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Immigrazione, bene l’accoglienza ma sull’ “altro” Mediterraneo si continua a morire

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Riceviamo e pubblichiamo. 

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Drammatiche.

Le immagini pubblicate dal quotidiano “Avvenire” - successivamente apparse sui ‘siti’ dei quotidiani on line – sono mostruose nella sua inaccettabile brutalità. Violenze atroci, cruente, perpetrate sugli ostaggi di qualsiasi età e sesso, per costringere al pagamento del riscatto famiglie di ragazze e ragazzi sottoposte a tortura da bande criminali, carcerieri che controllano intere comunità.

Soldi: unica via d’uscita dall’inferno in cambio della “libertà” che, come racconta il quotidiano dei cattolici italiani, a volte arrivano tardi, quando è la morte del torturato a metter fine alle sevizie subite dalle persone “rimpatriate” e da quelle che a fuggire da quei luoghi non c’hanno nemmeno potuto pensare per mancanza di denaro.

La loro “patria”, dalla quale essi tentano in ogni modo di scappare, è quella che li tortura e li uccide. In qualche caso, si dice, si tratta di poveri cristi gettati in pasto a carnefici contrabbandieri di organi umani, comprati sul mercato dei trapianti dove il colore della pelle del “donatore” non conta granché.

Il drammatico fenomeno delle migrazioni africane evidenzia una complessità tutt’altro che logistica, banalizzata per quote di migranti che gli Stati del Vecchio continente non vogliono prendersi, nemmeno dietro “lauta” ricompensa offerta da Bruxelles. Impensabile tentare di risolverlo in Europa con l’infantile politica del do ut des. E neppure può esser lasciato sulle sole spalle di Roma. Il problema è più grande di entrambi: dell’Europa e dell’Italia, delle barche delle Ong, della Guardia costiera, della Marina militare, dell’esercito ed ora anche di Rocca di Papa (località indicata dalla Cei dove verranno ospitati i migranti sbarcati a Catania dalla “Diciotti”).

Ogni tentativo di strumentalizzazione politica per accrescere visibilità e consenso elettorale, da destra o da sinistra, alla fine non sarà di aiuto per nessuno: non per il governo di ieri, non lo è per quello di oggi e neppure per quelli che verranno.

Per i migranti rimane un unico sogno: lasciarsi alle spalle la barbarie a cui nessuno sta concretamente dimostrando di voler porre fine.

E’ tempo che l’Italia faccia appello alle proprie qualità diplomatiche che, nonostante tutto, non mancano di risorse credibili per riproporre la questione al più ampio tavolo delle Nazioni Unite. L’Onu non può continuare a far finta di niente, riducendo la gravità di una enorme polveriera africana a una mera “faccenduola” italiana, ad alcuni scafisti che abbandonano merce umana in mezzo a un mare che un tempo era considerato crocevia di culture e civiltà.

Sia dunque il Parlamento nel suo insieme (espressione massima della volontà nazionale) con un unanime mandato politico (magari fossero i deputati dell’opposizione a prendere l’iniziativa) a istituire un organismo autorevole in grado di rilanciare un’azione capace di incidere sulla Comunità internazionale affinché essa intervenga con risorse economiche e strumenti militari adeguate.

Ogni programma di accoglienza sostenuto dai Paesi più disponibili, seppure umanamente encomiabile, rischia di apparire più utile alle coscienze che alla soluzione di un problema di immani proporzioni che nessun Stato, da solo, può strutturalmente arginare. Tantomeno l’Italia.

Ogni cento persone che con indicibili sacrifici riescono a raggiungere il suolo italico, dove vengono accolte, curate e nutrite, quante ne devono essere rimpatriate nel rispetto della legge che finisce per rispedirle nelle terre della sofferenza? Quante migliaia di persone non hanno denaro a sufficienza per “comprarsi” un posto sui gommoni della speranza e rimangono in attesa di un aiuto che sta tardando troppo ad arrivare?

“Aiutarli a casa loro”: aforisma che occorre riempire di significato, garantendo innanzitutto a quei popoli una vita priva di violenze, cibo per vincere la fame, medicinali per combattere malattie nel ricco Occidente debellate da tempo, istruzione e lavoro. Diritti di libertà che il giogo dello schiavismo non gl’ha mai permesso.

