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“Quello che so di noi”. Muta al fiume

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"Quello che so di noi". Raccolta di racconti di Fabio Gaccioli, dove narra il suo Appennino particolare.

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Muta al fiume

Quando Ilaria mi chiama ho appena detto quella cosa a mio padre. Non so proprio cosa mi è saltato in testa, perché gliel'ho detta proprio adesso. Ormai è fatta; da qui non si torna indietro.

- Sì, ciao…

Mi alzo dalla sedia e infilo il corridoio per prendere la chiamata. Senza neanche pensarci sto aprendo la porta della mia vecchia camera, che adesso è diventata una specie di dispensa.

- Ciao…

Sento la voce di Ilaria dall’altra parte. La immagino seduta sul divano con la televisione accesa. – Ho provato anche prima, ma non hai risposto.

- Non ho proprio sentito. Lo sai che da queste parti il segnale fa schifo.

C’è odore di stantio, di formaggio stagionato e Dio sa cos’altro, nella camera. Ammassate per terra e lungo le pareti ci sono decine di scatole di ogni tipo. Mentalmente tento di ricostruire la mia vecchia camera, quella di quando ero ragazzo: il letto, la scrivania, l’adorato stereo, i poster sulle pareti. Per un attimo mi viene voglia di scaraventare tutte le cianfrusaglie giù dalla finestra, urlando anatemi come Gesù nel tempio. Poi, ovviamente, non ne faccio nulla.

- Come sta tuo papà? – Sì, me la posso immaginare con addosso il pigiama e i capelli in disordine, laggiù dall’altra parte, seduta sul divano. In fin dei conti vorrei essere lì con lei. Fare che anche questa sia una delle nostre seratine tranquille.

- Bene – rispondo. Raccolgo una scatoletta di tonno e guardo la scadenza: maggio 2013. Considerando che siamo quasi nel ’18 c’è di che essere ottimisti.  – È  di là che finisce di mangiare.

Devo usare un tono per niente collaborativo, perché la sento che sbuffa – Vuoi che ti chiami in un altro momento?

In effetti lo vorrei, ma non mi attento a dirglielo. La prenderebbe sul personale e, visto come si sono messe le cose nelle ultime settimane, si sentirebbe ferita. Non ho nessuna voglia di farla sentire così, tanto più che non ce ne sarebbe motivo: lei non c’entra niente con questa storia, almeno non direttamente. Così mi metto a bofonchiare un resoconto poco entusiastico della giornata, dall’arrivo in treno al viaggio in autobus a tutto il resto.

Mi lascia finire. Poi, capita l’antifona, decide di tagliare corto

– Va bene. Ti chiamo dopo cena…

Di là in cucina mio padre sta finendo di tagliare la scorza a un pezzo di pecorino. Indossa la solita canottiera dalle mezze maniche e tiene i gomiti ad angolo sopra al piatto, a formare una specie di capanna. Solleva appena lo sguardo quando mi vede comparire sulla soglia.

- Era Ilaria – Gli dico.

- Come sta?

- Solito.

- Me l’hai salutata?

- Come no.

Mi rimetto seduto davanti al piatto vuoto. Stacco un pezzo di pane e lo ficco in bocca. Non sono più abituato a questo silenzio. Almeno una volta, quando ancora aveva la televisione, c’era il quiz delle sette a tenere compagnia. Ci fosse almeno il borbottio del fuoco nella stufa, ma niente, è già troppo caldo. Lo osservo menare la mascella che si impasta di formaggio. Guarda qualcosa sulla tavola, tra il vino e l’orlo del mio piatto. Concentrato com’è, non riesco neanche a capire che effetto gli ha fatto quel mio mezzo discorso.

Butto giù un bicchiere di toscano. È il solito vinaccio. Me le ricordo le domeniche passate in cantina a imbottigliare. Mi faceva tittare dalla cannetta quando pescava il secondo sorso (il primo era solo aceto) e mi canzonava a vedermi rosso in faccia.

