggi morali che rendono tragico il destino di quell’Antigone così famosa. La singola città, dunque è per sua natura e per natura, già ordinata: in altre parole è un organismo già equilibrato. Ora, se le leggi sono naturali, vien da sè che ad esse si può solo obbedire e in effetti i Greci non avevano un termine per esprimere il concetto politico di “disobbedienza”: parlavano di “accecamento”, un accecamento che, appunto impedisce di vedere l’ordine delle cose e, quindi di conformarvisi e che porta a infrangere le leggi, a disobbedir, diremmo noi. E con questo infrangere, nascono parecchi problemi: se si va contro l’ordine delle cose, contro il Vero, le conseguenze non possono essere che disastrose, «l’anarchia penetri nelle dimore private e perfino nelle stalle». Platone, nel passo riportato, ci parla proprio di ciò: i governanti, accecati, conferiscono diritti di cittadinanza agli stranieri, a chi non «l’ha costruita e [non] ci è nato», è un turbamento, una dismisura (hybris) dell’organismo-città, che porta, in genere alla morte della città. In breve, sconfitta militare. Ma non indugiamo oltre. L’essenza della politica moderna si può riassumere in poche parole, parole che ebbe a dire un uomo che ben aveva inteso l’essenza del potere e della politica moderna, «Auctoritas, non veritas facet legem» (Th. Hobbes, “Il Leviatano”). Auctoritas, cioè chi detiene la fonte di legittimazione del potere, ossia il Leviatano (lo Stato) faccia la legge e non la verità. Perché? Perché noi moderni non crediamo a un fondamento oggettivo delle cose che già di per sè produce ordine: l’ordine per noi, è artificiale e non naturale, così come le leggi. Quindi, almeno in teoria, al nostro arbitrio non c’è quasi limite (sorvoliamo sulla questione di limiti ultimi all’esercizio del potere), possiamo legiferare in qualsiasi modo senza che l’anarchia, per questo, giunga naturalmente sino nelle stalle. Potremmo anche vietare il culto islamico. Ma non lo facciamo, perché crediamo anche nella democrazia e i suoi presupposti, insieme al precedente, determinano il nostro campo d’azione; ma questo non toglie che l’ordine sia artificiale e che le leggi si possano modificare — idee semplicemente impensabili per Platone —, solo entro certi limiti, i diritti fondamentali. Ora, arrivando alla conclusione, ciò che desidero sottolineare sono due cose. Innanzitutto invitare tutti a guardarsi dall’usare “citazioni ad effetto” di autori immensi solo per enfatizzare le proprie posizioni o, almeno a farlo con molta cautela e col dovuto rispetto, il rischio è quello di creare in chi non ne mastica, l’idea di una sorta di omologazione, similarità che in realtà si dà in un appiattimento superficiale ed erroneo, tra pensieri (nel caso specifico quello di Platone e il nostro post-moderno) ben distanti. In secondo luogo, per rispondere più nel merito della questione sollevata, non me la sento di negare in tutto e per tutto le parole di monsignor Giuseppe Bernardini ma, a mio avviso, forse, più che guardarsi dagli islamisti che, a quanto pare, vogliono imporci le leggi islamiche, sarebbe meglio guardarsi da coloro che «strumentalmente, nel corso dei decenni passati, hanno appoggiato ogni tipo di rivendicazione contro le regole sociali e morali di ispirazione cristiana e che ora ben si guardano di contrastare il nemico del loro nemico, ossia di opporsi all’islam politico». Potremmo chiamarli, per gusto di effetto, “i burattinai”, ora, chiedo, perché combattere e temere piuttosto i burattini che, in fin dei conti, possono ben poco senza l’approvazione dei primi, che le leve, loro, hanno nelle mani? Se con le sue parole A. B. voleva palesare i suoi giusti timori contro la “dittatura” cui, pare, i burattinai stiano alacremente lavorando, mi trovo pienamente d’accordo. Solo questo vorrei, però, porle in rilievo: più che dittatura, io, questo esito, lo chiamerei “stato di natura”. E chi ben conosce quell’Hobbes sa che forse è persino peggio.

