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l'intervista alla pedagogista Benedetta Casali

Oltre le etichette. L’autismo e il coraggio di diventare persone

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Cosa vuol dire davvero includere? Cosa succede quando smettiamo di etichettare e iniziamo ad ascoltare?

Sono domande che Benedetta Casali, pedagogista e autrice, si è posta per anni, lavorando a stretto contatto con bambini e adulti neurodivergenti.

Originaria di Scandiano, laureata in Scienze dell’educazione e dottore in Scienze pedagogiche presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, è una una professionista che ha fatto dell’inclusione non solo il cuore del proprio lavoro, ma anche della propria visione del mondo.

Quando parliamo di diversità, spesso ci concentriamo su ciò che manca. Ma forse dovremmo cominciare a chiederci cosa possiamo imparare. Imparare a vedere, ad accogliere, a metterci in relazione.

Perché l’inclusione non è una strategia: è un modo di stare al mondo.

Dall' esperienza di Benedetta e dal suo sguardo attento è nato Neurofantasmi, un libro illustrato che parla di autismo, ma soprattutto di umanità.

Neurofantasmi è un racconto pensato per adulti e bambini, che invita ad ascoltare e osservare prima di giudicare. Nasce con l’intento di supportare il dialogo tra adulti e bambini sui temi della neurodivergenza e della disabilità, promuovendo osservazione, inclusione ed empatia nei più piccoli. Un libro che unisce parole e immagini per dare voce a chi spesso resta invisibile, illustrato con delicatezza da Giulia Vivi.

Il libro verrà presentato giovedì 29 maggio 2025, alle ore 20.45, presso la Locanda SottoLaLuna di Viano, dove si terrà l’incontro “Diventare persone – Come l’autismo ci aiuta a essere umani”.
Una serata per riflettere, ascoltare, leggere e sentirsi parte di una comunità che accoglie la diversità come risorsa.

 

L'intervista

Benedetta, il libro sembra scaturire da un’esperienza concreta. Ci racconta com’è nato e chi o cosa l’ha ispirata?

Sì, il libro nasce da un’esperienza diretta. Per anni ho lavorato come educatrice e insegnante di sostegno, e in particolare ho seguito un bambino autistico nella scuola primaria. Parallelamente stavo finendo gli studi in Scienze pedagogiche, quindi era un momento di forte cambiamento per me, personale e professionale.

Durante una formazione sull’autismo rivolta a insegnanti ed educatori, mi sono trovata davanti a delle domande che mi hanno molto scossa.

Durante una formazione sull’autismo rivolta a insegnanti ed educatori, ho sentito domande che mi hanno fatto tremare. Come: “L’autismo è contagioso?” oppure “Non sarebbe meglio mettere tutti i bambini disabili in una classe a parte?”

E' stato un momento di crisi profonda: mi chiedevo se tutto ciò per cui lavoravo, tutto l’impegno quotidiano in classe, avesse davvero un senso. Poi mi sono detta: “No, ora basta. Reagisci. Racconta questa storia. Trova le parole che forse mancano agli adulti per spiegarla ai bambini”.

E così è nata l’idea di Neurofantasmi.

Perché ha scelto di usare la forma del racconto illustrato?

Perché era un libro pensato per i bambini, certo, ma anche per gli adulti che devono parlare ai bambini. Volevo offrire uno strumento, un linguaggio accessibile, che aiutasse genitori e insegnanti a trovare le parole giuste. Le immagini, poi, aggiungono senso: parlano a chi ha un'intelligenza visiva, aprono a chi ha più difficoltà a decodificare il testo.

Che ruolo ha avuto Giulia Vivi, illustratrice del libro, nel processo creativo?

Lavorare con l’illustratrice Giulia Vivi è stato bellissimo: lei non ha solo disegnato, ha tradotto il testo in un’altra lingua, visiva. È stato un dialogo continuo tra i nostri due linguaggi: ci rilanciavamo idee, ci integravamo. Non era “fammelo così”, ma una vera co-creazione. In realtà in questo libro c’è tantissimo di entrambe.