Ricordo anche di quando preparavamo le fascine per la legna, sempre di domenica, sempre giù in cantina. O quando uscivamo insieme a colombi selvatici, sulla Caldina, e mi raccontava che da lì, in tempo di guerra, i partigiani tiravano ai Tedeschi asserragliati a Cervarezza, dall’altra parte della valle, con gli sten e qualche mitragliatore pesante, e gli altri rispondevano a mortaiate.

Ricordo soprattutto di quando mi fece sparare e io mi spaventai a morte. Ricordo la delusione che gli durò per tutto il sentiero, tornando dalle campagne immerse nella nebbia.

- Sono contento che domani andiamo in montagna, ninno.

Alza la testa con un mezzo sorriso e mi riempie il bicchiere. Fa altrettanto con il suo e beve, schioccando la lingua soddisfatto.

- Anche io. Te poi non ci sei mai stato lassù.

- Andiamo a caccia fino ai prati di Sara.

- Più su, però, non sei mai andato.

- Non sono mica un pastore.

Prepariamo questa uscita da più di un mese. Non so bene cosa ci è saltato in testa a tutti e due. Dall’adolescenza è stato un gran salto nel vuoto. Siamo finiti lontani. Il carattere è quello che è. Ci sono state distanze dove neanche il telefono squillava per portare notizia. Tempi lunghi, posti lontani, i miei, dove ho finito per farmi una vita. Sono uscito di casa che ero ragazzo e ho cominciato a tornare da uomo, e lui, da vecchio, mi ha messo seduto.

Ci guardiamo in silenzio il più delle volte, ed è già qualcosa.

Se qualcuno mi avesse detto che un giorno saremmo usciti insieme a fare campeggio, gli avrei riso in faccia. Tanto più che nessuno dei due, credo, sa bene come si monta una tenda.

Non so se è sincero quando dice di essere felice a venire con me. Forse sente lo stesso disagio che provo anche io, a pensarci seduti attorno a un fuoco cercandoci dentro qualcosa da dire. Come se non bastasse, prima  mi è pure venuto di fargli quel mezzo ragionamento. Come se significasse davvero qualcosa, arrivati a questo punto.

Adesso vorrei aprire di nuovo la bocca ed esaurire tutto. Sarebbe da metterci dentro parole e sfinirsi di fiato, per non lasciare niente in sospeso. Invece sto zitto; restiamo in silenzio convinti dal sangue che è così che funziona, che tanto parlare non serve a granché.

Eppure lo vedo che ci rumina sopra, come un cammello cocciuto.

- Puoi dormire nella camera degli ospiti stanotte – dice – Le lenzuola dovrebbero essere abbastanza pulite.

In camera, sdraiato sul lettino con il materasso troppo morbido e la polvere che mi fa prudere il naso, faccio fatica a prendere sonno. Ho lasciato la luce del comodino accesa perché all’inizio volevo leggere un po', ma faccio fatica a concentrarmi sulla pagina. Così mi limito a tenere gli occhi aperti e guardo il soffitto macchiato di ombre. Provo anche a girarmi su un lato e a chiudere gli occhi, ma non c’è niente da fare. Ho puntato la sveglia del telefono alle quattro e trenta e già mi posso immaginare lo stato comatoso in cui comincerò a camminare nel bosco. In compenso sento il russare del vecchio dalla sua camera.

Sono lì che stringo gli occhi con forza, fin quasi a farmeli lacrimare, quando mi squilla il telefono.

- Ilaria – le dico – Non riesco a dormire.

Continuo a immaginarmela nel suo lato di letto, con il cuscino appoggiato alla testiera, le gambe rannicchiate sotto le coperte e la tisana sul comodino.

- Neanche io – fa lei. La sento che si schiarisce la voce. – Stavo pensando a quella ragazza. È tutta la sera che ci penso. Tu no?

Per un attimo resto interdetto. Ci penso? Certo che ci penso. Anche se preferirei non farlo.

- Già, è una cosa tremenda.

Vorrei trovare un modo per chiudere il discorso. Cerco di farmi venire in mente altro di cui parlare, ma lei incalza.

- Hai letto il giornale di oggi?

- No, non ho avuto tempo.

- Non arrivano i giornali giù da voi?

- Non sono neanche stato al bar.

