In ricordo di una figura esemplare, tra fede, coscienza e memoria – nel giorno della Liberazione
Come ha ricostruito con rara sensibilità il professor Giuseppe Giovanelli (a cui esprimo infinita riconoscenza per il suo impegno nel dare luce alla vita e all’operato di Don Vasco, assieme all’associazione ALPI-APC e al Centro Studi Fiamme Verdi), Don Vasco fu protagonista di episodi che raccontano meglio di qualsiasi parola il suo carattere e la sua tempra morale.
Nel silenzio operoso della montagna, durante gli anni drammatici dell’occupazione nazifascista, alcune figure hanno incarnato con umiltà e coraggio il senso più profondo della Liberazione. Una di queste è senza dubbio Don Vasco Casotti, parroco di Febbio, uomo di fede e d’azione, che scelse la via difficile ma necessaria della coscienza, della protezione e della solidarietà.
E’ dalle parole del suo Memoriale, e dal racconto storico del Professor Giovanelli, che prelevo e trasmetto il ricordo delle azioni di Don Vasco come uno dei tanti esempi che hanno contribuito all’affermazione della Libertà.
Un prete nella guerra: la vita, la montagna e la fede
Don Vasco era nato nel 1908 a Migliara. Il papà Giuseppe era un fervente socialista, come lo era lo zio, il ben noto dottor Pietro Casotti. Don Vasco ricorda con affetto che le prime parole insegnategli dalla mamma, Adelma Stazzoni, era una preghiera alla Madonna che lo avrebbe poi accompagnato per tutta la vita: “Madunina bela bela, che d’in ciel sìi gnuda in tera, per purtar si bel Bambin, bianch e ross e risulìn...”
Terminata la quinta elementare, Vasco chiede di poter frequentare le scuole del Seminario di Marola, proseguendo poi il liceo nel seminario di Albinea. Ricevuta l’ordinazione sacerdotale nel 1934 fu inviato dapprima curato a Montecchio dove rimase quattro mesi e, grazie alla presenza di Monsignor Alai, ebbe modo di completare la sua formazione centrata sulla carità. Qui la sua linea pastorale consoliderà anche le scelte che furono di altri sacerdoti quali Don Domenico Orlandini (fondatore e comandante della Brigata Fiamme Verdi del Cusna), Don Giuseppe Iemmi (suo alunno di camerata a Marola), Don Bruno Morini e altri.
L’anno dopo partecipò al concorso per la Parrocchia di Febbio. Fu tramite dei contatti tra la Resistenza reggiana e le prime formazioni modenesi salite in Val d’Asta e Val Dolo, ma non toccò mai un’arma. Si sentiva innanzitutto prete e, in mezzo a quelle tristi traversie, riteneva che il suo compito fosse quello di operare per una pace autentica.
Condivise tutti i rischi della guerra assieme alla popolazione del paese ai piedi del Cusna, a partire dall’arresto di Don Pasquino Borghi. Nel suo memoriale, si legge dei rapporti stretti con Pasquale Marconi, del suo impegno verso la pace. Si racconta del suo incontro a Roncopianigi con i partigiani modenesi capitanati da Rossi Giovanni e delle sue parole per liberare due datori di lavoro imprigionati “[Rossi] mi dice di aver arrestato due datori di lavoro della zona, indiziati come fascisti attivi e sfruttatori di operai e quindi degni di morte (Luigi Rossi di Case Balocchi e Tazioli di Civago … vittime più di calunnie che di colpe). Gli faccio osservare che non è il caso di prendere misure così estreme perché a mio parere non ci sono dati per tanto. Entra nelle mie vedute e il giorno dopo libera i prigionieri”.
Nel marzo del ’44 accoglie, ferito gravemente durante la battaglia a Cerrè Sologno, il comandante Barbolini e sua sorella Norma, che nasconderà poi nel sottoscala della canonica, attraverso un muro a secco, durante la perquisizione di militi e tedeschi in discesa dal monte Prampa.
Ho visto quell’aia, ho visto quel sangue e ho pianto.
“La mattina del 20 Marzo mi reco in Asta per un Ufficio in Chiesa, dopo il quale vado a Case Balocchi per incontrarmi con Romiti Albertina, inviata a Castelnovo Monti per invitare il Prof. Marconi a curare Barbolini e portare medicinali. Trovo il fratello Don Boni di Novellano che fa il viaggio insieme a me: durante il cammino mi propone di andare con lui a Cervarolo per trovare Don Pigozzi, per vedere la situazione dopo il rastrellamento: “Vieni, forse si troverà un po' male, gli faremo coraggio” Era profeta. Una squadra di paracadutisti tedeschi forse l’avevano già catturato in quell’ora, già insultato e già condotto sull’aia tristemente famosa. Ho resistito a recarmi a Cervarolo non perché non mi allettasse questo nobile programma, ma perché il mio pensiero era a casa, in quel rifugio. Mentre attendo la staffetta mi viene guardato in direzione Cervarolo e vedo scendere su Case Balocchi una fila di soldati con l’elmetto; senza attendere altro mi precipito verso casa.
