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I racconti dell’Elda 36 / Africa …

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Questa storia l’avevo programmata per un’altra data, ma visto i vari titoli che parlano solo della grande “miseria” che ci ha colpito, penso di distrarvi un po’ con le mie fole.

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Ecco, sono arrivata alla parola fine, chiudo il libro, lo accarezzo un po’, poi lo appoggio sul tavolino davanti a me, perché non finisce così, fra qualche giorno lo riaprirò e ricomincerò dall’inizio come faccio sempre, con calma senza la fretta di arrivare a “come andrà a finire”.

Sognavo l’Africa di Kuki Gallmann, me lo ha donato Mirella la mia amica d’infanzia che conosce bene i miei gusti nel campo delle letture, lei ha visto la mia raccolta di romanzi di Wilbur [Smith]che conservo bene in evidenza e sa di questo amore che nutro per questo continente, anche se non ci sono mai stata se non con la mia fantasia.

“Papà cuntme ed l’Africa”.

“Papà raccontami dell’Africa”, ero una bimbetta di cinque o sei anni, era un periodo nero, la mamma era molto malata allora mi rifugiavo là, seduta sull’ultimo gradino dei tre che scendevano dal pianerottolo della cucina per entrare nella bottega da falegname di mio padre. Avevo aspettato che lui spegnesse il motore a scoppio che alimentava la piallatrice, prima di fargli quella domanda.

Lui alzava gli occhi azzurrissimi al di sopra degli occhiali e mi fissava con stupore misto ad ammirazione, nessuno mai gli aveva fatto questa domanda.

Era stato laggiù prima che io nascessi, era partito con altri 92.000 civili, che erano andati laggiù non per combattere, ma per lavorare ed era stato precisamente nel mese di maggio del 1936.

Il governo Italiano aveva escogitato questo metodo per diminuire la disoccupazione troppo alta nel nostro paese in quel periodo. Lui poi non riusciva a scuotersi di dosso i debiti contratti per fabbricare la casa dove abitavamo e gli sembrò una bella idea, tanto era abituato ad emigrare fin dall’età di undici anni, quando era andato in Svizzera da solo.

Allora si sedeva accanto a me e cominciava a raccontarmi del lungo viaggio in nave: partirono da Genova e scesero fino al Corno d’Africa dove arrivati a Porto Said gl fecero cambiare nave per attraversare il Canale di Suez e si soffermava a spiegarmi che quel canale l’avevano scavato gli uomini per passarci con le navi e arrivare in poco tempo nel Mar Rosso. Era lungo e stretto, si vedevano le rive a pochi metri dalla fiancata della nave e lì rispondeva alle mie domande, volevo sapere chi aveva avuto quest’idea di unire due mari e lui in un qualche modo mi accontentava, fin dove poteva arrivare il suo sapere. Vi dirò che lui aveva imparato a leggere e a scrivere dopo la grande guerra con l’aiuto di mamma che aveva frequentato la scuola, prima conosceva solo la sua firma.

Il racconto seguiva a puntate come si usava in casa mia, così un’altra volta mi raccontava che li fecero scendere tutti a Massaua, poi non so come arrivarono ad Asmara (che si trova in Eritrea e questa fu una colonia con una forte presenza di italiani nel 1939 solo ad Asmara furono censiti 53.000 italiani su una popolazione totale di 98.000 abitanti e  furono costruite migliaia di chilometri di strade ponti e la ferrovia già iniziata a fine '800, che univa Massaua a questa città. Poi tutto questo finì con l’avvento di guerre di potere sanguinarie e già nel 1944 sparirono tutti i 100.000 italiani allora residenti. Chi c’è riuscito è tornato a casa.

Ma torniamo a mio padre e al suo racconto. Lì ad Asmara fu dato ad ognuno di questi operai il lavoro che doveva svolgere. A lui essendo falegname, assegnarono il compito di fabbricare baracche di legno, ma molto lontano da lì. Con una parte di quegli operai ripartì in treno e andarono lontano, nell’interno, verso Addis Abeba in Etiopia, dove restò per il resto del suo soggiorno in Africa a preparare baracche per i soldati italiani.

Io però volevo sapere di più, così mi sedevo sul gradino e appena notavo che mi guardava continuavo il mio interrogatorio.

Allora mentre lisciava con le grandi mani dalle lunghe dita affusolate le grandi assi che aveva piallato, cominciava a raccontarmi di questo paese, per quel po’ che aveva visto lui, dei suoi abitanti con la pelle scura e gli occhi grandi, come il ragazzino che gli faceva da aiutante. Era poco più di un bambino, ma con tanta voglia di imparare, con il capo dai capelli folti e ricci, come la pelle di “Pidor” che la mamma teneva sul letto, ma neri come il carbone.