    (Il lettore di prima)

    • Firma - Il lettore di prima
  5. Allargando il discorso dal particolare al generale, la questione dell’immigrazione, dell’accoglienza e della convivenza con culture diverse sta prendendo dimensioni di massa. Ci sono studiosi che iniziano a parlare, appunto, di “armi di migrazione di massa” con riferimento alla famosa definizione di “armi di distruzione di massa”. Kelly M. Greenhill, in uno studio parla di “migration as a weapon of war”. Cito, da un commento al lavoro della Grenhill: “L’arma di migrazione di massa rientra quindi a tutti gli effetti nel campo delle operazioni psicologiche e, aggiungo, nel set di strumenti dei fautori ed esecutori della Shock Economy“. Come spiega Greenhill, di fronte ad un improvviso afflusso di migranti, gli Stati che fino a quel momento hanno predicato l’accoglienza senza condizioni vengono posti di fronte ad un ricatto morale: “difendere i propri cittadini ed entrare in contraddizione con i propri principi di apertura e tolleranza, oppure rimanere coerenti ad essi, andando però contro gli interessi dei propri cittadini?“. Di fronte alle dimensioni del fenomeno credo sia utile iniziare a discuterne anche in questi termini.

    (Commento firmato)

    • Firma - commentofirmato
  6. La tesi di K. Greenhill è interessante e va sicuramente presa in seria considerazione, nonostante sia ben poco fondata dal punto di vista della scienza storica: lo studio (di cui ho conoscenza attraverso un breve articolo) sicuramente non cita documenti ufficiali (dei quali, nel caso esistano, è da supporre che siano ben secretati) e qui si parla di strategie attuate da attori politici fra cui anche Stati e, quindi, dal punto di vista storico va considerato con le dovute cautele: la storia si fa su fonti, cioè dati, non ipotesi; sostenere che certi Stati abbiano applicato tali armi risulta, quindi, almeno al momento attuale abbastanza ardito o quantomeno dubbio. Detto questo, poniamo però che tutto ciò sia vero, viene quindi da chiedersi chi stia attuando tali strategie. Lo studio parla di Paesi, Stati e attori geopolitici trans statali. La forma Stato, oggigiorno, nonostante sia la forma politica dominante nel globo, è in grave crisi e non parliamo solo di Stati, ad esempio africani, che non riescono ad avere il controllo di certe aree formalmente sotto la propria giurisdizione, ma degli stessi Stati europei. Uno dei motivi di ciò è citato anche nello studio, il vincolo rappresentato da accordi internazionali che limita fortemente quell’auctoritas da me ricordata. Tralasciando i motivi più prettamente giuridici, è poi evidente che gli Stati odierni siano, nei fatti, i burattini di grandi entità economiche, come le multinazionali (per l’Italia citerei l’ENI). Con attori geopolitici trans statali lo studio sembra annoverare tra i dispiegatori di queste armi proprio anche quest’ultime. Dunque, lo studio avrebbe solamente messo in luce una delle numerose armi attraverso cui attualmente si esercita la concorrenza neoliberista tra grandi entità macroeconomiche, da me definita precedentemente una sorta di “stato di natura” hobbesiano. A tal proposito vorrei ricordare come alcuni recenti studi si siano interessati alle conseguenze prodotte dalla concezione neoliberista dell’homo œconomicus; studi ove gli operatori finanziari vengono quasi presentati come demoni responsabili del tramonto dell’Occidente.

    (Il lettore)

    • Firma - Il lettore
    • Dice Il lettore: “lo studio avrebbe solamente messo in luce una delle numerose armi attraverso cui attualmente si esercita la concorrenza neoliberista tra grandi entità macroeconomiche”. Concordo pienamente, tranne il “solamente”. Il metodo è appunto quello della cosiddetta Shock Economy. I recenti leaks sul ruolo di George Soros e delle numerose ONG a lui riconducibili, portano ad analoghe evidenze. Del resto, esistono numerosi studi (ben documentati, sulla base di documenti desecretati) che analizzano le strategie di guerra psicologica in Europa durante gli anni della guerra fredda (v. Richard J. Aldrich); esistono anche dichiarazioni ufficiali, quali quelle di Peter Sutherland in qualità di responsabile del Global Forum on Migration and Development delle Nazioni Unite, in cui si afferma che “l’Europa deve indebolire – undermine, nel testo – l’omogeneità dei suoi stati membri” perché “la futura prosperità dipende dal diventare multiculturali”. Leggiamo tutto questo in chiave di “concorrenza neoliberista” ed avremo chiaro l’intento di costruire nel tempo un “esercito industriale di riserva” con l’obbiettivo di abbassare i salari al livello minimo possibile, con tutto ciò che questo comporta in termini di uguaglianza sociale. Per i dettagli, suggerisco di documentarsi sulle conseguenze delle riforme Hartz in Germania.

