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Elda rimembri ancora… (3^ puntata)

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Siamo ancora nel periodo natalizio e finalmente è arrivato il vaccino “anticovid” anche in Italia.

Senz’altro non sarà una passeggiata, ma prima o poi farà il suo dovere anche su di noi e questo lo speriamo e ce lo auguriamo tutti di cuore.

Intanto io continuo a rispondere alle richieste dei bambini intelligenti e curiosi che vogliono sapere e questa è una delle loro tante domande:

“Voi ce l’avevate la doccia e il bagno?”

Già allora vi risposi:

“No noi avevamo solo “al cagadȇur”

Quanto vi ha fatto ridere questa mia risposta in dialetto, ridevate, ma avevate capito perfettamente il significato della parola, qualcuno l’aveva già sentita dai suoi nonni.

Questa volta vi voglio parlare dell’acqua: allora non esisteva la lavatrice, il bucato veniva fatto a mano e ci volevano due giorni. Le lenzuola, le federe e gli asciugamani venivano messe in bagno in un mastello di legno pieno di acqua calda e venivano “sgrossati” con sapone, spazzola di saggina e “olio di gomito”. Poi venivano messi ben piegati in un altro mastello, questo era posto su un treppiedi e aveva molto in basso una specie di piccolo rubinetto. Poi tutta la biancheria veniva coperta con un grande telo bigio e rattoppato, al “sendrer”, contenitore di cenere. Difatti su questo venivano messe “gavaladi” (palettate) di cenere bianca, senza carboncini, poi su tutto questo venivano gettate “bȇurghe” (pentoloni) di acqua bollente. Questa filtrava piano piano su tutto il bucato e goccia, goccia usciva dal rubinettino e veniva raccolta con un secchio “l’alsèa” (la lisciva). Questa era sgrassante e si usava per lavare i colorati o i pavimenti; l’ultima poi, che era la più pulita, la mamma la usava per lavare i capelli a tutti che diventavano sempre più biondi e crespi con riflessi ramati. Infine tutto il bucato veniva risciacquato sotto il fontanone di fianco a casa, anche se c’era la neve e i candelotti di ghiaccio attaccati ai rami della siepe.

Mi ricordo ancora la carenza d’acqua in estate. Il nostro pozzo di acqua potabile in quel periodo si prosciugava, allora andavamo a prenderla alle varie sorgenti che si trovavano sotto la Pietra. Allora ce n’erano tante e pensavamo che le donne di Castelnovo erano più fortunate, avevano le famose fontane di ghisa rosa ad ogni angolo di strada a due passi da casa.

La mamma andava col famoso “basle”, questo era un lungo bastone appena incurvato, liscio, con alle estremità intagliate nel legno due tacche profonde, dove venivano appesi i due secchi i “caldarìn” di alluminio col manico di ferro e io la seguivo con un secchio pieno a metà, avevo sei o sette anni, ma dovevo dare il mio contributo.

Il “basle” poi era faticoso e ci voleva un gioco non indifferente di energia ed equilibrio per issarlo su di una spalla e portarlo a casa senza rovesciarne una goccia.

Questi secchi venivano appesi in cucina a due ganci situati sopra al lavandino, mentre sul piano di questo veniva messo il secchio di rame con dentro la famosa “mescla” mescola che ognuno usava per dissetarsi immergendola dentro al secchio, era messo in basso così ci arrivavano anche i bambini senza stare sempre a chiedere.

Per lavarci e lavare i panni usavamo l’acqua del “Rio Ferlara” che passava vicino a casa. Quest’acqua non era potabile, perché correva a cielo aperto e durante il suo tragitto riceveva l’impeto degli acquazzoni che vi portavano dentro ogni sorta di detriti e vi arrivavano anche gli scoli dei campi che allora venivano curati dai contadini in modo intelligente.

In ogni campo venivano scavati dei canaletti, che portavano via la troppa acqua che con la sua violenza avrebbe estirpato le piantine del grano appena nate, oppure addirittura i semi appena messi e in quel modo evitavano anche i movimenti franosi.

Tutti questi canaletti convogliavano nei torrentelli che allora erano numerosi e scendevano dalla Pietra per poi buttarsi nel Dorgola. Ora queste sorgenti naturali sono quasi scomparse, con l’arrivo dei grossi trattori che hanno scavato, rivoltato e schiacciato il terreno si sono perse e sparse sotto terra dando vita alle frane (naturalmente questo è un mio concetto personale) come i campi che si stanno restringendo dal momento che nessuno si cura di pulire le siepi di confine e il trattore gira sempre in tondo e ogni anno si mangia oltre mezzo metro di terra in più.

