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“Quello che so di noi”. Parola dei morti

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"Quello che so di noi". Raccolta di racconti di Fabio Gaccioli, dove narra il suo Appennino particolare.

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Il racconto che segue è uscito qualche tempo fa sulla rivista Sp.15 Fanzine, in una forma diversa. La versione che segue è passata per alcune riscritture.

Parola dei morti

Me ne sto seduto nella sala del barbiere, in attesa che venga il mio turno. Osservo le sue spalle che si muovono sopra a un tizio con addosso una tuta rossa e gialla da trattorista. Il tanfo di olio motore e letame si mischia a quello del dopo barba e di chissà quale altra porcheria. Il trattorista lo conosco. È venuto a tagliarmi la legna con il bindello la primavera scorsa e, considerate le circostanze, non ha voluto neanche essere pagato. Mi sa che si ricorda. Guardo la sua testa dai capelli brizzolati e sento il sibilo della forbice. Riflesso nello specchio riesco a vedergli anche un po' di faccia. Evita di guardarmi, anche se sono sicuro che mi ha visto, entrando. Suo figlio era in classe con me alle medie. I professori gli tenevano il banco appiccicato alla cattedra, perché aveva la tendenza ad addormentarsi. Si svegliava alle quattro perché doveva andare nella stalla a star dietro alle vacche. Puzzava di letame tutto il giorno. Io ero uno dei pochi messo peggio di lui, in fatto di timidezza.

Il barbiere si chiama Poldo. Dovrebbe essere un mio mezzo parente, ma non ne sono sicuro. Da queste parti siamo un po’ tutti mezzi parenti. È un uomo gentile, lo si capisce dalle mani. Quando taglia sfiorano. Quando tocca il capo per spostarti a favore di forbice lo fa preciso, come misurasse a piombo. Non sa acconciare i capelli. Li taglia. Poco o tanto, devi solo scegliere quello.

Mi tocco i capelli e penso al pozzo nero nella bocca di mia nonna.

Mia nonna Divina parlava con i morti. La gente veniva apposta da Lucca e da Massa, per parlarci insieme a lei. Non so dire esattamente come funzionava la faccenda. La Divina non voleva che rimanessi in casa quando parlava con i morti. Così io me ne stavo in cortile a dare la caccia alle lucertole. Quelli in attesa, seduti sulle scale, mi guardavano senza dire niente. Sembravano morti anche loro. Aspettavano il turno con gli occhi abbassati sulle ginocchia. Alzavano la testa quando la tendina della porta al piano di sopra frusciava per far uscire qualcuno. Solitamente questo qualcuno piangeva, o sembrava sul punto di farlo. Oppure scendeva i gradini molle come una buccia. Gli altri, quelli che aspettavano, si alzavano, per rispetto, credo, e guardavano le facce di chi scendeva le scale con una durezza che metteva i brividi.

La Divina si faceva pagare, per il servizio, ovviamente. Ma non è che la svolgesse sempre la sua attività. Insomma, non lavorava mica le otto ore. C’erano certi giorni buoni per parlare con i morti, e altri no. Certi giorni, ad esempio, erano buoni per togliere il malocchio. Il più comune, mi spiegava, era quello del latte. Altri giorni, invece, non erano buoni per niente, e allora non c’era altro da fare, per lei, che starsene seduta alla finestra a guardare gli ulivi, sul fianco della collina, che salivano fin sotto le mura del castello sforzesco. Voleva che rimanessi seduto vicino a lei e che la ascoltassi mentre parlava. Mi raccontava di quello che le raccontavano i morti. Io mi concentravo sulla sua bocca sdentata, perché il dialetto tosco non è poi così semplice per un emiliano. Quando rideva, e lo faceva spesso, anche senza motivo, la sua bocca mi sembrava un pozzo.

Quando tutti quelli che dovevano parlare con i morti se ne andavano, la Divina usciva nel cortile per farsi una pisciata nella latrina. Io le tiravo dietro con i fogli di giornale che usava per asciugarsi. Me ne stavo di piantone alla porticina con i fogli in mano, e sentivo il getto della piscia che cadeva nel buco. Quando non sentivo più niente le allungavo i fogli; lei si asciugava e usciva. Io allora dovevo prendere la cannetta dell’acqua e con quella sciacquavo la turca.

- Ricordati sempre di pisciare, dopo che hai parlato con i morti. - diceva - Sennò ti restano dentro.

Il trattorista e Poldo si sono messi a parlare del fornaio di Esse, che si è fatto trovare impiccato nella stalla del cavallo con un cartello legato al collo con su scritta la cifra: 30.000 - secondo entrambi è il debito per cui ha deciso di farsi fuori.

- Non fosse stata la corda, lo avrebbero comunque fatto secco i Campari.

 - Acido da batteria.

 - Però il pane lo faceva buono.

 - Insomma. Era sempre al bar.

 - Povero Cristo.

- Era smagrito e secco come un chiodo, il cavallo. Hanno trovato il legno della staccionata pieno di morsi. Lo zengava per la fame.

 - Povero cavallo.