      (Commento firmato)

      • Firma - commentofirmato
  7. Cito “Il lettore di prima”: “…noi moderni non crediamo a un fondamento oggettivo delle cose che già di per sé produce ordine: l’ordine per noi, è artificiale e non naturale, così come le leggi. Quindi, almeno in teoria, al nostro arbitrio non c’è quasi limite… possiamo legiferare in qualsiasi modo senza che l’anarchia, per questo, giunga naturalmente sino nelle stalle.” Lei crede? Il dramma del nostro mondo post-moderno è proprio lì, nelle sue parole, da molti, consapevolmente o inconsapevolmente, condivise e vissute. Un mondo senza Verità che ora si trova dinanzi un nemico antico contro cui non ha più anticorpi, un mondo svuotato pronto per esser riempito e sottomesso. “Quello che accade oggi mi ricorda l’Italia del 450 d.C…. I barbari erano un pericolo inferiore rispetto ad Annibale settecento anni prima, quando l’Italia non era la Roma globale ma una piccola repubblica agraria. Ma i barbari credevano in qualcosa, mentre i romani avevano dimenticato chi fossero” (Victor Davis Hanson, storico). “Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole” (Qoelet,1,9) scritto grosso modo ai tempi del mitico Platone (conferiscono primi Nobel per molto meno, non mi vorrà metter Platone al pari di un filosofo qualunque?), ma vale anche per il mondo post-moderno, la nostra concezione di mondo sarà anche cambiata, ma la sua natura è sempre terribilmente uguale.

    (A.B.)

    • Firma - A.B.
  8. Non credo che il problema sia il «fondamento nichilista» del post-moderno conseguente al «disincanto del mondo» (M. Weber). Ritengo piuttosto che il primo problema, quello più pressante, sia in cosa crediamo e nelle sue parole intravedo l’apertura a questa specifica tematica («un mondo svuotato pronto per esser riempito e sottomesso»). In passato, a partire più o meno a Locke sino grosso modo alle democrazie ottocentesche si credeva, in linea generale, a procedure logico-razionali, a elezioni e a votazioni per maggioranza (il riferimento è ancora a Weber e alla sua disamina sui fondamenti del potere moderno, cioè la credenza nel potere tradizionale, carismatico o razionale). Quindi si credeva nella ragione, che era anche alla base delle logiche di mercato, in quanto in grado di calcolare l’utile. I problemi cui oggi, cerchiamo ancora una risposta, sono l’eredità del Novecento, dove questa ragione calcolante ha smesso di agire nei limiti imposti dallo Stato: l’economico, l’interesse privato ha preso il sopravvento sul pubblico. La letteratura in proposito è ampia, penso a Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo di F. L. Neumann, o alla Dialettica dell’Illuminismo, dove ben si evidenzia come quella ragione calcolante, alla base tanto dello Stato quanto dell’economico, sia divenuta una gabbia per l’uomo (celebre è il commento al mito di Ulisse). Con l’affermarsi del neoliberismo e il suo homo œconomicus, la situazione si è ulteriormente aggravata; se noi crediamo che l’uomo sia tale perché in grado di calcolare e perseguire il proprio interesse egoistico, il mondo in cui stiamo precipitando non sarà molto diverso da un inferno. E, questa volta, non credo che nessuna «mano invisibile» si ergerà a trasformarlo in paradiso di crescita diffusa e infinita. In altre parole, finché economico e politico erano tendenzialmente separati e il primo si esercitava nei limiti stabiliti dal secondo, la situazione non era certo drammatica come oggi: Behemoth (altro mostro biblico: il titolo non è casuale, in quanto fa riferimento al Leviatano, testo imprescindibile per comprendere il moderno) è un saggio che ha molto da dire in proposito.