Il nostro Paese, per storia e cultura politica, non può non essere in prima linea per sostenere una soluzione internazionale utile a rispondere a una crisi umanitaria di queste proporzioni. La sola disponibilità all’accoglienza di coloro che sono sopravvissuti alle acque del Mediterraneo, pur essendo un gesto esemplare dinanzi agl’occhi del mondo, appare realisticamente sempre più insufficiente.

 

(Roberto Lugli)

4 COMMENTS

  1. Considerare la questione ‘immigrazione’ a partire dal senso di colpa che, in tutti noi ‘bianchi’ genera il parlare di ‘giogo dello schiavismo’, mi sembra un po’ riduttivo. Ci sono parecchie questioni da approfondire. Intanto, da tempo l’ONU ha impostato il problema sostenendo a spada tratta la politica della ‘replacement migration’, ovvero la sostituzione della popolazione europea, in via di invecchiamento, con la nuova ‘linfa vitale’ proveniente dall’Africa. Quindi, questo è il quadro generale, a livello culturale, nel quale si muovono i governi. Al riguardo, c’è un noto documento delle Nazioni Unite. Consideriamo, poi, la necessità del capitalismo globalizzato, di avere un ‘esercito industriale di riserva’, cioè forza lavoro a basso prezzo che possa trascinare al ribasso i salari della manodopera europea, abbassando i costi di produzione e aumentando, quindi, i profitti. Ne ha parlato, tra gli altri, con grande chiarezza l’economista Ha-joon Chang, nel suo libro ’23 cose che non vi hanno detto sul capitalismo’, interessante. Ne ha parlato anche Marx, ovviamente, a suo tempo. Un altro punto di vista interessante è quello di Kelly Greenhill, studiosa di Stanford, che ha parlato di ‘Armi di migrazione di massa’ (il suo libro); ha parlato, cioè, dell’uso politico che viene fatto dei flussi migratori, in funzione di ricatto o destabilizzazione di intere aree geopolitiche. Ci sarebbe anche, a proposito dell’aiutiamoli a casa loro, la questione del neocolonialismo ancora fortemente attivo; interessante la questione del Franco CFA, la moneta ‘coloniale’ francese, che stabilisce la parità di cambio col Franco francese (ora con l’euro) delle monete delle ex-colonie francesi. Per chi è poco pratico di economia, si tratta di un tasso di cambio fisso tra aree monetarie non omogenee. La stessa problematica dell’adozione dell’euro nell’eurozona, con tutti gli squilibri che ha generato. In particolare, per le aree ex-coloniali, significa che non possono svalutare la loro moneta, adeguandola ai fondamentali economici e quindi condanna quelle economie al perenne sottosviluppo, rendendole schiave dei progetti di ‘aiuto’ del Fondo Monetario Internazionale (quello che ha lavorato in Grecia, ‘salvandola’, per dire – cioè salvando le banche francesi e tedesche indebitate con la Grecia). Per capire meglio questo meccanismo, si potrebbe leggere la storia dell’annessione economica della Germania Orientale, attraverso la parità del cambio (ne scrive Vladimiro Giacchè). La destabilizzazione militare della Libia, ha avuto come conseguenza l’esplosione dei flussi migratori. Si sa per certo, che i flussi originati dalla Nigeria e paesi circostanti, attraversano zone controllate dai militari francesi, che controllano le miniere di uranio, ma non certo i flussi. Le recenti azioni terroristiche in Libia, mirano a garantire alla Francia il controllo dei pozzi e delle infrastrutture petrolifere italiane in Libia; accanto alla strategia militare, c’è quella, complementare, delle migrazioni di massa. Credo che, se vogliamo capire e intervenire sul fenomeno migratorio, dobbiamo allargare lo sguardo a queste, ed altre questioni, non ultima a quella dell’integrazione: non credo si possa parlare di accoglienza, se non c’è un progetto fattibile di integrazione. In un Paese come l’Italia di oggi, con un tasso di disoccupazione del 12%, e del 40% tra i giovani, mi chiedo se sia possibile realizzare efficacemente un processo di integrazione, senza causare – come sostiene, ad esempio, Chang – problemi di tipo sociale e culturale. Tra l’altro, proprio a causa di questa abnorme disoccupazione giovanile, dall’Italia stanno emigrando proprio i giovani laureati e diplomati, cioè il nostro futuro. Sottolineo anche, a questo proposito, che i problemi sociali e culturali vengono generati anche nei luoghi di emigrazione: i vescovi africani, in un loro documento, hanno stigmatizzato il fatto che i paesi africani vengono privati, in questo modo, delle giovani generazioni, del loro futuro. (commento firmato)

  2. Qui si dice, non senza una qualche ragione, che il problema delle “migrazioni africane” è più grande di entrambe, ossia dell’Italia e dell’Europa stessa, tanto da doversi coinvolgere le “Nazioni Unite” – le quali dovrebbero essere sensibilizzate alla causa da un “organismo autorevole” di nomina parlamentare – il che non è certamente privo di senso, anzi, ma occorre anche essere realisti e guardare la cosa fino in fondo, sapendo già cosa dovrebbe fare l’Europa se non avesse la risposta sperata.