- Allora domani cerca su internet. È su tutte le prime pagine.

- Davvero?

- Le stanno facendo fare la figura della puttana. La girano in modo tale che sembra sia colpa sua. È una cosa orrenda. Non trovi?

- Sì, orrenda è la parola giusta.

- Non so – dice – È che mi metto nei suoi panni, capisci. Se capitasse a me? Se capitasse a noi?

- A noi non è successo.

- Ma ci siamo andati vicini. Mi sta facendo riflettere molto questa storia. Mi sento male.

- Lo capisco, credimi. Ti capisco bene.

- Non dire cazzate. Cosa volete capire, voi?

Adesso sono io a schiarirmi la voce. Sarebbe il momento giusto per far uscire qualcosa di sensato, non dico illuminante o profondo, basterebbe un minimo di senso. Ma la verità è che non mi viene in mente proprio niente. Sento mio padre, di là dal corridoio, che russa come una motosega. Penso, non so bene neanch’io perché, a quella povera disgraziata di mia madre, alla sua vita troppo breve e troppo dura, al terrore che aveva di farsi sfuggire di mano una tazzina quando serviva a tavola, e a tutte quelle altre cose che so o credo di sapere della loro vita insieme, finché è durata. Penso anche a quell’altra disgraziata del giornale, con un certo fastidio, quasi con nausea.

Così guardo il soffitto macchiato d’ombra e non dico niente. Do retta al solito sangue.

Anche a sto giro Ilaria capisce l’antifona, santa donna, e taglia corto.

- Va bene amore, mi sa che adesso vado a dormire. Mi sento davvero stanca.

- Si, adesso dormo anch’io. Siamo tutti molto stanchi.

Mette giù, lasciandomi da solo nella stanza. Spengo la luce ma anche così, al buio, non riesco a dormire. Tengo gli occhi chiusi ma mi agito, mi giro e mi rigiro. Continua a venirmi in mente mia Madre. Sovrappongo le cose che so di lei all’immagine di quella ragazza che abbiamo trovato, in stato di shock, all’entrata del parco. Non so perché, sento qualcosa che mi ribolle dentro: se non è il sangue deve essere la sua colpa di scorrermi nelle vene. Scivolo lentamente e con fatica in un sonno vigile, pieno di immagini che si sommano e sovrappongono. Una volta mi sveglio di colpo quasi mi venisse meno il respiro. Quando torno a chiudere gli occhi mi trovo davanti a un frigorifero. Apro il portellone e dentro trovo una brocca di latte. Non c’è altro. Soltanto quella brocca.

Allungo una mano e comincio a tracannare a bocca mezza aperta. Il latte comincia a colarmi dalla bocca, sul collo, inzuppandomi la camicia. Sento ringhiare alle spalle. Mi volto e vedo una cosa, a terra, a quattro zampe, sul pavimento piastrellato bianco, che mi viene incontro. Ha il corpo di un bambino e la testa di un cane. Penso subito a Ilaria, che dorme di là in camera come se niente fosse. Lei ha il terrore dei cani di grossa taglia. Urlo per chiamarla, per avvertirla, ma l’urlo mi muore in bocca.

Mi sveglio di soprassalto, con la sensazione di essere incapace di respirare. Controllo l’ora sul cellulare. Sono quasi le quattro e mezza. Stacco la sveglia prima che si metta suonare. Dalla porta appena accostata filtra la luce del corridoio. Mio padre si è già alzato. Adesso tocca a me.

Ci penso eccome alla ragazza del parco. Anche troppo. Mi si è infilata da qualche parte a darmi la nausea. Ci penso anche adesso che il contatto della pelle con l’aria della notte mi da febbre alla schiena.

La rivedo così come l’abbiamo trovata: tutta rannicchiata tra il tavolo e la panchina dove di solito siedono i ragazzi del quartiere, a due passi dal campetto di calcio. Di giorno il parco, un taglio di verde tra due strade parallele, è pieno di badanti dell’est e bambini che giocano con bruchi e altalene.

Non è che ci passiamo spesso da lì, ma ogni tanto succede. È che non riesco proprio a immaginarmelo come un posto pericoloso, ecco. Anche la notte quegli alberi non riescono a mettere paura.

