Home Cultura “Le cose più belle accadono per caso”: Silvia Tedeschi racconta il suo...

“Le cose più belle accadono per caso”: Silvia Tedeschi racconta il suo libro

82
0

Con la sua raccolta di racconti “Una manciata di mattoni rossi e pallide parole”, Silvia Tedeschi è la vincitrice della quinta edizione del concorso nazionale Silvio D’Arzo. Con esaurienti e dettagliate risposte, la professoressa racconta come la scrittura va al passo con la sua vita e le soddisfazioni e i timori derivati dal pubblicare queste storie, che per dodici anni sono rimaste, inedite, nel cassetto.

Com’è la sua vita in rapporto alla scrittura?
Nel risponderti faccio una similitudine con la storia finale del mio libro: quella in cui Silvia, una professoressa, mia omonima, sale fino alla casa cantoniera di Ermete per ammansire la necessità di scrivere che sente. E, alla fine, inizia a scrivere la storia di Evelina, “o come dicevan tutti Lina”: è una storia che parla d’infanzia e della nascita della scrittura, dei primi anni di vita di una bambina che ha la fortuna di avere una nonna. Questa nonna, cantante lirica di Novellara, non ha grado d’istruzione più alto della quinta elementare. Vorrebbe scrivere la sua storia, sente il bisogno di raccontare sé stessa e ciò che le è successo nella vita, eppure non ha altro mezzo che l’oralità. La scrittura è un bisogno, una necessità che si sente. Le storie che senti dentro sono come un cicaleccio che si fa sentire sempre più forte, sono i personaggi che vengono a bussare alla tua porta, raccontandoti la loro storia e chiedendoti di scriverla.

Da quando ha vinto il concorso, la sua relazione con la scrittura è cambiata? I sentimenti di soddisfazione si sono affiancati ad altri più nostalgici?
Questa raccolta di racconti è la prima, tra le storie che ho scritto, ad uscire dal cassetto. Quando ho saputo di aver vinto, ho quindi pensato che fosse una sfacciata fortuna del principiante. La soddisfazione che provo adesso che ho vinto il concorso è tanta, ma lascia comunque spazio a un po’ di timore. Ho sempre avuto un po’ di apprensione nel rendere pubbliche le mie opere: le sento come delle figlie, e lasciarle libere di circolare per il mondo, senza che io possa più proteggerle dalle critiche o dai pericoli con cui dovranno misurarsi mi frenava. Ho paura che possano essere banalizzate o, peggio, fraintese.
La vittoria di un concorso letterario, alle volte, ti fa capire che il tuo scritto potrebbe non piacere a un pubblico più vasto, che il libro facilmente non arriverà a svettare in cima alle classifiche dei romanzi più venduti. Ci sono scrittori molto prolifici, che arrivano a pubblicare un libro all’anno. E, al tempo stesso, la scrittura oggi è piuttosto inflazionata: sono pochi i lettori e davvero tanti quelli che si mettono a scrivere. Penso anche a sportivi, persone di spettacolo… Eppure, se non ti occupi delle storie, queste scivolano via. Se restano solo nell’oralità, nel giro di due generazioni sono destinate a sparire. Quella che sento, quindi, è come una responsabilità di metterle nero su bianco per farle durare nel tempo.
Nei miei racconti, narro storie di paese. Maneggio storie d’altri che, quindi, bisogna trattare con cura e rispetto.
Il giorno in cui ho saputo della vittoria, nel tornare a casa, si era alzato un forte vento. Ho immaginato che fossero i miei antenati, le voci di persone che avevano abitato quello stesso piccolo paese decenni e secoli prima, e che stessero commentando la mia vittoria.

Com’è nata questa passione, questo affetto per Silvio D’Arzo?
Non lo conobbi a scuola, né in Università. Fu una conoscenza un po’ tardiva: era la fine degli anni ‘90 e io ero già ai miei primi anni d’insegnamento. Andai al Teatro Cavallerizza insieme a mia madre, a sentire la lettura integrale, da parte di un altro innamorato di D’Arzo, di “Casa d’altri”, intervallata da pezzi musicali d’archi. Quando uscii, ne ero rimasta folgorata. Questo incontro tardivo, tutto sommato, non è stato un male. Durante il periodo delle scuole medie, ricordo che lessi i “Promessi sposi” integralmente, per conto mio. Eppure, al tempo stesso, per comprendere appieno alcune opere e godersele al meglio, è bene essere un po’ più adulti e maturi, avere più esperienza.
Un’altra cosa che ho apprezzato enormemente è stata la lettura collettiva che è stata fatta, di alcuni estratti dei miei racconti, a un incontro culturale a Carpineti, a metà luglio. Adesso, la lettura è molto personale, molto solitaria. Invece, me ne rendo conto anche da insegnante, è meraviglioso leggere insieme; così come lo è anche l’intreccio di più forme d’arte, come gli intermezzi musicali tra una lettura e l’altra e, in aggiunta, anche l’integrazione dell’arte pittorica.
In quanto professoressa, apprezzo molto anche i laboratori di scrittura creativa, nei quali gruppi di studenti si mettono in gioco per scrivere le loro storie. Le loro energie e fantasie sono più fresche, entrare nei mondi creati da loro è un privilegio. Anche i temi sono un piacere da leggere, benché più vincolati dalla traccia.
Eppure, nelle mie storie, le parole diventano case. Tante volte, le cose più belle accadono per caso o, addirittura, per incidente. Ed è per risarcire a ciò che la vita sottrae che si scrive davvero.

 

Silvia Miselli