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Il profumo della mia terra / Luglio 2ª parte

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 Il profumo della mia terra

Luglio  -  II  parte

 

Antèlami – La trebbiatura del grano –

L’immagine rappresenta il contadino che guida i buoi

sopra le spighe di grano per  farlo sgranare.

Nella puntata precedente abbiamo ricordato la trebbiatura fatta con la macchina da battere e riferita esplicitamente al grano.

 Ma  una  volta ...

 Per sgranare il frumento o le leguminose come veccia, arvìa (piselli selvatici) e fava le cose non erano così facili. Le macchine sgranatrici erano ancora di là da venire e la gente si arrangiava come poteva. Del resto, oltre a farro (poi grano), anche queste colture avevano la loro importanza perché con esse si produceva il farinaccio da dare alle mucche gravide o da latte. Per tali prodotti veniva riservato un quadro di terreno specifico, ben concimato e fresco. La fava poteva anche essere inserita, ma raramente, lungo i solchi del granoturco. Si seminava a Marzo, appena la stagione piegava al bello e i campi arati erano praticabili. A metà Giugno erano belli turgidi e maturi, pronti per essere falciati. Dopo una opportuna essiccazione al sole venivano portati nell’aia predisposta a ciò.

L’aia subiva un trattamento speciale, che veniva replicato appena prima della trebbiatura del grano. Si trattava dell’operazione detta imbiudadûra, di cui abbiamo già parlato. Su questa coibentazione veniva poi ammucchiato il raccolto delle leguminose perché finisse di seccare. Ma se il contadino disponeva di un’aia pavimentata a mattoni o a piàgne era ancora meglio.

 Quando il mucchio di cereali era ben arido, normalmente di pomeriggio, si partiva per la sgranatura. Questa poteva essere effettuata in tre modi: con al Cêrsi a mano, con gli animali a piedi, con la Piàgna trainata dai buoi.

I correggiati, che noi chiamavamo Cêrsi, (in pianura Sêrci), altro non erano che due robusti bastoni collegati con uno speciale snodo. Un bastone serviva da sostegno, ed era tenuto in mano, l’altro veniva scagliato con metodicità sul mucchio da sgranare. Qui occorreva essere svegli ed esperti nell’imprimere al correggiato un movimento rotatorio per farlo passare oltre il proprio capo senza colpirlo. Altrimenti... beh! fatti furbo! Quel battere ben ritmato e il percorso circolare intorno al mucchio di veccia permetteva di separare bene i grani dalle teche. 

Il secondo metodo consisteva nel fare girare in tondo uno o più paia di buoi o mucche sopra il mucchio. A forza di calpestare sgranavano le teche. Occorreva qualche ora per rifinire il lavoro. E bisognava stare attenti a togliere subito eventuale sterco che gli animali lasciavano cadere senza tanti riguardi.

Un terzo metodo consisteva nel trainare sopra il mucchio arido una grossa pietra sagomata. Qui occorrevano i buoi. Aggiogati e agganciati ad una timonella che si incastrava a cuneo sotto la piastra, i buoi erano costretti a girare intorno ore e ore, mentre un addetto rimetteva al centro eventuali gambi usciti dal mucchio.

Umberto Monti ricorda un’altra maniera di utilizzare il Piastrone (così chiamavano la grossa lastra di arenaria, meglio però se di tufo perché è più poroso) riferito al tempo precedente la trebbiatura con la macchina: sull’aia veniva disposta la paglia e poi trattata col piastrone per renderla più soffice, sia che fosse destinata a fare da lettiera che da foraggio.

La “Piàgna” (Foto RS)

A questo punto, col forcale, si toglieva le sgarbe (i fusti), ripetendo più volte e con sempre maggior precisione l’operazione. Restava il mucchio di grani e pula che veniva ammassate con cura per la spulatura.