Eppure.

È stata Elena a vederla per prima. Mi ha stretto forte il braccio, puntando in avanti il dito come se avesse avvistato una specie di spettro.

- Cos'è lì?

Vedevo una macchia indistinta, tra il nero e il rosso, raccolta a malloppo sotto al sedile di legno. Quando mi sono avvicinato mi sono accorto che da quell’ammasso indistinto spuntava una faccia.

È toccato proprio a noi trovarla e darle il primo soccorso. Insomma, si fa per dire. Ilaria è andata nel panico completo, e anch'io mica scherzavo. Ho chiamato l’ambulanza e poi i carabinieri. Il peggio sono stai quei dieci-quindici minuti che ci hanno messo per arrivare. Mi sono tolto la giacca e gliel'ho passata intorno alle spalle, perché dal vestito strappato usciva di tutto.

Non riesco a staccarmi di dosso quegli occhi fissi. Vedevo solo il bianco, tanto erano immobili e rimpicciolite le pupille. Siamo stati a far dichiarazioni per non so quanto tempo. I poliziotti hanno preso i nostri nomi. Siamo qui che aspettiamo che ci chiamino per la deposizione ufficiale, anche se non sono sicuro si dica proprio così.

Non ci voleva, ecco tutto.

Fisso la punta degli scarponi mentre avanziamo lungo il sentiero. Dopo appena due ore di marcia sento male dappertutto. Lui, invece, il vecchio, tira in salita come un capretto. Mi ha dato quasi dieci metri di scarto. Ogni tanto lo vedo che si ferma, alza la mano con cui regge il bastone e lascia partire un chiamo.

- A posto?

Il più delle volte non ho nemmeno il fiato per rispondere. Mi limito a stirare un sorriso afflitto, come se lui potesse vederlo a quella distanza.

Quando lascia il sentiero battuto per tagliare attraverso campi e boschi, seguendo piste che soltanto un cacciatore esperto può conoscere, non posso far altro che seguirlo.

Lo fa apposta, ne sono sicuro. Vuole vedere cosa mi è rimasto nelle gambe delle giornate passate a colombacci, pernici e fagiani.

Ben poco, mi sa.

La luce dell’alba, pallida e nebbiosa, sale dalle creste delle montagne a sud. Alle nostre spalle le gobbe alberate delle colline si sono scrollate di dosso le case del paese da un bel pezzo ormai.

Dovrei aumentare il passo e raggiungerlo. Ho la gola arsa, mi sembra che vada in fiamme. Dovrei fargli sapere quello che penso prima di arrivare, prima di ritrovarmi da solo, con lui, nella notte, tra i faggi bianchi dei prati di Sara, a guardare un fuoco che brucia.

Ora aumento il passo, mi dico. Lo vedo che rallenta, ha i suoi anni dopo tutto.

Devo assolutamente raggiungerlo e mettergli una mano sulla spalla, fermarlo, guardarlo negli occhi, e dirgli quello che devo. Finire il ragionamento.

Quella volta che i gemelli e gli altri del paese portarono la Muta al fiume. Avanti e indietro con la seicento rossa del Franco. Dieci, quindici di loro. A gruppi di cinque.

Tu cosa facevi?

La volta che i gemelli portarono la Muta al fiume. Lei che non poteva parlare, che aveva la faccia grossa e squadrata, i capelli ispidi, le tette enormi, e quegli occhi stretti, piccini, da scema.

La volta che al fiume ci andarono tutti, uno per uno. A gruppi di cinque sulla Seicento del Franco, che faceva l’autista delle corriere, e che poi se l’è sposata, la Muta, per rimedio, mi sono fatto l’idea, per riparare.

Il Franco che è quello che ha messo a posto tutto. Il Franco che poi è morto sputando sangue per un cancro nella casa del bosco, dove s’era portato la Muta, dopo essersela portata al fiume.

Che fine avrà fatto, la Muta, che non ne ho più sentito parlare?