    Mi sento di fare questa considerazione perché davanti ad un eventuale diniego, o temporeggiamento, o al “far finta di niente”, da parte dell’ONU, bisognerebbe sapere fin da subito se l’Europa deve insistere nel bussare alla porta dell’ONU, confidando solo nella sua comprensione, e semmai inutilmente, o debba invece assumere un atteggiamento “energico” e risoluto, e quale, per poter giungere ad un risultato e non rimanere arenata e impotente a metà del guado.

    Ma in questa seconda ipotesi, che mi sembra essere di fatto la strada che cercano di percorrere gli attuali governanti del nostro Paese – onde far sentire la propria voce e far giungere le proprie ragioni a chi sembra “voltarsi dall’altra parte”, facendo capire che non si tratta di una “una mera faccenduola italiana” – si può correre il rischio di venir accusati di “strumentalizzazione politica per accrescere visibilità e consenso elettorale”, o qualcosa del genere.

    A meno che il tutto dipenda dal rispettivo colore politico o posizionamento delle parti in causa, e possa essere soggetto alle predette critiche ed accuse solo chi “batte i pugni sul tavolo” per farsi ascoltare e rientra nel contempo tra quanti sono definiti populisti e sovranisti, mentre le evita chi non viene qualificato come tale, ma se così fosse sarebbe la logica dei due pesi e delle due misure, il che non mi sembrerebbe essere francamente il massimo della “imparzialità”.

    P.B. 04.09.2018

    • Confidare nel ruolo dell’ONU mi pare una pia aspettativa. Distinguiamo tra il ruolo dell’ONU in generale e quello dei suoi organismi, per esempio l’organizzazione che segue i rifugiati (alto commissariato per i rifugiati, UNHCR). L’ONU in generale ha sempre sostenuto la ‘replacement migration’, cioè il ‘meticciato’ in Europa – sostenuto, peraltro, anche dalla sinistra nostrana, Scalfari con Repubblica in prima fila. Teniamo presente che l’ONU si mantiene con i versamenti degli Stati membri; orbene, in occasione della crisi siriana, ad un certo punto, come analizzato da Kelly Greenhill, sono venuti a mancare i fondi per il mantenimento dei campi profughi dell’Alto Commissariato ONU più vicini alla Siria (Giordania e Turchia), da cui, come d’uso, i profughi vengono rimpatriati non appena la situazione lo consente. Da lì è iniziato il problema dello spostamento dei profughi verso l’Europa, l’invito della Merkel, il ricatto della Turchia (datemi cinque miliardi se volete tenerli qui in parcheggio). Se confidiamo nell’ONU, siamo a posto. (commento firmato)

  3. Dice Roberto Lugli: “Quante migliaia di persone non hanno denaro a sufficienza per “comprarsi” un posto sui gommoni della speranza e rimangono in attesa di un aiuto che sta tardando troppo ad arrivare?” Invito, a questo proposito, ad approfondire la figura di Kemi Seba, giovane attivista e fondatore della organizzazione non governativa ‘Emergenze Panafricaniste’, il cui obiettivo è di liberare il continente africano da una moneta di subordinazione, il franco CFA, e di convincere tutti quegli immigrati che hanno rischiato la vita per attraversare il mar Mediterraneo alla ricerca di un futuro migliore, a re-immigrare in patria per combattere contro le proprie élite africane colluse con gli interessi occidentali di saccheggio delle risorse autoctone. Kemi Seba sostiene che “è meglio rischiare la propria vita resistendo nel proprio Paese contro gli autocrati che cercare di attraversare il Mediterraneo e vivere l’inferno in Occidente. Invita così i ‘fratelli e le sorelle’ a tornare tutti nelle rispettive terre per sostenere le rivoluzioni che ci saranno contro i regimi africani subalterni alle cancellerie occidentali.” Mi sembra una posizione molto vicina, tra l’altro, a quella dei vescovi africani. (commento firmato)