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A s’ vèd ch’l’é chersû a l’ajbašîn

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C’è concordia nel sostenere che il termine indica: luogo posto a nord, freddo, o almeno fresco, ombroso. Se ne è già parlato in passato con molto interesse su un sito facebook della montagna reggiana, in seguito a una provocazione della dottoressa Laura Magnani. E quella volta giungemmo alla conclusione che le parole variano, si adattano ai singoli villaggi, alla configurazione del terreno, al modo di parlare della gente di ogni borgo. E, quindi, la stessa parola viene pronunciata (e scritta) diversamente in un posto o nell’altro, pur conservando le prerogative iniziali. L’etimologia invece è più discussa. Oggi prevale la versione che fa derivare il termine dal toscano A bacìo. Significa: sul lato ombroso, e, a sua volta, deriva dal latino Opacìvus = opaco, poco luminoso, quindi anche fresco, come sono i terreni esposti a Nord. E ciò non depone a favore di chi vi è nato: A s’ vèd ch’l’é chersû a l’ajbašîn lo si dice di uno che non è del tutto sveglio. È un termine che ha assorbito bene l’elisir di lunga vita. Infatti, dopo la decadenza del latino, ha avuto diverse formulazioni ma è datato. Compare in un documento del 1115: terra vagiva. Poi lo ritroviamo nel veneto (1039) dove si parla di un Pra’ della baziva. Lorenzo De’ Medici usa A bacìo, mentre il  Pulci ha solo Bacìo, e per di più gioca sull’equivoco tra bàcio e bacìo e ombra galeotta.