Saranno passati almeno venticinque anni. Io ero bambino. Mamma era viva. Tu ti rompevi le ossa in cantiere tutti i giorni. Tornavi a casa così sfatto e di malumore che a fatica riuscivo a trovarti gli occhi sulla fronte. Mamma aveva paura a farsi scappare un piatto dalle mani. Io avevo paura per voi.

C’era la discoteca aperta, in quegli anni. Io, la notte, quando tu e mamma eravate al lavoro, guardavo dalla finestra di cucina i ragazzi più grandi barcollare sotto i lampioni, fare caciara, prendersi a botte. Vedevo le ragazze fumare e vomitare l’anima sotto al noce del cortile che il sabato sera si riempiva di macchine. C’era tutto un via vai e un frugare di corpi e di voci nel buio.

Tu facevi il buttafuori, in quel posto. Elegante, il più possibile, con la giacca ma senza cravatta, perché avevi il collo troppo grosso. La mamma faceva il guardaroba e le pulizie il lunedì mattina. Ogni tanto andavo con lei ad aiutarla a strofinare, a pulire via i rigetti di alcol e sangue.

Una volta hai pestato uno sbruffone, uno skin di Genova che voleva piantare casino, incastrandolo a calci sotto il pianale di un furgone. Eri un pezzo d’uomo, allora.

Che cosa facevi, quando i gemelli si sono portati la Muta al fiume, sulla macchina del Franco, e poi hanno cominciato a scendere tutti, dalla discoteca, dal paese, a gruppi di cinque, dieci, quindici.

Che cosa facevi tu?

- Ce la fai a starmi dietro, ninno?

Mi ci vogliono gli ultimi strappi di coscia per piazzarmi accanto a lui, finalmente, al limitare del bosco. E li sento tutti. Quando mi fermo cerco di sputare per terra, ma non riesco a trovarmi niente in bocca.

È una piccola sosta. Lo guardo di profilo, contro la placca del cielo che sta sbiancando. Penso alla notte che segue il giorno, a come faremo a passarci attraverso. Non sono neanche sicuro di essere capace di accenderlo un fuoco all’aperto, io. Eppure si deve.

Ci allontaniamo ancora di più dal sentiero infilandoci lungo rivi erti, fitti di boscaglia, tra roccioni sporgenti e passaggi argillosi che si aprono su fossi e strapiombi. Andiamo avanti così per un bel pezzo. Ogni tanto il vecchio scompare dentro ai macchioni, con la scusa di controllare se di lì sono passati dei cinghiali, attraverso passaggi che il mio occhio non riesce a individuare neanche dopo averli visti.

Ne esce ogni volta con i vestiti sporchi di terra e foglie, tutto sudato, con gli occhi come imbestialiti, facendomi segno di camminare piano.

 

E di stare zitto.

(Fabio Gaccioli)

 

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Fabio Gaccioli

Mi chiamo Fabio Gaccioli, ho quarant’anni. Sono nato in Appennino; originario di Cerrè Sologno.

Ora mi sono trasferito a Trento.

Mi occupo di Teatro da quasi vent’anni. Scrivo racconti e spettacoli che a volte metto in scena.

Con la mia compagna ho fondato Eleuthera Teatro, attivo in Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna.

Ho pubblicato un libro per la collana “Burattino” della casa editrice Abao Aqu dal titolo: “Nell’ombra della casa senza luce elettrica”.

Miei racconti sono usciti su riviste cartacee e on line: Cattedrale Magazine, Carie, Prospektiva, Montepiano, Inchiostro, Alieni Metropolitani, Sp15.

Sono membro del collettivo Ansasà.

Ho un blog su cui ogni tanto butto giù qualche parola:

Lacasaobliquablog.wordpress.com

6 COMMENTS

  1. Beh Fabio, mi sa che dovrai venire a leggerli ai Martedì con Gusto alla Cantoniera i tuoi racconti, non trovi? Insieme a quel libro di foto, ricordi?
    Che bello ritrovare così cresciuti quegli occhi attenti che sorridevano sempre, mi piacerebbe che alla Cantoniera ti accompagnasse tutta la classe, magnifica classe di una Villa Minozzo sempre cara. Ragazzi, si può fare?
    La prof di italiano