Al mattino presto, con un poco di brezza, il capofamiglia iniziava la pulitura dei grani.  Dopo aver scelto la direzione (controvento) e il punto di raccolta si ponevano larghi teli sul punto scelto, poi si cominciava a lanciare palate di quell’insieme di grani e pula. Bisognava dosare bene la quantità e far fare l’arco alla palata. In questo modo il vento frenava la pula ma lasciava passare i grani.

I grani ripuliti venivano poi messi dentro l’apposito Scrigno o cassone per il farinaccio. oppure in capienti sacchi per essere portati al mulino. La farina prodotta con questa mistura di leguminose veniva usata con parsimonia e solo in casi speciali: per lo svezzamento dei vitelli, per curare mucche indisposte, o per fare rendere di più le bestie durante i grandi lavori.

 L’acqua   alle   viti

Anche le viti richiedevano attenzione e lavoro. Per evitare che le diverse malattie (peronospora, oidio, ecc.) intaccassero l’uva bisognava dare loro dei prodotti sciolti nell’acqua (verderame e solfiti o solfati vari). Tali prodotti venivano sciolti in immersione. Dopo si partiva per l’irrorazione. Una botte adibita a quest’uso veniva imbracata sul bersiòt (gli elementi essenziali del biroccio: timone, assale e due ruote), e trasferita nel vigneto. A questo punto ci si armava della Machina per dâr l’aqua a l’úva. Le più antiche consistevano in un recipiente di rame sagomato a forma di zaino, munito di pompa da azionare con la mano destra mentre con la sinistra si reggeva il tubo per dirigere il getto. Era bravo chi riusciva ad irrorare i grappoli senza sciupare acqua sulle foglie, ma, alla fine, anche esse risultavano del colore del rame ossidato.

Successivamente comparvero macchine a forma di carriola. Per attivarle occorrevano due persone: una a pompare, l’altra a tirare il tubo per raggiungere i filari. Rispetto alla prima aveva il vantaggio di potere contenere molto più liquido. Vi era però l’inconveniente di dovere srotolare e riavvolgere il tubo.

 

Irrorazione delle viti – 1955 (Foto E. Fontana)

 Ma il progresso non si ferma, e anche da noi arrivarono le botti attrezzate per l’esigenza, munite di pompa collegata al trattore e di irroratori a vasto raggio, capaci di disinfettare un lato di due filari. Bisognava però che le viti fossero ben disposte e distanti quanto occorre per farvi passare in mezzo il trattore. Lo sperpero di acqua spruzzata a tappeto viene compensata dalla velocità di esecuzione e dalla riduzione di manodopera: basta un solo operatore per trattore e botte. L’operazione doveva essere ripetuta più volte nell’arco dell’estate perché potesse essere efficace.

Quando il grappolo era già consistente si sospendeva la cura dell’acqua per passare allo zolfo. Come per l’irrorazione anche per lo zolfo si sono succeduti strumenti diversi. Il più antico è il soffietto, copiato dal mantice per attizzare il camino. Sulla faccia fissa era applicato un serbatoio per lo zolfo che terminava a punta e da qui si dipartiva la canna per raggiungere i grappoli. Azionando il soffietto lo zolfo veniva soffiato sul grappolo. In seguito si passò alla màchina dal sûlfre, simile a quella per dare l’acqua. Sul lato esterno posteriore era applicato il soffietto, azionata da una manovella mediante la mano destra (la sinistra reggeva la canna).

 I   mestieri

Più che descrivere un mestiere preciso preferisco riportare qui una poesia dove ne vengono menzionati tanti, ora scomparsi e che rientravano a pieno diritto nel quadro generale della vita in campagna.

  I  MESTÊR  ED  ‘NA  VOLTA  

di  Lina Del Rio

(Dialetto di Montecchio)

 

Per quîch’în šóven adèss

e che ‘n sân cme fêr a fêr gnîr sîra,

n’ imàginen che al progrèss

l’ha cancelê i mestêr

‘ndò  s’ ciapêva una lira.