Ora però vi voglio raccontare dei nostri servizi igienici, del famoso “cagadùr”. Era costruito sul Rio Ferlara al di sotto della casa e della strada: il telaio era in legno, le pareti invece erano fatte coi “canòcc” che erano i gamboni di frumentone tutti ravvicinati, la base era costruita con quattro assi che formavano un buco nel mezzo, da lì scorgevi il torrente che passava sotto in discesa e gorgogliando faceva piazza pulita, e noi bambini dicevamo che andavamo a imbarcare.

Questo gabinetto lo aveva costruito mio fratello Nello, che allora aveva circa quindici anni, lui ha avuto sempre la passione della costruzione ed è sempre stato presente nelle varie modifiche che negli anni hanno cambiato l’aspetto della nostra vecchia casa. Non è mai stata chiamata nessuna ditta, le cose erano fatte in famiglia e lui davanti a tutti, anche se poi nella vita ha dovuto adattarsi a fare un altro lavoro, “l’infermiere”. Allora il lavoro fisso era il sogno di tutti: pioveva, nevicava o tirava vento, a fine mese lo stipendio c’era sempre. Ricordo con un briciolo di nostalgia quando portavamo i nostri bambini al fiume e lui ancora si divertiva a costruire dighe e muretti vicino alla riva.

Adesso torniamo al nostro servizio igienico: la porta non era altro che un “cardel” (cancello) di gamboni messi un po’ radi, ma non c’era serratura, solo un cartello attaccato a una corda con scritto da una parte “occupato” e dall’altra “libero”; c’era solo da girarlo all’entrata e all’uscita, non esisteva la carta igienica, ma pezzi di carta da giornale o fogli di qualche vecchio libro, infilati in un chiodo.

La pulizia personale si faceva giornalmente in un catino, prima la parte superiore poi quella inferiore sempre con la stessa acqua, poi ogni tanto il bagno in mezza tinozza o un mastellino di legno. Lì potevi entrarci coi piedi, ma non potevi sederti, ti lavavi con poca acqua, perché dovevi portarla in casa coi secchi (pensare che oggi sprechiamo dieci litri d’acqua solo per lavarci i denti) poi dovevi scaldarla sulla cucina economica. Questa era munita di una vaschetta di rame che conteneva acqua tiepida, dovete sapere che questa stufa era stata comprata già usata molti anni prima, era molto grande, ma non funzionava a meraviglia. L’acqua non scaldava e il forno non cuoceva, lo usavamo per scaldarci i piedi, quando rientravamo fradici da scuola. Il sapone era scuro, in tempo di guerra era fatto in casa  con le cotiche del maiale e voi direte “ma che schifo”.

Io personalmente alle volte penso che tutto ciò ci abbia fornito un bel po’ di anticorpi.

      Elda Zannini   

2 COMMENTS

  1. Questa realistica finestra sul passato, aperta dall’Autrice, riporta alla mia mente quando la zia mi mandava a “bruscare” l’orto, per significare che occorreva usare il minimo necessario dell’acqua disponibile, vista la sua scarsità e il fatto che bisognava rifornirsene alla “fontana”, ossia al pozzo comune dove si approvvigionavano tutto l’anno le famiglie della borgata che non ne possedevano uno proprio,.

    Per il trasporto verso casa, con un tragitto talora abbastanza lungo e faticoso, si usava giustappunto il “famoso basle”, oppure la botte trainata da vacche o buoi per l’acqua destinata ad abbeverare il bestiame (c’era chi aveva una “fossa” nei pressi di casa, dove raccogliere l’acqua piovana, ma era in ogni caso una riserva piuttosto limitata, e che per solito si esauriva con le prime calure dell’estate).

    Io credo che qualcuno di noi, anche in modo inconsapevole, si sia portato dietro quei ricordi – o diretti o semmai raccontati dai rispettivi famigliari – quando oggi si discute sul come innaffiare l’orto, e c’è chi teorizza che si può risparmiare acqua, riducendone notevolmente l’impiego, o facendone addirittura a meno, se si ricorre ad una periodica “zappatura” intorno a quegli ortaggi la cui natura permette di farlo.

    P.B. 04.01.2021

    • Firma - P.B.
  2. Come sempre, complimenti ad Elda, così brava a farci ritornare bambini: rivivendo quei momenti, provo solo sensazioni positive e, come per incanto, dimentico le difficoltà oggettive, che spesso ci facevano compagnia, nella vita di tutti i giorni.
    Beata gioventù..
    Ivano Pioppi

    • Firma - Ivano Pioppi