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Il profumo della mia terra / Gennaio 1ª parte

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Antèlami - Gennaio (Duomo di Parma)

Questa frenesia, questa voglia di novità, in modo impulsivo o garbato, la si riscontrava in ogni persona. I piccoli, già desti a buonora, sprigionavano allegria e dinamismo. La luce fioca equivaleva, per loro, ad un sole splendente entro cui incamminarsi verso chissà quali traguardi.

 Il  "Bon dì"

Per i più grandicelli, diciamo dall’età scolare in su, si presentava anche l’occasione per cominciare ad organizzarsi, per impostare in modo razionale i giochi e le relazioni coi coetanei. A costoro spettava il compito, da soli o in gruppo, di passare ad augurare il buon anno alle famiglie. Operazione che richiedeva una cospicua dose di coraggio e buon tatto. Se da un lato i più timidi s’accontentavano di bussare alle porte dei compaesani ed augurare loro un impacciato Buon Anno nuovo, quelli un poco più intraprendenti riuscivano a recitare qualche strofetta augurale o imbastire una scenetta, e dovevano sapersi districare in caso di domande a trabocchetto. Mi ricorda l’amico Riotti (lui abita alle falde del Cusna) e lo conferma anche Gigli Graziano, di Civago, che quel mattino era una gara ad arrivare per primi alla porta delle famiglie, e a chi apriva la porta gli si augurava, secco, secco: Bun dì. L’arguzia e la presenza di spirito dei ragazzotti contribuiva ad accattivarsi la benevolenza dei padroni di casa. Perché poi costoro erano ben lieti di ricevere gli ospiti in quanto quella visita veniva interpretata come un rito propiziatorio e beneaugurante per tutto l’anno nuovo. Fra le rime più frequenti e più usate vi era, in Val d’Asta: Bun dì, bun ànn; - fâdme ‘l bun dì ânch st’ann, con la variante, nell’alta valle del Secchia: Bun dì, bun dì, - dêm la mancia ch’i’ sun chì

E dopo aver ricevuto il regalino si ringraziava dicendo: Dio v’l’arrènda, (Dio ve lo renda), oppure: Dio v’l’armêrta (Dio ve ne renda merito).

Qualcuno più estroso invece si esprimeva così (ed era molto gradito):  Pân e gabân - ch’i’  n’ te manchi mài d’in mân (Pane e vestiti non ti manchino mai).

A volte si poteva incappare in un musone che al primo impatto si rendeva inviso o magari rimproverava per il disturbo arrecatogli. Ebbene anche per costui c’era la strofetta che diventava un giocoso ricatto: Bundalîn a l’ús, a l’ús; s’an me l’ dâdi i’ pìss int l’ús! (L’augurio di buon anno è qui sulla porta; se non mi fate il regalo faccio la pipì sull’uscio). E mi hanno garantito che c’è chi lo ha fatto. Dolcetto scherzetto? Un clone, non una invenzione!

Ma anche gli adulti non disdegnavano di andare a porgere gli auguri accompagnandosi con la chitarra o (fortunato chi poteva) col violino. Per costoro però la ricompensa era di altro genere: una fetta di brasadèla da affogare in un bicchiere di moscatello, o un bicchierino di marsala, oppure un goccio di bru per cacciare il freddo.

Il pranzo

Pur non avendo l’importanza di quello natalizio il pranzo di capodanno doveva distinguersi dagli altri giorni festivi. Insomma doveva dimostrare che la famiglia “poteva permetterselo”. Facendo gli scongiuri si rimuginava il detto: “Chi ben comincia...”.

Difficilmente si avevano ospiti o ci si recava da parenti. Il menù? Nulla di particolare, ma si era ancora nel clima delle festività natalizie e quindi ci poteva scappare un piatto di cappelletti. In tal caso la gallina (meglio se era un cappone) adempiva a due funzioni: produrre un buon brodo per i cappelletti e fornire il lesso per il secondo. Abitualmente non vi era l’esigenza di mangiare frutta a tavola, ma per l’occasione poteva comparire un cestino con frutta secca (noci, nocciole, arachidi [i scachèt]), mandarini, oppure qualche grappolo d’uva appassita, conservata appesa alle travi del granaio. Il dolce? Beh! la rešdûra sapeva fare la giusta scorta di tortelli di castagna, fritti o al forno, in modo che ce ne fossero fino all’Epifania. Non si usava prendere il caffè dopo pranzo.

