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Mons. Giovanni Costi ricorda don Pasquino Borghi

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Domenica 30 gennaio è stato ricordato nella cattedrale di Reggio Emilia il 78° anniversario della fucilazione della medaglia d’oro don Pasquino Borghi, parroco di Tapignola, avvenuta al poligono di tiro di Reggio Emilia e voluta dal sanguinario regime fascista.

Mons. Giovanni Costi

Il bollettino diocesano n. 2 del 1944 pubblicava il dispositivo della sentenza relativo alle condanne capitali pronunziate dal Tribunale Speciale Straordinario il 29 gennaio 1944. Don Borghi, parroco di Tapignola, era espressamente imputato anche “di favoreggiamento e ospitalità ad una banda armata ribelle e a prigionieri nemici che egli sapeva essere autori di omicidio e di tentato omicidio nelle persone di militi e carabinieri”. Il tribunale, sentito il pubblico accusatore che aveva chiesto la pena di morte per don Borghi e gli altri otto imputati, “rei confessi, li condannava a morte mediante fucilazione alla schiena, da eseguirsi immediatamente”.

Alla concelebrazione eucaristica, presieduta dal vicario generale mons. Alberto Nicelli, hanno presenziato autorità cittadine, rappresentanze di associazioni partigiane, i gonfaloni della Provincia e di comuni legati a don Pasquino, assieme a numerosi fedeli.

L’omelia commemorativa è stata pronunciata da mons. Giovanni Costi, responsabile del Centro Diocesano di Studi Storici.

Don Pasquino Borghi è stato educato alla fede nella sua famiglia, nei seminari della diocesi reggiana (Marola e Reggio E.) e nell’istituto dei comboniani a Verona.

Fare il prete è votarsi liberamente a morire per non tacere, non camuffare, non vendere la verità; consacrarsi ad essere maledetti dopo aver seminato soltanto carità e grazia per ogni anima senza distinzione di età, di colore, di divisa, perché per ognuna il Signore è morto. In questo senso il campo di apostolato di ogni prete è il mondo e non esiste alcuna differenza essenziale tra la vocazione del sacerdote e quella del missionario.

Reso famoso dalla sua vicenda resistenziale (medaglia d’oro), nell’aiuto al partigianato, egli rivela la sua autentica vocazione missionaria, interrotta in Africa per gravi motivi di salute, ma ripresa e reinterpretata nel ministero sacerdotale a Cànolo e a Tapignola.

L’ultima tappa missionaria di don Pasquino Borghi si svolge sull’appennino reggiano, nel comune di Villa Minozzo, nella parrocchia di Santo Stefano in Tapignola (ottobre 1943-gennaio 1944).

Il servizio parrocchiale di don Pasquino, in montagna, coincide con il periodo cruciale della Resistenza e del partigianato contro i tedeschi e i repubblichini della Repubblica Sociale di Salò, con un primo tragico epilogo di tre sacerdoti: don Pasquino Borghi, parroco da pochi mesi di Tapignola, fucilato il 30 gennaio 1944 dai fascisti; don Battista Pigozzi, parroco di Cervarolo, ucciso dai tedeschi, insieme a 23 suoi parrocchiani, il 20 marzo 1944; don Giuseppe Donadelli, parroco di Vallisnera, ucciso, insieme a due suoi giovani parrocchiani, il 2 luglio 1944.

In tutti e tre i casi c’è il rifiuto, da parte delle vittime, di farsi delatori di parrocchiani o conoscenti, implicati nella Resistenza locale.

Dinanzi alla morte dei suoi “carissimi sacerdoti”, il vescovo Eduardo Brettoni scrive: «Povero don Pasquino! Non mi aveva dato mai dispiaceri, altro che con la sua troppa generosità di cuore». In un altro suo scritto il vescovo afferma, senza timori reverenziali o remore verso le autorità del tempo: «Nulla posso né intendo dire quanto alle imputazioni e alla condanna: sono i compiti riservati al giudizio equanime della storia. Ma una cosa sono in dovere di dire apertamente, come è la verità e come m’impone la coscienza del mio ufficio di vescovo: la condotta del sacerdote don Pasquino Borghi, sia quale cappellano curato, sia quale parroco, non ha patito eccezioni, e che per zelo generoso e desiderio di fare del bene senza badare a sacrifizi, come anche per integrità di vita sacerdotale, io non ho avuto se non a lodarmi di lui».

Tomba di don Pasquino Borghi

A partire dalla morte di don Pasquino Borghi (gennaio 1944) a quella di don Umberto Pessina (giugno 1946), nella lotta di Liberazione, la funzione delle canoniche, soprattutto di montagna, costituiscono luoghi di appoggio, di pronto soccorso e difesa.

In conformità alle configurazioni del territorio, alle condizioni economiche delle popolazioni e alle particolari culture politiche e sociali, la montagna vive e interpreta operazioni tipiche e articolate nella lotta della Resistenza. La diocesi, i parroci, singoli sacerdoti e laici cristiani, spesso con una geniale autonomia, svolgono un indispensabile ruolo di coordinamento, in uno spirito di correttezza e sacrificio cristiano.

Resta esempio straordinario di riconciliazione e di perdono quello della madre di don Pasquino, Orsola Del Rio: «Le cronache riferirono che ci fu nel plotone di esecuzione chi si rifiutò di aprire il fuoco contro don Pasquino Borghi (si legga La Penna del 24 agosto 1945) il quale – come dichiarò poi il dottor Pasquale Marconi – teneva al collo la corona del santo rosario. Fu assodato inoltre che un disgraziato ragazzo quindicenne, certo Sergio P. nativo di Roma, ingaggiato per la delittuosa bisogna [cioè la fucilazione, ndr], proprio sul corpo del povero prete ucciso fu costretto a scaricare l’arma per allenamento (Reggio Democratica,5 marzo 1946)." Quando, raggiunto dalla giustizia, il giovane fu processato dalla Corte di Assise di Reggio Emilia, la mamma umile e grande del sacerdote brutalmente assassinato, fece pervenire al Presidente della Corte la seguente lettera che salvò il disgraziato irresponsabile da una dura condanna e gli ottenne l’assoluzione: “Bibbiano, 4 gennaio 1946. Al Presidente della Corte di Assise Straordinaria di Reggio Emilia. In nome di Cristo e della Vergine Santissima, sull’esempio eroico dell’amato figlio don Pasquino ed in sua memoria, per la pacificazione degli animi da lui auspicata con il sacrificio della propria vita, perdono cristianamente all’esecutore materiale della capitale iniqua sentenza, il nominato Sergio P. In fede. Firmato: Del Rio Orsola ved. Borghi”.

Condannato dalla Corte di Assise a 10 anni e 8 mesi di carcere fu anche un altro ragazzo, tale Gian Mattia S. che a sedici anni e qualche mese aveva fatto parte del plotone di esecuzione di nove condanne a morte fra cui quella di don Pasquino Borghi. Quando la Corte di Cassazione effettuò la revisione del processo nel maggio del 1947, un analogo intervento della signora Orsola Del Rio […] ottenne pure a questo condannato, figlio unico di povera vedova, la restituzione in libertà alla madre».

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