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“Le lodi verso Betlemme del profeta Michea” introducono alla riflessione domenicale di don Paul Poku

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don Paul Poku

La prima lettura di questa quarta domenica d’Avvento vede le lodi del profeta Michea rivolte verso un insignificante paese, allora sotto il dominio assiro: Betlemme. Esso è stato prescelto per essere il luogo in cui nascerà un signore potente, che diventerà il pastore del suo popolo. Non è superfluo notare come l’etimo del nome di questo paesino significhi “casa del pane”: in esso infatti verrà alla luce il Pane di vita per l’umanità intera.
Se la prima lettura prefigura la venuta di Gesù, la seconda lettura ci aiuta a capirne il senso teologico: egli è venuto ad abolire i sacrifici della Legge antica per costruire una nuova alleanza tramite il suo sangue, offerto secondo la volontà del Padre.
Il brano del vangelo segue il momento dell’Annunciazione, con cui compone un dittico. Mentre quello presentava dei verbi al futuro, questo presenta dei verbi al passato, segno che l’evento dell’Incarnazione è già avvenuto e, tramite la testimonianza di Elisabetta, sta diventando pubblico. «Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa» per trovare la cugina incinta. Già il fatto che una ragazzina senta il bisogno di andare ad aiutare una parente più vecchia e sicuramente più esperta di lei nelle gravidanze è un segno di grande carità da parte sua. Ma la fretta con cui si compie il viaggio suggerisce anche una gioia dell’animo che vuole trovare espressione. Appena Elisabetta udì il suo saluto, «il bambino sussultò nel suo grembo»: non sappiamo quali parole abbia pronunciato la futura Madre del Cristo, ma è evidente che esse hanno la capacità di portare gioia alla casa di Zaccaria, finora privata della grazia di un figlio. «Elisabetta fu colmata di Spirito Santo», come se dovesse proclamare un grande annuncio, e rivolgendosi alla cugina chiamandola “benedetta” (cfr. Gdt 13, 18) le chiese: «A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?». Queste parole creano un parallelismo con l’episodio dell’Antico Testamento in cui il re Davide stava ricevendo nella sua città l’arca dell’Alleanza (cfr. 2Sam 8, 9): come l’arca custodiva la parola di Dio racchiusa nei dieci comandamenti, così Maria portava nel suo grembo il Verbo stesso di Dio; inoltre Maria si trattenne presso Elisabetta tre mesi, proprio come l’Arca restò tre mesi a casa di Gat per ordine di Davide (cfr. 2Sam 6, 11). Molto bello è anche il titolo con cui Elisabetta appella la giovane cugina (“la madre del mio Signore”), che rende Elisabetta la prefigurazione della comunità dei credenti. Elisabetta aggiunse anche: «beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto», parole che possono riferirsi sia a Maria, che ha accettato il progetto di Dio per la sua vita, sia alla stessa Elisabetta, che a differenza del marito aveva creduto alla promessa divina di un figlio, frutto della sua fede.
La maternità di Gesù appartiene solo a Maria; eppure in lei, debole ma piena di fede nel Signore, anche noi possiamo riconoscerci credenti e discepoli del grande mistero della venuta di Cristo nella nostra vita.
Buona domenica