Il  cambio del Lunario

almanacco-di-torinoTra le cose rituali da fare il primo dell’anno (o al massimo qualche giorno dopo) vi era anche la sostituzione del vecchio lunario, con la possibilità di scegliere fra due tipi: quello da appendere, con un mese per ogni pagina, oppure quello a foglio, largo come un manifesto, che permetteva la visione simultanea dei dodici mesi. Lo si collocava in cucina, nell’androne o lungo le scale, o anche nella stalla.  E se lo si trovava qui non era per irriverenza ma per averlo come compagno di viaggio. Su di lui croci ripetute indicavano la quantità di capironi di latte consegnate al casaro; qualche segno particolare indicava le scadenze delle mucche portate alla monta per capire se si erano tenute oppure no, o la quantità di fieno necessaria in un determinato periodo.  Analisi e ricerche che al biûrch faceva per conto proprio, ma che alla fine (e solo lui capiva come) davano i risultati sperati.Di Lunari ne esistevano, e ne esistono ancora oggi, diversi e con nomi prestigiosi, dedicati ai più disparati argomenti e attività: Agricolo, Igienico, Letterario, Sportivo, e specifico per alcune città come Milano, Torino.Da noi il lunario era uno solo, quello che ti sapeva dire per tempo le variazioni climatiche, le lune giuste per imbottigliare il vino o per tagliare gli alberi, il periodo per sistemare nell’orto le piantine o per dare l’acqua alle viti. Se fosse necessario un paragone potremmo affermare che il lunario era l’ABC del contadino. Anche se non sapeva leggere vi erano quelle lune puntuali e ricorrenti che toglievano d’impaccio: Luna nuova; Primo quarto; Luna piena; Ultimo quarto. Una terminologia che può far pensare al profano di trovarsi davanti ad una persona ...  suonata!

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 Il Pescatore Reggiano, l’amico fedele da 171 anni

Dal 1846, se ben ricordo, Il Pescatore Reggiano è l’amico fedele del contadino e anche di chi è passato ad altre attività, e di coloro che sono emigrati e se lo sono portato dietro come un ricordo di famiglia, (magari con la segreta speranza di doverne avere di nuovo bisogno). L’almanacco accontenta anche chi va a caccia di notizie importanti, elargite dai ricercatori con metodo rigorosamente scientifico. È l’almanacco che offre maggiori garanzie, a tal punto che di recente ho letto da qualche parte che "funziona anche in America". Ed era reperibile in tre formati: manifesto, calendario, libro.

Viene da sorridere constatare che le famiglie le quali non se lo erano ancora procurato rivoltavano tranquillamente quello scaduto. Si trattava poi di fare slittare il tutto di un giorno (due dopo l’inizio di Marzo se l’anno era bisestile). Lascia invece un’amara smorfia l’episodio descritto da una nota canzone, Al vilân, risalente al periodo della emancipazione del mondo agricolo (fine del 1800). Perché lì si evidenziano due modi diversi di percepire le relazioni sociali: il contadino, ligio alle usanze, porta al padrone due capponi per Natale e ne riceve in cambio una stecca di baccalà o un vasetto di marmellata. A fine anno spìca (stacca dalla trave) uno o due salami da portare alla casa padronale, ma

in càmbi lû ‘l gh’ha dâ  /  al lunàri d’l’àn pasâ.

 [in cambio gli ha dato / il lunario dell’anno finito].

La Befana

Per noi ragazzi era una verifica sulla propria condotta. Di conseguenza, nel periodo che precedeva la festa, bisognava filare diritti per non trovare nella calza il fastidioso carbone (quello vero, non quello commestibile). E allora sotto con i compiti per avere un bel voto, sotto con la disponibilità a fare quanto richiesto dagli adulti, ad aiutarli, ad eseguire quanto proposto, a portare in casa legna grossa e minuta, ad accettare allegramente (o almeno lasciarlo credere) ogni incombenza. Incastonata alla fine delle festività natalizie, al termine di un periodo di abbondanza, aveva il sapore delle cose che finiscono, concetto evidenziato dall’adagio:

Quand a vên l’Epifanìa - túti ‘l festi la pâra via

di diffusione universale. In realtà con l’Epifania ha anche inizio il Carnevale, ma quando i mezzi economici erano assai limitati e le esigenze lavorative incombenti, a fare Carnevale si attendeva l’ultima settimana. Ma il proverbio non finiva qui. Lasciava uno spazio alla speranza e alla buona stagione:

fîn ch’a n’ rîva Sân Bendèt - ch’a n’in pôrta un bel sachèt.

E San Benedetto un tempo si festeggiava il 21 Marzo, all’inizio della primavera (la rondine sotto il tetto) e spesso in periodo pasquale, con un bel sacchetto di feste.