Me li sego via tutti, a sto giro, i capelli. Basta. Tabula rasa. Tolgo tutto. È molto più comodo. Non me li faccio ricrescere neanche se riesco a farmi riattaccare il gas. Fanno tre anni ormai che vado avanti con la stufa. Ormai c’ho preso il giro, anche se il puzzo di selvatico mi sa che un po’ si sente. Me ne accorgo da come mi abbracciano; se proprio succede, ed è una cosa rara, glielo leggo in faccia l’imbarazzo.

Se fossi come mia nonna, se fossi capace di parlare con i morti, potrei mettere su una piccola impresa, e le cose si metterebbero a posto.

Poldo attacca il Phon. Saltella intorno al trattorista come una poiana. A certe frequenze i cani drizzano le orecchie. A me salta addosso tutta la notte passata; fracassata di toscano e cicche di sigarette, a farmi succhiare via un po’ di veleno da una cinese senza culo. Tutta colpa del Phon. Mi ci abbiocco come i vecchi alle madonne di una pita, al bar. Continuo a pensare a mia nonna, alla sua bocca sdentata. Con tutto quello che le dicevano i morti, ne aveva di storie da raccontare.

Quelle me le sono tenute a mente. Forse un giorno ci scrivo sopra un libro. Magari parto proprio da questa. Magari ci guadagno pure qualcosa.

Un mio cugino si amputò volontariamente un dito nell'inverno del cinquantasette, chiuso nella baracca degli attrezzi.

Era il pollice della mano sinistra. Dall'unghia alla falange. Lo fece con il suo pennato - anche io ho imparato a usare il pennato. Mi è stata insegnata, con l’uso, la stessa cautela con cui si insegna a staccare la testa alle vipere.

L’inverno del cinquantasette fu tremendo, a detta di mia nonna, e soprattutto lungo. L’ultima neve venne ancora di maggio.

Il cugino faceva il mercenario del lavoro. Scassava le viti all'Elba, verso settembre. In inverno quel che riusciva a trovare. Con il cattivo tempo se ne stava murato in casa a sfinirsi d’impazienza. Aveva quattro figli. Due di loro, i maschi, la bella stagione portavano le vacche al pascolo per conto di un proprietario della zona. Una delle due femmine era già a Milano, per serva a certi signori. L’ultima, la piccolina, dava aiuto nella stalla. Avevano in tutto una vacca e un somaro per la legna. La vacca morì a febbraio di quell'anno. Morì scarnificata. Un sacco di pelliccia rada e ossa aguzze. Quando la fecero a pezzi per mangiarne la carne, l’Adelina, la piccola, pianse. Le aveva dato un nome.

La famiglia se ne stette zitta, mangiando. La tragedia, in fondo, è cosa che può stare benissimo in poco posto.

Fuori dall’uscio l’inverno continua a sputare il suo veleno ghiacciato. Ferma le cose del mondo. Segna un confine mortale. Costringe l’uomo, dentro mura di sasso, all’assedio. Il bianco della neve che soffoca la terra è una sentenza. L’uomo assediato tra le mura di sasso non può che agire d’appello.

Immagino il cugino uscire di casa con passo deciso. Infrangere il confine. Il vento gli sputa in faccia grumi di ghiaccio. Affonda gli scarponi nella neve, che scricchiola come osso. Spalanca di botto la porticina del baracco. Ha deciso, senza decidere nulla.

Un qualsiasi reparto di psichiatria dei tempi moderni lo accoglierebbe a braccia spalancate. Sedata la rabbia, ne farebbe caso da inserire in cartella. Racconto per dibattiti sulla malattia umana. Lì, nel tempo sospeso tra uomo e animale, tra uomo e fame, il cugino è l’eroe furibondo di un racconto epico. Raccoglie il pennato, il suo pennato, sposta un ciocco di querciolo che usa di solito per spaccare la legna del fuoco, vi sistema sopra il pollice sinistro.

Il fendente è una bestemmia. Sibila nell'aria colpita al cuore dal gelo.

Si staccò di netto la falange superiore del dito. Fasciò la ferita con un pezzo di stoffa. Arrivò da solo al campanile della chiesa. Ne salì i gradini e fece rintoccare la campana tre volte. Scese e attese i soccorsi. A spalla di otto uomini, su una barella d’assi di castagno legate da sughe, raggiunse l’ospedale, distante una ventina di chilometri.

Gli ci vollero quasi quattro ore.

Dopo la sutura gli venne concessa una piccola somma d’infortunio.

Con quella, e senza un pezzo di pollice, sopravvisse all’inverno del cinquantasette.

Apro gli occhi di scatto. Il trattorista si è alzato e si sta frugando dentro la tuta in cerca del portafoglio. Sarebbe l’occasione giusta per dirgli quello che devo, ma da noi non funziona, non usa così.

Incrocio per un attimo il suo sguardo; un cenno del capo è un discorso che basta.

Dopo aver staccato la fattura dal blocchetto, Poldo prende la scopa e sposta i capelli, sparsi sul pavimento, in un angolo.

 - Adesso tocca a te – Mi dice.

Mi sistemo sulla poltrona. Il barbiere pompa la leva con la gamba e io mi sento salire verso l’alto. Mi viene in mente che è da stamattina che non piscio. Poi sento lo schiocco del telo che arriva a stringermi il collo.

(Fabio Gaccioli)