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I racconti dell’Elda 46 / (Benedetto)

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Questa fola non è mia, ma l’ha scritta il dott. Benedetto Valdesalici, che ricordo con grande affetto, lui è stato un grande sostenitore dei miei primi libri scritti in dialetto castelnovino con annessa traduzione in italiano, lui era un grande studioso dei nostri dialetti montanari e aveva grandi progetti per preservarli, non dovevano essere dimenticati.

Io l’ho recuperata su un libro scritto da Athos Nobili e voglio farvela conoscere.

Premetto che Benedetto, narratore e studioso montanaro, profondamente legato alla sua terra, rivisita in chiave storica-fantastica il mito di Campo Pianelli che si trova ai piedi della Pietra di Bismantova.

Questo viaggio immaginario inizia quando immense foreste di querce e carpini coprivano l’Appennino fino al Po e il piano padano, successivamente trasformato dalle varie bonifiche, non era altro che un’enorme palude, praticamente era tutto Po.

Proiettando il lettore nel dodicesimo o undicesimo secolo A.C, quando sul mediterraneo si muovevano imbarcazioni mediorientali greche e qui Valdesalici, commenta che la Sicilia e le sue isole, furono le prime a conoscere la rivoluzione neolitica, che passerà poi alle coste italiche, ma molto lentamente.

Questo racconto lo chiamerò, come del resto ha fatto lui:

“Miosotis e Piedi dolci”

Nato a Lipari da una famiglia di fabbri che si erano formati, per una quotidiana relazione con le attività vulcaniche, Miosotis era conosciuto come il “Signore del fuoco”. Lui paragonava il metallo a un animale che viveva dentro alla roccia o cadeva dal cielo in forma di meteorite. Conosceva la loro relazione con certe vegetazioni e sapeva riconoscerlo ed estrarlo come gli aveva insegnato suo padre, che a sua volta l’aveva appreso dal nonno, che proveniva da Catal Huyuk in Anatolia.

Come voleva la leggenda dei cacciatori di metallo, ogni megalito cova un embrione e a Miosotis era stata affidata la missione di scovare il primo megalito.

Era partito per mare e dopo un viaggio durato tre lune, aveva raggiunto il Magra: qui aveva affrontato la lunga via del monte per raggiungere il passo “oggi chiamato Cerreto” dove era certo che avrebbe trovato la “tenda” dei cacciatori e lì avrebbe trovato ristoro. Poi avrebbe dovuto discendere a valle fra querce e carpini nella direzione di quell’Ara naturale su cui si narrava fosse costruita una terramare, dove vivevano circa cento persone e chissà, forse lo aspettavano.

La primavera era ormai finita, il fabbro avanzava lento appoggiandosi a un bastone sul cui manico era saldato un occhio di “ossidiana”, giocherellava col suo cannello di rame che lo aveva aiutato parecchie volte ad accendere il fuoco per riscaldarsi durante il freddo notturno. Portava con se come dono e come lasciapassare un cristallo di rocca e alcuni microliti assieme a una malachite lavica, cuciti nell’orlo del lungo vestito di lino fermato su una spalla da una fibula grossolana e la caviglia era ornata da un bracciale di rame.

Quando giunse in vista della Pietra rischiò di non riconoscerla, il megalito si era come occultato, oscurato, lo scontro interiore del fabbro tra la religione della Grande Madre dell’area mediterranea e il Megalitismo nordico si attuò davanti ai suoi occhi, lasciandolo confuso, tramortito.

Fu allora che si accorse di un ragazzino che procedeva verso di lui con qualche difficoltà sui ciottoli del sentiero:

“Piedi dolci?”

Lo apostrofò Miosotis.

Il ragazzino annuì e il fabbro estrasse due scarpe di riserva dalla sua sacca e gliele allungò. Ci vuole così poco a un vecchio e a un ragazzino per legarsi, Piedi dolci diventò apprendista, discepolo, soffiatore, operaio dei mantici e guida del grande maestro.

Accompagnò il fabbro per un erto sentiero che saliva alla Pietra, vicino a un piccolo rio e ad enormi sassi ricoperti di muschio, incontrò la prima tribù che apparteneva al clan dei cento.

Gli fu offerto un bicchiere di vino e del vischio bianco e lui offrì loro il suo cristallo di rocca dimostrando la sua provenienza e si pose alla ricerca del metallo che lo interessava.

Quelle genti coltivavano il bosco “maritando la vite con gli alberi”, come ebbe a dire Plinio molto tempo dopo e già avevano imparato a fare l’innesto, poi conciavano pelli, filavano lana e la tessevano in telai verticali.

Fuse la malachite dimostrando che il metallo era vivo, si muoveva e prendeva forma nello stampo di arenaria e fece anche un piccolo anello di rame per Piedi dolci, che se lo legò al collo con un laccio di pelle, così Miosotis conquistò la fiducia di quel popolo.

Un giorno lo accompagnarono, passando dietro a un grosso sasso a forma di fungo, “nell’orto del mandorlo” dove, lì dietro al grande Sasso, si apriva una fenditura ed entrarono. Miosotis accese il suo cannello e le pareti della grotta brillarono di una vivida luce azzurra.

Lì il fabbro cominciò a pensare che unendo due metalli si poteva arrivare a una vera e propria lega. Per molte lune cercarono pietre di cielo sul greto del fiume guidati dall’occhio esperto di Miosotis, ne riempirono ceste che trasportarono nell’orto dove era stata costruita una grande forgia e dentro questa furono messi tutti gli aeroliti con tutto il rame che lui si era portato e anche Piedi dolci sacrificò il suo anello.

Poi costruirono un forno e scolpirono sull’arenaria i calchi dei vari strumenti da lavoro e dei monili che avrebbero ornato le loro donne montanare, mentre Piedi dolci saltava sui manici ricoperti di pelle di lepre dei mantici con l’agilità di un capretto.

Tralascio l’ultima parte per me troppo forte e di questo chiedo scusa a Benedetto.

La forgia non fu mai più ritrovata per i molti crolli e per la frana del '600 che seppellì e chiuse definitivamente la caverna del metallo. Non ne è rimasto che il toponimo “Orto del mandorlo” e nel campo Pianelli come descrive il Cavazzoni aiutante del Chierici, durante lo scavo del 1882 trovarono due ossari biconici con maniglia, tre saltaleoni di filo di bronzo a sezione triangolare, un cannello in lamina, una perlina in pasta blu a sezione circolare, una rotella in osso con foro centrale, cinque anelli a sottile filo di bronzo, due armille spiraliforme, un pendaglio in bronzo, una fibula ad arco semplice detta a Certosa.

Aggiungo io (per finire la bellissima fola). Erano questi i resti e il corredo di Miosotis e del suo aiutante Piedi dolci?

Grazie Benedetto per la bella e istruttiva storia, scusa se l’ho tagliuzzata un po’ qua e là per adattarla al mio modo di scrivere, ti abbraccio.

Elda Zannini.