Nulla di eccezionale all’interno della calza: tortelli di castagna, qualche portugàl (mandarino), frutta secca, caramelle e, a volte un pacchetto di mignîn (i wafers) o un torroncino abbinato ad un mazzo di carte da gioco in formato mignon, larghe poco più di un francobollo. Però quei doni erano personali e ci facevano sentire importanti.

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In molti villaggi della montagna, in particolare in quelli più vicini al crinale, esistevano gruppi organizzati che andavano nelle case dei più abbienti, o in piazza dopo la Messa e i Vespri, a cantare la Befana. Con lo spopolamento del dopo guerra anche questa usanza era scomparsa quasi del tutto. Oggi assistiamo ad un gradevole ritorno a tutto quello che riguarda le tradizioni, anche se si tratta di iniziative folcloristiche, inserite in un contesto di fiere o feste locali. È comunque encomiabile chi si dedica a tale recupero.

Il componimento (perché di veri componimenti si tratta), affronta diversi argomenti, quasi sempre in tono bonariamente scherzoso, ed ha diversa lunghezza a seconda dei componenti della famiglia cui è diretto. I temi? Gli avvenimenti rimarchevoli dell’anno appena trascorso (oggi li definiremmo Eventi). Al termine dell’esecuzione nella gerla o nella sachèla della Befana veniva messo un pacchetto. Se la visita e le strofe erano state gradite vi si trovava roba buona, seinvece qualcuno si era sentito punzecchiare, era possibile trovare una risposta simbolo: un pupazzo di stoffa rappresentante una persona o un animale. In metafora significa: “Quello sei tu, che mi hai provocato” e l’animale raffigurato esprime l’epiteto da attribuire (asino, bue, pecora, coniglio). In passato queste scaramucce succedevano quando il signorino provocava una ragazza e questa ne aveva rifiutato le avances.

Alcuni testi sul tema "la Befana"

Ogni paese, ogni borgata aveva i propri parolieri. Si trattava di persone dalla vena facile, dall’orecchio musicale, capaci di preparare i testi per ogni singola persona del paese. Non erano i rappresentanti della cultura ufficiale, ma persone dotate delle qualità di sapere scrivere e comunicare i concetti pensati.  Questi personaggi, una volta intrapresa la strada del compositore, diventavano un punto di riferimento e restavano in auge per tutta la vita. La tradizione della Befana era rimarcata soprattutto nei paesi al di là del Secchia fino al crinale, per questo i nomi che citiamo li abbiamo appresi da chi si interessa di quel territorio. Ad esempio a Gazzano e dintorni viene ricordato Geremia Cappelletti al lavoro già dal 1935, il figlio Alberto, Marcello Fontanini e Fausto Merciadri, questi ultimi autori della rinascita dell’usanza di cantare la Befana. A questi vanno aggiunti Marco e Remo Secchi, Marino Fontanini e Arnaldo Gigli. Ma sicuramente ve ne sono altri.

La tecnica è la stessa usata per il Maggio: quartine di ottonari da cantare sull’aria del Maggio o di altre canzoni affermate, compatibili con la metrica suddetta. A volte però si adatta il testo alla canzone scelta, parafrasandola, come nella presente, che riprende L’ambasciatore. La lingua può essere indifferentemente in dialetto o in italiano.

 L’è arivâda la Befana

e cun lê la cumpagnia;  

l’è arivâda la Befana

e la porta l’alegria.  

 Da vuâtre la ‘n völ angùta

ma l’è prunta ad acetâr

quel che ag dâd cun e’ cör,

brava genta,

sia da bèvre che da mandjâr.

Due quartine, queste, che possiamo definire il manifesto, il programma delle Befane!

Nei dintorni di Ligonchio, e precisamente a Montecagno, operavano in passato Celso Paoli e Alfonso Pighini. Grazie a costoro si è costituito il “Gruppo dei canterini amici di Montecagno” che si propone il recupero delle tradizioni in Val d’Ozola. Ecco alcune strofe della loro Befana:               

Un saluto a tutti quanti:

noi siam qui con la Befana;

Vi saluta e si fa avanti

è figura molto strana!

Mai ha visto i genitori;

non ricorda la famiglia;

non conosce alcun parente;

lei non sa di chi era figlia.

Date pur quel che credete, 

ben s’intende roba buona,

sarà lei che pensa a tutto

regalarli nella zona.

 Concludiamo il nostro canto:

ringraziando partiremo.

Sempre assieme alla Befana

un altr’anno torneremo.