Porto l’allarme a Riparotonda, resto d’intesa con la mia contadina di portarmi notizie, qualora i militi o i tedeschi che siano fossero venuti a Riparotonda. Avverto quei di Febbio e mi metto di sentinella sdraiato dietro un masso su di un rialzo dal quale vedevo tutta la strada di accesso a Febbio. Verso sera incontro due ragazze che mi dicono essere i tedeschi andati via, senza far nulla a Riparotonda, ma a Cervarolo… oh, a Cervarolo cos’hanno fatto! Hanno ucciso 21 persone compreso il parroco, hanno bruciato tutte le case, ucciso il bestiame, dopo aver allontanato le donne e i bambini piangenti e imploranti compassione. Io che alcuni giorni dopo andai a visitare quel disgraziato paese, ho visto le vedove, ho visto gli orfanelli cui avevano portato via i papà… ho visto quell’aia, prima benedetta dal lavoro sano, ora ribenedetta dal sangue dei martiri, ho visto il sangue e ho pianto. Ho pianto per le tante amicizie stroncate, ho pianto per quell’incontro improvviso con tanta sofferenza. In questa piccola oasi di dolore ho visto tutta l’umanità sofferente, tutto il sangue umano che arrossa la terra per la cecità degli uomini”.
Nell’estate del 1944, durante il rastrellamento che sfasciò la Repubblica di Montefiorino, seguì la popolazione di Febbio quando dovette rifugiarsi oltr’Alpe nei pascoli di Metello, nell’alta Garfagnana. Nella stessa estate ospitò diversi militari alleati, piloti di aerei caduti nel reggiano. Leo Martin del Massachussets, in una lettera del 1947, ricorda ancora l’ottima cucina della mamma Adelma e i vari lavori compiuti con il papà Giuseppe, “Io ho parlato molto di Febbio a mia moglie e le ho detto di tutto il buon periodo che noi abbiamo trascorso laggiù e di tutti i buoni amici che incontrammo, e del buon vino che bevemmo”, ma racconta anche di cose più tristi come i giorni di nascondimento nella capanna di Lama Golese e l’impiccagione di un partigiano nel centro del paese.
Pesante il contributo della sua famiglia alla Resistenza: il primo aprile 1945 suo fratello Meuccio Aleardo, è tra i caduti della Battaglia di Pasqua a Ca’ Marastoni. E’ Don Vasco stesso ad affrontare il compito più difficile della sua vita: dirlo alla mamma.
Il suo impegno per la libertà ebbe unanime riconoscimento a partire dagli Alleati. Partigiano della libertà, della vita, dell’amore. In questo senso ci teneva al suo titolo di partigiano; lo rifiutava, invece, se doveva essere inteso come fautore della lotta di una parte di umanità contro l’altra.
Nell’immediato dopoguerra vi fu la corsa ai pubblici riconoscimenti. Don Vasco non chiese nulla, se non il riconoscimento del titolo di patriota perché gli avrebbe consentito di fruire – per la sua famiglia e per la popolazione di Febbio – dei benefici economici dell’immediato periodo post bellico.
Il 21 Settembre del 1947 lo vide parroco a Cola. In Val d’Asta era rimasto il suo cuore. Già verso la fine degli anni settanta gli acciacchi della vecchiaia si erano fatti sentire. Ormai impossibilitato a vivere solo nella grande canonica di Cola aveva trovato ospitalità presso l’Albergo Villa Paola di Castelnovo ne’ Monti, continuando alla domenica, a prestare il suo servizio parrocchiale a Cola e Groppo.
Nella primavera del 1988 la diocesi di Reggio si apprestava a ricevere in visita Papa Giovanni Paolo II. Don Vasco avrebbe potuto stare vicino al Papa nel ricevimento agli ammalati per il 6 Giugno presso la Casa della Carità di Villa Cella. Al ritorno da un incontro il 3 giugno, però, un infarto lo portava alla morte. Sarà seppellito presso il cimitero della frazione di Vetto.
Il suo memoriale, incompiuto, fu scritto anteriormente all'autunno 1947, ma mai divulgato. Nel 1970 don Angelo Cocconcelli gli chiese di scrivere la sua testimonianza o, meglio, di dettare al registratore di Guerrino Franzini - l'autore della "Storia della Resistenza Reggiana". La preoccupazione di don Angelo stava nel fatto che all’Istituto di Storia della Resistenza giungessero memorie in grande misura non cattoliche, quando invece la parte bianca della Resistenza aveva dato un grande contributo alla Liberazione.
Tutte le testimonianze e i racconti provengono dal preziosissimo lavoro a cura del Professor Giuseppe Giovanelli e dall’Associazione ALPI-APC a cui va la mia gratitudine immensa per il ricordo del prozio Don Vasco.
Mattia Casotti, consigliere comunale di Castelnovo ne’ Monti e dell’Unione dei Comuni