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I racconti dell’Elda 40 / L’accampamento dei soldati

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Credo fosse l’estate del 1936, mio padre era partito per l’Africa lasciando a casa la moglie con quattro bambini, il più grande aveva tredici anni e il più piccolo solo un anno e mezzo, una capra che nella nostra vita c’è sempre stata perchè il suo latte era prezioso, nutriente, leggero e digeribile: andava benissimo anche per lo slattamento dei più piccoli. Poi quattro pecore e un sacco di farina, ma niente soldi, solo debiti da saldare. Questi se li portava dietro dal 1923 quando era tornato a casa dalla Francia dove lavorando per tre anni in una miniera di carbone, aveva risparmiato 2500 lire.

“Risparmiato”: mi piace questa parola, una parola molto usata in passato e significa non sperperare. Anche se qualcuno di questi tempi pensa di averne il diritto dal momento che ha faticato per guadagnarseli sti benedetti soldi, perciò a fine settimana si frequentano i ristoranti più pregiati, pranzi e cene con gli amici, discoteche e bevute, belle macchine o moto, a rate, ecc. Scusate se sono uscita dal seminato, mi riprendo subito, ma se penso ai sacrifici che hanno fatto i miei coetanei, mi va di perdere le staffe.

Torniamo a mio padre che con quei soldi aveva pensato di farsi una casetta sul terreno di proprietà della moglie. Questa gli era costata esattamente il doppio di quella cifra, come del resto succede a tanti, anche se l’Onorevole Rabotti amico di tutti, perciò anche suo, lo aveva aiutato regalandogli le finestre e gli usci interni che erano avanzati al “Servizio Terremoto” che in quel periodo aveva rifatto le case crollate durante il sisma del 1920/22. Lui aveva dovuto ricorrere alle banche, ma come sapete bene queste, non regalano niente a nessuno.

Così era emigrato un’altra volta con la speranza di scrollarsi di dosso il grosso debito e ci riuscì, ma come vi ho già raccontato portandosi dietro quella brutta malattia che si chiama “malaria”.

Intanto la moglie, con questa bella nidiata, tirava avanti alla meno peggio; era una donna intelligente, laboriosa e orgogliosa, proveniva da una famiglia benestante, ma non ha mai chiesto niente a nessuno. Alla fine diede anche i suoi unici gioielli, gli orecchini, a Oliviero in cambio di un sacco di farina.

Il pane era indispensabile per i suoi figli, poi il latte e il formaggio glielo procuravano gli animali che teneva nella stalla e che curava con sapienza.

Dovete sapere però che da lassù qualcuno la guardava, lei la chiamava “Santa Provvidenza”. Difatti in quel periodo arrivarono i soldati che si preparavano per le manovre: issarono le tende a due passi da casa nostra, nei “Campdìn”, un terreno da pascolo che si trovava sopra al vecchio acquedotto, con pratine verdi e cespugli di noccioli e carpini, che ora è diventato un quartiere pieno di villette.

Torniamo ai soldati, un attendente venne a contattare mia madre per avere una stanza in affitto per tutto il periodo della loro permanenza dove avrebbe alloggiato il comando, perciò tre persone, un capitano, un tenente e un capitano medico.

Naturalmente mia madre era una donna sola con bambini, ancora giovane, ma non ci pensò su due volte: quei soldi le servivano, perciò accettò incurante di ciò che avrebbe pensato o detto la sua vicina di casa che non è mai stata tanto dolce nei suoi confronti.

Accettò però mettendo delle regole: non si sarebbero serviti della scala interna che portava nella stanza dove dormivano i bambini dove c’erano tre brande e un tavolo e che lei cedeva loro, ma sarebbero entrati esternamente dalla finestra servendosi di una scala di legno a pioli appoggiata al davanzale di questa. Vennero due soldati a rinforzare questa scala e ad allungarla in modo che la salita e la discesa fosse più comoda.

Lei poi aveva sprangato l’uscio che comunicava con la sua camera da letto che per quel periodo avrebbe accolto tutta la famiglia. Poi oltre ai comandanti e all’attendente non voleva vedere altra soldataglia vicino a casa.