Al pularöl, al mulèta, al strasêr,

la strìca ed man dal mediatôr,

al barusêr, al castrîn, al ranêr,

e a Dicèmber al masadûr.

E po’ al frâp. al scranêr, al marangòun,

al magnân, e, per fnîr, al scarpolîn;

quìsti lavurêven tutt per pasiòun,

per magnêr, quèši mai pr’i quatrèin.

Višitèven al famìj dal circundàri,

parèven tutt ed i’ artista;

e la ricumpèinsa per sbarchêr al lunâri

l’era ‘na mnèstra e ‘na pietânsa imprevìsta.

A me scurdêva l’ùltem mestêr da ché indrêe:

quêši un dotor ed professiòun,

ma mia pr’i sôld anca lêe:

gh’era la praticòuna di capòun.

La rivêva sèimper bonôra,

a l’inìsi d’ la bèla stagiòun.

Che festa per la rešdòra:

col giôren dal ciàcer la in fêva dabòun!

Adèsa ch’a s’ và in sìma a la lûna,

ch’a gh’è ‘l màchini, i computer, i’ aroplân,

i šòven  pôlen  catêr fortûna,

ma gh’han da studiêr fin a trent’àn!

 [Per coloro che sono giovani ora / e che non sanno come fare per far venire sera, / non pensano che il progresso / ha cancellato i mestieri / dove si guadagnava qualcosa. // Il pollivendolo, l’arrotino, il cenciaiolo, / la stretta di mano del mediatore, / il birocciaio, il castrino, il ranaro, / e a Dicembre il norcino. // Poi il fabbro, il seggiolaio, il falegname, / lo stagnino, e, per finire, il ciabattino; / questi lavoravano tutti per passione, / Per mangiare, non per arricchire. // Visitavano le famiglie del circondario; / sembravano tutti artisti; / e la ricompensa per sbarcare il lunario / era una minestra e una pietanza imprevista. // Dimenticavo l’ultimo mestiere di una volta: / quasi un dottore di professione, / ma anche lei non per i soldi: / era la castratrice dei polli. // Arrivava sempre al mattino presto, / all’inizio della bella stagione. / Che festa per la padrona di casa / quel giorni di chiacchiere se ne facevano assai. // Ora che si va sulla luna, / che ci sono le auto, i computer, e gli aeroplani, / i giovani possono fare fortuna, / ma devono studiare fino a trent’anni.]

Al  bên

Contro il cattivo tempo

(Dalla Voce di Adelaide Venturelli – Montegibbio di Sassuolo – 1990)    

Gesú Crìst l’era in riva al mâr

ch’al durmîva ben e  al s’arpušêva.

L’arìva San Švàn ch’al dîš: “Stê sú, Signûr,

ch’l’è chì ch’arîva ‘l diàvel tentadûr”.

“Švàn, t’ê fat ben a gnîm ad avertîr.

Co’  t’ dàghia? Or? Argent? O vöt gnîr

cum me int al cêl a-srên?

 “Né ôr, né argent, né andâr in cêl a-srên,

ma sûl ch’i m’insignê

l’urasiûn dal bel temp”.

 “O tempo mio, va’, corri nel mondo

sûra ai camp indùa la fava la n’ fiurìs,

indùa al furmênt a n’ spighìs,

indùa n’ gh’è né câld ne brîna,

indùa n’ gh’ bàt né sûl né lúna.

 Quand i sentî al vent tirâr,

e ’l brút temp arivâr,

arcurdêv dal mi’ nom,

d’l’erba, d’la föja,

dal vênt ch’al s’arvöja,

dal vênt campagnöl,

dal Padre e dal Fiöl,

dal Spirito Sânt:

al brút temp l’ardarà indrê,

e cul bel al gnirà inâns”. 