    (Il lettore)

    • Firma - Illettore
    • Un simpatico metodo per eliminare la separazione del potere economico dal potere politico è esemplificato dal metodo delle cosiddette “porte girevoli”: la filiale europea della banca d’affari Goldman Sachs ha annunciato la nomina di Josè Manuel Barroso – che ha guidato per dieci anni l’esecutivo europeo – a presidente non esecutivo e advisor del gruppo. Vogliamo pensare che nei dieci anni del suo mandato, Barroso non ha curato – da politico – gli interessi dei grandi gruppi bancari?

      (Commento firmato)

      • Firma - commentofirmato
  9. Un cittadino, di qualsiasi religione o pensiero, che vada in altro Stato deve adeguarsi agli usi e costumi di quello Stato, le donne così costrette fanno pena e sarebbe ora che lo si esprimesse con parole chiare e nette. Altrimenti vi è sempre l’altra via, tornare a casa propria, nel rispetto di tutti e di tutte. Provate ad andare a casa loro senza veli o senza coprirvi a vedere cosa vi fanno. Cordialmente.

    (Robero Malvolti)

    • Firma - Malvolti Robero
  10. Semplicemente per citare i principi/utopie del tavolo Hemingway:
    – socializzare il sapere;
    – un tetto ai meriti, una soglia ai bisogni;
    – aspettare gli ultimi per arrivare assieme.
    Ad maiora e ancora grazie a Redacon che ci dà la possibilità di dialogare.

    (Mario Guidetti)

    • Firma - MarioGuidetti
  11. Questa storiaccia del burkini è sinceramente di una superficialità disarmante, vorrei sapere cosa nel burkini attenta all’ordine pubblico, da quando il riconoscimento avviene dai cm. di pelle esposta e non dal viso? Allora vietate le tute da sub, meno ipocrisia, suvvia anche a vedere certi bikini striminziti ad alcuni può arrecar noia, semplicemente ci si gira dall’altra parte, non lede la mia persona nè un bikini, nè un burkini. Se volete intentar battaglia, fatelo su temi seri e non su tenute da spiaggia in discorsi buoni per passare il tempo sotto gli ombrelloni. E basta con la storia della reciprocità, allora puntiamo al ribasso, invece che “esportare” democrazia con l’esempio, magari evitando qualche bomba che ha portato solo altri morti e ha allargato i conflitti. Voglio essere libera di fare il bagno in costume, ma anche in tuta da ginnastica al mare, senza sentirmi una pericolosa criminale.

    (Monja)

    • Firma - Monja
  12. Ritengo che il commento di Monja sia giusto. Il problema non è come uno si vuole vestire in spiaggia o fuori, il problema é che quasi sempre la donna musulmana non può scegliere se andare in spiaggia e tanto meno come vestirsi. Il vero problema che tutti dobbiamo affrontare ed in particolare le donne musulmane integrate é la vergognosa situazione in cui vivono la maggior parte delle donne musulmane in Italia. Emarginate, senza conoscenza della lingua, senza libertà nemmeno di scegliere se andare in spiaggia e come vestirsi. Questo é il problema, non il burkini. Quindi, invece di farci lezioni di democrazia, provate ad integrare le vostre donne.

    (C.g)

    • Firma - C.g
  13. Sicuramente é un brutto e grave problema, ma qui parliamo di altro! Le donne musulmane non hanno il diritto di scegliere cosa indossare e neanche di decidere se andarci o meno, in spiaggia. Non parlano italiano e non possono integrarsi. Integrarsi non significa mettere il perizoma invece che il burkini, ma significa scegliere cosa mettere secondo i propri usi e costumi.

    (C.g)

    • Firma - C.g
    • Concordo con lei, non sapere la lingua è un grosso limite, infatti i corsi di Italiano dovrebbero essere obbligatori. È vero che molte donne non sono libere, ma conosco altre che lo sono e buttare tutte le donne musulmane in un unico stereotipo di certo non aiuta proprio quelle donne che stanno, a fatica, facendo un grande lavoro di emancipazione e non per indossare un bikini, ma per cose decisamente più importanti. Un velo non è simbolo di libertà, ma nemmeno di sottomissione, conta cosa c’è dentro la testa.

      (Monja)

      • Firma - Monja