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77 anni fa il terribile eccidio di Roncroffio. Clara Bussi disse: “La calma precede l’uragano. I tedeschi ci lasciarono la morte”

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Roncroffio 2000, al centro Clara Bussi con figli e nipoti delle famiglie Bussi, Parmiggiani, Bonferroni, Poncemi, Piacentini, Rotteglia.
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Riproponiamo per le generazioni più giovani, che magari non sanno quanto accadde, la ricostruzione di quanto accaduto a fine settembre del 1944. Lo facciamo con documenti di Istoreco, Anpi e con le parole di una montanara coraggiosa: Clara Bussi Borghini.

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Tra il 20 e il 30 settembre 1944 una fitta serie di scontri armati si svilupparono lungo la strada statale 63, tra reparti tedeschi e gruppi partigiani, da Casina a Collagna, per il dominio della importante arteria.
Il 28 i tedeschi effettuarono una nuova e più forte puntata nella zona Villa Berza – Roncroffio. Entrarono in combattimento a varie riprese i distaccamenti Antifascista, Casini e Simonazzi, i quali, "dopo lunghe ore di lotta" come scrive Guerrino Franzini, "si ritirarono dalle loro postazioni non potendo competere contro forze superiori appoggiate da mortai".
Tra il 29 e il 30 truppe germaniche compirono una rappresaglia a Roncroffio di Felina, uccidendo quattro civili e incendiando alcune case dopo averle saccheggiate.
Gli uccisi furono Luigi Borghini, 81 anni, il cav. Giuseppe Bussi, 49 anni - direttore del Bsgsp di Castelnovo ne' Monti ndr -, il tenente Gino Borrini (nipote), 29 anni, Vittorio Manfredi, commerciante, 49 anni.
Di quella tragica giornata ci ha lasciato intensa, sofferta testimonianza la maestra Clara Bussi Borghini, alla quale furono nella circostanza atrocemente strappati tre famigliari: il padre Luigi, il marito Giuseppe e il nipote Gino. Poetessa e scrittrice, la signora Clara, passò il resto della sua vita  ad occuparsi dei figli orfani di padre e a macerarsi nel ricordo del tragico evento che l’aveva per sempre segnata.
Lo fece anche con una raccolta di poesie ("Basta una vita", 1977) e in una serie di prose raccolte nel volume “Linea gotica sull’Appennino”, AGE, 1995.
"Penso che lo scrivere - leggiamo nella sua premessa al libro - serva a chiarire e, in qualche modo a rasserenare la mia situazione psicologica, a riavvicinarmi ai miei morti e alla loro tragica fine mai adeguatamente sofferta".
Nel libro di Clara Bussi un capitolo reca il titolo “San Michele d’autunno. L’uragano”. Vi rievoca la giornata del 29 settembre 1944.
Ne riportiamo di seguito alcuni passi.
"Tutt’intorno si sentiva sparare: i tedeschi seguivano i partigiani in fuga sul monte Faiedolo. Nella stanza non ci sentivamo sicuri, anche avendo chiuse tutte le imposte, perciò eravamo scesi nella cantina grande, che dà sul retro della casa. Per far stare buoni i bambini, erano venuti anche i cuginetti, mi ero messa a leggere un libro ma non riuscivo, ogni momento mi interrompevo. La Teresina Giambisi si lamentava in un angolo della cantina, io la supplicavo di non spaventare i bambini, intanto tendevo l’orecchio per capire cosa succedeva di là. Tutto avvenne in un’atmosfera greve, dominata dalla sensazione di qualcosa di imminente, di terribile! L’uragano non si abbatte d’un tratto sulla terra. Lo precede un certo periodo di tempo che può sembrare di calma, di stasi, intanto nel cielo le nubi si inseguono, si accumulano, si scagliano l’una l’altra messaggi di fuoco, poi così, in quel momento di attesa, gravava su di noi l’incubo dell’imminente tragedia che stava per sconvolgere tutto il nostro mondo. Sentendo delle voci concitate, mi sono precipitata nel tinello: mio Dio! Intanto, erano apparsi sulla porta dei tedeschi e altri ne venivano avanti. Danno un’occhiata intorno (sulla tavola erano ammucchiati i tascapani, le coperte, il binocolo). Poi spingono gli uomini verso la cantina, e ancora verso la porta grande che sta sul retro, che intanto s'era aperta ed erano apparsi tanti tedeschi.
La casa era circondata, non c’era scampo, pensavo che potessero portarli via. Peppino si affrettava verso la porta e intanto prima di uscire, mettendo mano alla tasca interna della giacca gridava: Documenti! Documenti!. Ma non l’ascoltavano, uno spintone e fuori! Così Vittorio, così Gino.
L’ultimo mio padre, così vecchio, ma non pareva. A metà cantina l'avevano incalzato urlando, "Vengo! Vengo!" aveva detto lui, arrancando, strascicando il passo. Poi la porta fu chiusa. Attimi indescrivibili! Forse li interrogheranno, forse li porteranno al comando. Poi una prima detonazione, una seconda raffica, una terza … tante! Antonietta corre alla porta urlando: "Gino si lamenta, Gino si lamenta!" Tenta di aprire, la spingono dentro a forza, come una pazza va su e giù per la cantina gridando: "Gino! Gino!". Altri spari poi più nulla. La strage é compiuta.
Ci dibattiamo nella disperazione, il terrore paralizza ogni nostro gesto. Non mi riesce di ricordare cosa accadde negli attimi che seguirono. Mi rivedo a sedere sopra una sedia nel tinello, Enrico in braccio, le bambine intorno. Intanto i tedeschi girano per casa, cercano delle scarpe, degli stivali (hanno avuto il coraggio di recuperare anche quelli dei nostri morti!) non so cos’altro. Liliana è in piedi dietro le mie spalle, mi abbraccia piangendo: 'Ci siamo noi mamma, coraggio!'.
Poi i tedeschi se ne vanno. Con noi restano la morte, il dolore e i corpi dei nostri morti distesi sulla terra".
Comunicazioni Istoreco | Lug 21, 2017 | NOTIZIARIO ANPI – n. 7 – 2004

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