Questo fu una vera manna per la mia famiglia, il capitano ordinò che tutte le sere fosse portato ai bambini il rancio che avanzava nella cucina da campo, quando il cuoco seppe questo cominciò a cucinarne in abbondanza, tanto che ne avanzava anche ai bambini, allora lo davano alla capra e alle pecore che ringraziavano dando loro molto latte, questo era apprezzato anche dai superiori che tutte le mattine ne trovavano una bottiglia appena munto sul davanzale delle loro discese.

Il capitano medico si prodigò per curare una piaga venuta ad un piede del più grande data dalle scarpe troppo strette e gliene fece avere un paio nuovo naturalmente da soldato, che gli durarono fino ai diciassette anni, quando si arruolò volontario in aeronautica. Poi dava un’occhiata agli occhi del terzo che erano sempre arrossati e gli fece avere delle bustine di acido borico per tenerglieli puliti e disinfettati e insegnò alla bambina ad usare le lacrime della vite appena potata per curarsi i porri che le deturpavano una mano.

Questo Medico Militare non era più molto giovane, ma non aveva famiglia e raccontava che questa decisione l’aveva scelta lui, perché il lavoro che faceva lo avrebbe tenuto sempre lontano dalla moglie e dai figli, perciò sarebbe stata solo una sofferenza per tutti, così mi raccontava mia madre quando ero piccola. Era anche una persona amante della lettura tanto che lei gli aveva prestato il suo preziosissimo libro i “Miserabili” e le poche volte che si incontravano nel cortile ne discutevano il contenuto.

Questi graduati adoravano il più piccolo della famiglia biondissimo, pacioccone e di bocca buona, lui prendeva ancora il latte dalla mamma, difatti ha smesso quando sono arrivata io ad usurpargli il posto e ancora adesso scherzando me lo rinfaccia. Dovete sapere che la mamma per togliergli il suo latte, per la notte preparava un angolo di un tovagliolo con arrotolato dentro una cucchiaiata di polenta, così quando lui cercava il titto gli infilava in bocca quel succhiotto e lui si riaddormentava subito. Questa era la miseria che girava nelle case della povera gente a quei tempi.

L’attendente aveva pulito perfettamente una di quelle scatole rotonde e grandi che contenevano lucido da scarpe, (lui tutte le mattine doveva lucidare gli stivali che i superiori lasciavano sul davanzale della finestra) e questa scatola divenne un portavivande e appena poteva la riempiva delle cose più buone che giravano nella   cucina da campo, le portava al piccolo che le apprezzava moltissimo e si fermava a giocare con lui.

Quella scatola girò per parecchi anni in casa mia; era diventata preziosa come solo certi ricordi lo sono, sul suo coperchio stava un’immagine, mi sembra ci fosse un omino con le scarpe che brillavano e sono sicura che in grande c’era scritto “Robbj”.

La mamma si ricordava di loro come di persone educatissime, affabili, molto gentili, che si interessavano all’andamento della sua famiglia, del lavoro nei campi che poi erano solo due, uno a Malpasso di proprietà della mamma e uno a Cà Giarino che era del papà, naturalmente ereditati dai loro genitori e che lei col figlio più grande cercava di mandare avanti dopo la partenza del marito e chiedevano anche se aveva notizie di lui.

Veramente per tutto il periodo della sua permanenza in quel continente, da lui non arrivò mai nessun rigo. Non chiedetemi il perché, io non lo so, come so che amava la sua famiglia come pochi al tempo di allora, mai un rimprovero, né alla moglie né ai figli, però bastava una sua occhiata, i suoi occhi diventavano di ghiaccio e noi rigavamo subito dritti. Quando tornò poi, fu una vera improvvisata e una grande festa.

La mamma quando voleva sapere qualcosa del marito, lo chiedeva all’onorevole e lui la tranquillizzava, ma forse anche lui non ne sapeva niente.

A inizio autunno i soldati tolsero le tende, e per la famiglia cominciava il periodo più difficile con l’arrivo dell’inverno, ma la mamma aveva i soldi dell’affitto che alla fine era raddoppiato forse questi signori li avevano aggiunti di tasca loro.

Se ne andarono e nessuno seppe più niente di loro, ma il loro ricordo rimase sempre nella nostra famiglia, tanto che l’ho sentito raccontare tante volte e ogni volta aggiungevano qualcosa e a me che ero arrivata dopo, sembrava di ascoltare una bella favola.

Elda Zannini

 

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