Pidor,“Polidoro”, era un montone che si era cibato di erba fresca ed era morto soffocato dal gas che questa aveva prodotto nel suo intestino, morto fra i pianti di noi bambini che ci sentivamo in colpa per averlo lasciato scappare nel prato di erba medica. Allora il papà aveva fatto conciare la sua pelle che la mamma conservava sul suo letto dai piedi.

Quando tornavo in casa correvo in camera per accarezzare quella lana bianca ricciolina che era stata della pecora e cercavo di immaginare quel bambino dai capelli così, ma neri come il carbone.

Un'altra volta mi raccontava delle donne, alte con lunghe gambe, “col cul a mandulin” dritte come il fuso che la Zita usava per filare la lana, portavano le giare piene d’acqua in testa e i bambini piccoli infagottati dentro una coperta, li portavano legati sulla schiena, così con le mani libere potevano fare altre cose. Erano molto belle con portamento regale e dopo sposate venivano chiamate “Mama” con grande rispetto dai più giovani.

Allora io prendevo un asciugamano vi infilavo dentro la bambola di pezza che mi aveva fatto la mamma, sarà stato un caso, ma questa bambola era stata cucita con della stoffa nera e imbottita con quella paglietta che in casa mia si usava per imbottire le casse funebri che mio padre costruiva, poi la mamma vi aveva ricamato sulla faccia gli occhi e la bocca col cotone da ricamo bianco, così io me la legavo sulle spalle come mi aveva spiegato papà e andavo fuori nel cortile conciata così, guardavo bene che non ci fossero i miei fratelli, mi avrebbero derisa o sgridata (voi non sapete cosa significa essere la più piccola con solo fratelli maschi e grandi, tutti ti vogliono comandare). Però lui, mio padre, mi sorrideva da lontano scuotendo la testa.

Poi mi raccontava delle notti, quando in lontananza sentiva abbaiare le iene e il borbottare degli animali africani che non erano tanto distanti da dove si trovava lui e alle volte a questi animali davano la caccia per potersi cibare di carne. Per questo si era procurato uno “stiletto”, un pugnale africano che aveva riportato a casa (e spero che mio nipote lo abbia conservato, come io conservo il suo portafogli e il girocollo che aveva portato da laggiù) che gli serviva per scuoiare le bestie. Lui poi aveva partecipato alla grande guerra, perciò conosceva “l’arma bianca”; col pugnale dentro la sua custodia di pelle attaccato alla cintola si sentiva più tranquillo.

Oppure mi raccontava delle macchine che ogni tanto passavano nella strada polverosa con al volante bianchi vestiti di bianco e dietro di loro le loro donne in cappello con la veletta sul viso, o neri col turbante colorato e il lungo caffettano al posto delle braghe.

Mi raccontava anche degli ascari, mi diceva che erano i soldati eritrei assoldati dal governo italiano, portavano la divisa “Kaki”, ai piedi i sandali e il berretto senza visiera “fez” di un rosso brillante e il pon-pon, che gli ricadeva su un orecchio. (Ho poi letto che nel 1950 ai sopravvissuti di questo esercito il governo italiano ha concesso una pensione annua pari a 200 euro l’anno e nel 1993 ce n’erano ancora 1.100, ma nel 2006 ne erano rimasti solo 260 e uno di questi ascari viveva in Italia).

Ecco chi mi ha inculcato tanto interesse per questo sterminato continente. Ogni volta che leggo questi libri mi torna in mente mio padre, che tornò da laggiù coi soldi per pagare i debiti e una brutta malaria che ogni tanto lo assaliva con febbre altissima e tremori incessanti, ma fortunatamente il suo medico conosceva il chinino e lo curò molto bene, diciamo pure fortunatamente, perché poi arrivai io, proprio quando pensavano di non avere più figli.

Forse fu in quel momento che mi trasmise la sua lieve nostalgia per quel posto tanto diverso, dai colori potenti che qui non esistevano e lo rendevano incantato.

Ecco il libro è lì chiuso sul tavolino, allora lo riprendo e ricomincio dall’inizio, con calma, senza la fretta che ho avuto per arrivare alla fine.

 Elda Zannini

5 COMMENTS

  1. Come sempre grazie per la sua preziosa testimonianza che , mai come in questi giorni difficili, è resa più preziosa in quanto ci riporta a tempi altrettanto duri ma vissuti con un vero spirito di solidarietà e valori che purtroppo al momento servirebbero .
    Grazie .

    Luca

    • Firma - Luca
  2. Tranquilli non mi muovo di qua e se arriva qualche idea
    mi divertirò come sempre per scrivere, comunque grazie mille a tutti
    e stringiamo i denti ci salteremo fuori anche stavolta.
    Non dobbiamo vergognarci di chiedere aiuto alla Madonna della Pietra,
    ricordatevi che don Battista diceva sempre che Lei è potente.

    EldaZannini

    • Firma - EldaZannini