Nel libro si parla di autismo, ma anche più in generale di diversità. Come lavora (o ha lavorato) su questi temi a scuola e nella formazione?

Oggi lavoro in comunità, ma l’esperienza scolastica mi ha insegnato tantissimo. Credo sia fondamentale esplicitare ai bambini cosa stiamo vivendo in classe, anche se si tratta di disabilità. Non bisogna avere paura di nominare, spiegare, rendere comprensibile ciò che succede.

Gli adulti hanno un’esperienza, i pari ne hanno un’altra, diversa e importantissima. I bambini vivono la diversità in modo diretto, fisico, e spesso si portano domande a cui è giusto dare risposta. La scuola dovrebbe essere proprio questo: uno spazio in cui si può parlare, capire, nominare, includere.

Il titolo della serata è “Diventare persone”. Cosa significa per lei questa espressione?

“Diventare persone” per me significa prendersi responsabilità. Sapere che si fa parte di una collettività in cui non tutti partono dallo stesso punto. Chi può, deve farsi carico di chi non può. Non per dovere, ma perché è giusto.

Significa fare spazio anche a chi non ha voce. E non viverlo come un peso, ma come una scelta che ti rende più umano. Io sono una persona, davvero, solo se mi faccio carico dell’altro.

Come possiamo passare da una logica di integrazione a una vera inclusione, dentro e fuori dalla scuola?

Serve non avere paura di parlare. Anche di ciò che è difficile, o che ci mette a disagio. Spiegare, usare le parole giuste, anche con i bambini. Non trasformare le diversità in tabù.

Oggi vediamo più rappresentazioni della disabilità nei media, ma spesso sono polarizzate: il “genio autistico” o il “poverino”. In mezzo c’è tutto un mondo che non viene raccontato. Ogni storia è unica, ogni persona è diversa. Inclusione è anche mostrare questa complessità.

E il ruolo della famiglia? In particolare dei genitori?

Fondamentale. Anche solo favorire l’incontro con la diversità, già questo è tanto. A parole, con i libri, ma anche nella pratica. Quando si incontra una persona con una disabilità visibile o invisibile, non bisogna voltarsi: si può avvicinarsi, chiedere, ascoltare. Poi magari l’altro non ha voglia di parlare, ma intanto hai fatto un passo.

Nel libro uso l’immagine del castello per parlare della psiche: prima guardi da fuori, poi entri dentro. Guardare e osservare sono due cose diverse: osservare vuol dire avere cura.

Perché ha scelto il titolo “Neurofantasmi”? Cosa vuole evocare?

Il titolo nasce da una conversazione con la mamma di un bambino autistico. Mi raccontava che, per lo Stato e la burocrazia, spesso loro sono invisibili, come fantasmi. E questa immagine mi ha colpita moltissimo.

Poi c’è l’elemento dello “spettro autistico”, che richiama qualcosa di evanescente, difficile da afferrare. Ma anche l’idea che il diverso da noi può sembrarci invisibile, se non ci accorgiamo della sua presenza. Per questo non ho usato la parola “autismo” nel titolo, ma neurofantasmi: perché chiunque può sentirsi escluso, invisibile, diverso. E il libro parla anche di questo.

Infine: come si colloca l’autismo nella sua visione pedagogica e in questo racconto più ampio?

Per me l’autismo, come ogni altra forma di diversità, è una possibilità di relazione.

Il libro vuole dire questo: avvicinati, guarda, osserva, ascolta. Come faresti con chiunque. L’autismo non deve essere un muro, ma un invito a conoscere.

Spesso, quando ci innamoriamo o facciamo amicizia, osserviamo l’altro per capire se “funzioniamo insieme”. Con una persona autistica non dovrebbe essere diverso.

L’unica cosa che serve è disponibilità, apertura e desiderio di incontrare davvero l’altro.