 [Gesù stava in riva al mare / che ben dormiva e ben riposava. / Arriva San Giovanni che dice: “Alzatevi, Signore, / perché sta arrivando il diavolo tentatore”. / Giovanni hai fatto bene a venire ad avvisarmi. / Cosa ti do? Oro, Argento? O vuoi venire / con me nel cielo sereno?”. / Né oro, né argento, né salire nel cielo sereno, / ma soltanto che mi insegnate / la preghiera del bel tempo”. / “O tempo mio, va, corri nel mondo, / sopra i campi ove non fiorisce la fava, / dove non fa la spiga il grano, / ave non c’è né calore né freddo, / ove non batte né il sole né la luna. / Quando sentirete il vento soffiare / e il brutto tempo arrivare, / ricordatevi del mio nome, / dell’erba, della foglia, / del vento che si attorciglia, / del vento campagnolo, / del Padre e del Figliolo, / e dello Spirito Santo: / Il brutto tempo arretrerà / e quello buono verrà avanti”.   

                        

    Filastrocca

 Giuvanîn ...

 

-- Giuvanîn da la brèta frústa,  (sa)

zîm un pô cúša la cùsta?

--  La mi cùsta un quarantîn

sùta ai pûnt ed Turîn;

la mi cùsta un quarantân

sùta ai pûnt ed Milân;

sùta ai pûnt ed Cremûna   (o d’Verûna)

indu’ gh’tîra l’aria bùna,  (s’ càta l’erba bùna)

..........................................

 (Testimonianza di Elio e Dino Fracassi)

 [-- Giovanni dal berretto frusto (rosso), / Dimmi un poco quanto ti costa? / -- Mi costa un quarantino / sotto i ponti di Torino; / mi costa un quarantano / sotto i ponti di Milano; / sotto i ponti di Cremona (Verona) / ove spira l’aria buona .... (si trova il prezzemolo)].

 Giochi

Al sebiöl  e  la Pîva

Appena i getti giovani di castagno muovevano le gemme significava che le piante erano in amore. Ciò comportava un afflusso maggiore di linfa tra la corteccia e il legno, con la particolarità che la corteccia poteva essere asportata con facilità. Individuato un getto con un tratto liscio, privo di gemme, lungo una trentina di centimetri, lo si tagliava agli estremi della parte liscia. Dopo di che occorreva dimostrare tutta la propria abilità nel togliere la buccia senza farla crepare. Si prendeva il legnetto ben stretto in una mano e con l’altra si produceva una forza rotatoria sulla buccia: questa si staccava del legno; delicatamente si ripeteva l’operazione fino a staccare tutta la corteccia, quindi si sfilava, dalla parte più larga, il legno. Sulla corteccia vuota si produceva una finestrella di pochi millimetri a circa tre centimetri dall’inizio, sul lato ove la corteccia era più larga. Dal legno estratto si tagliava il pezzetto corrispondente, della stessa lunghezza (circa tre cm), lo si sagomava in modo che verso l’esterno vi fosse una buona presa d’aria, mentre sulla parte terminale si toglieva solo una minima parte. Poi lo si reinseriva nella corteccia fino all’inizio della finestrella prodotta, e facendo in modo che la parte scavata risultasse in linea con la finestrella. Soffiandovi dentro lo zufolo doveva produrre un suono gradevole, modulabile con l’aggiunta di fori lungo il corpo e di un tappo alla fine.

Con lo stesso procedimento, cioè togliendo la corteccia ad un ramo, si poteva costruire la Pîva, che qualcuno chiamava Trumbèta. Qui bastava ricavare un pezzo di corteccia sana della lunghezza di circa quindici, venti centimetri, poi la si puliva in una delle parti terminali togliendo la parte ruvida della corteccia e lasciandovi intatta quella chiara. Inserendola in bocca e soffiando con forza si otteneva un suono uniforme, abbastanza potente, ma senza possibilità di modulare il suono. Non tutti però riuscivano a farla suonare.