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Elda racconta: novembre

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Anche ottobre ci ha detto addio, ed ecco che ci troviamo già in novembre. Questo mese mi ricorda quando ancora bambina passavo delle giornate intere nel cimitero, senz’altro voi direte:
“Ma come! Ma povera bambina !!!...”

Ebbene vi sbagliate di grosso, io non mi sentivo affatto così, sarà stato perché la mia casa si trovava nelle vicinanze, sarà perché per ben sedici anni mio padre ne era stato “al Bechin” il custode, sarà anche stato perché in casa mia si costruivano e vendevano casse funebri, ma io nel cimitero mi ci sono trovata sempre ottimamente.

Era il mio giardino, in questo mese poi straripava di colori e di persone che venivano a rendere omaggio ai loro cari che li avevano preceduti, arrivavano con ceste e bracciate di crisantemi, aggiustavano le tombe e i sentieri che le univano.

Entravo dal grande cancello che guardava la Pieve e mi trovavo subito su questo viale inghiaiato di fresco che portava direttamente alla Cappella, però circa a metà apriva le sue lunghe braccia così si presentava come una grande croce che guardava il cielo. Sentivo le mie scarpe che sfioravano la ghiaia che gemeva sotto i miei piedi, il cimitero per me era vivo.

Cominciavo a girare in quei sentieri puliti di fresco, guardavo le fotografie sulle lapidi, leggevo le dediche, mi perdevo molto nel “campetto” dei bambini, allora ne morivano tanti, mi soffermavo davanti a questi piccoli monumenti sormontati da angioletti in varie pose e lasciavo loro una carezza.

Poi davanti a quella bimba di Marola, la sua mamma per la festa dei morti metteva sulla sua piccola tomba, una grande bambola vestita di rosa.

Poi c’erano tutte in fila e sembrava un posto riservato, anche le tombe con quelle croci così diverse dalle nostre, erano quelle dei soldati tedeschi che avevano perso la vita durante l’ultimo stupido conflitto. Nessuno aveva pietà di queste tombe, neanche un umile fiore, lontani dalla loro terra, con le madri, le mogli e i figli lasciati a piangere là lontano. Allora io guardandomi attorno furtivamente, rubavo qualche fiore a chi ne aveva tanti, loro dalla lapide mi guardavano sorridendo, o almeno questo sembrava a me, poi li distribuivo su quei loculi senza fiori.

Naturalmente appena arrivavo e quando tornavo via, andavo a salutare mia sorella che dalla lapide mi accoglieva col suo sorriso scoprendo la finestrella che aveva nel mezzo degli incisivi superiori, che la rendeva ancor più attraente. Sembrava che mi dicesse: “Vai, vai dalla mamma che ha bisogno della tua presenza”.

Tornavo a casa contemplando la Pietra, non più piena di colore, ma cupa e triste mentre cominciava a spogliarsi, doveva liberarsi delle foglie prima che arrivasse la neve che col suo peso avrebbe spezzato i rami più deboli. Come vedete la natura si è sempre difesa da sola, ha sempre saputo come fare per evitare i danni peggiori.

La mamma stava vicino alla macchina da cucire, stava preparando un cuscino di seta viola con tanto di frappa tutta attorno, che poi riempiva di “paglietta”, serviva per una cassa funebre imbottita con la stessa stoffa e il mio pensiero tornava laggiù, dove qualcuno riposava tranquillo in quella specie di culla.

Poi prendevo un cesto, non scordiamoci che era novembre era tempo di raccolta e mi recavo sotto le tre grandi noci che il papà aveva fatto crescere sotto al muro della strada, pochi giorni prima era passato il “vento di San Simone che con la pertica e il bastone” aveva fatto cadere quei deliziosi frutti, che ci avrebbero accompagnato tutto l’inverno.

Ora vi dirò un famoso proverbio, tirate voi le conclusioni:

“Pan e nus l’è un mangiar da spus … Nus e pan l’è un mangiar da can”

Traduco sempre per chi non ha “studiato” il dialetto: pane e noci è un mangiare da sposi…noci e pane è un mangiare da cane.

La frutta per noi serviva da companatico si mangiava come secondo accompagnata da un bel pezzo di pane e io invecchiando ho ripreso questa bella abitudine, in questo modo riesco a tenere sotto controllo le mie analisi che risultano ancora buone, allora invece, era un modo per riempirci lo stomaco senza spese eccessive per gli alimenti. Poi c’erano le castagne da raccogliere a “piet” nei castagneti di Ginepreto e di Camorra, che venivano aperti a tutti dopo San Martino erano quelle scartate “i guciarö”, ma a noi andavano molto bene anche quelle, poi se avevi occhio ne trovavi sempre qualcuna grossa dimenticata. Quando la mamma cuoceva i “balussi” ci metteva sempre 4 o 5 pere “Barabane”, sia le castagne che le pere prendevano a vicenda un sapore delizioso. Le mele poi venivano stese in qualche angolo di una stanza, così finivano di maturare e giornalmente dovevi guardarle, scoprire e togliere quelle bacate che avrebbero intaccato anche le altre. Vi dirò che certi contadini le stendevano sotto al letto, te ne accorgevi dal profumo quando entravi nella stanza. Poi attaccati alle travi della cucina grappoli d’uva del nostro bersò si lasciavano appassire, poi anche quelli finivano nelle nostre bocche fameliche, anche se il loro sapore era un po’ brusco lo smorzavi con un pezzo di pane

Più tardi anche noi abbiamo scoperto la arance e i mandarini, ma solo a Natale dentro la calza della Befana e per noi erano un grande dono.

Naturalmente era anche il tempo di scavare le radici nello “scasso” un pezzo di bosco che poi col tempo sarebbe diventato terra coltivabile. Il papà si dava il tempo necessario per scavare questi radicioni, aiutandosi col piccone, la pala e la “sgura” l’accetta. Quando era necessario si aiutava con qualche “mina”, lui aveva lavorato per tre anni in una miniera di carbone in Francia, perciò la dinamite sapeva usarla.

Noi nascosti dietro a un cumulo di terra guardavamo ansiosi e sbalorditi, poi correvamo con le ceste a raccogliere “al tapòli” i pezzi più piccoli di legna che saltavano per aria.

In questo mese passavano anche carri tirati dalle mucche con qualche tavolo e poche sedie, un cassone o poco più e la vecchia nonna con l’ultimo nipotino in braccio seduta sui materassi arrotolati. Per i mezzadri era tempo di trasferimento, il famoso “San Martino”, dalla montagna scendevano in collina o in pianura in cerca di un po’ più di fortuna

Come vedete la mia vita da piccola è stata un’avventura, piena di cose che non esistono più e io scrivendo spero di lasciare una piccola traccia di questo passato che a voi sembrerà una favola.

Elda Zannini