Mi sono permessa di chiamarla “storia” sì perché oltre che mia potrebbe essere anche di tanti altri.
Papà finalmente aveva la piallatrice e anche la sega per tagliare le assi, questi attrezzi avrebbero dovuto essere elettrici, ma nelle case sparse sotto la Pietra, l’elettricità mancava ancora, vi è arrivata molto tardi quando io avevo quasi diciotto anni. Torniamo agli attrezzi di mio padre, che si muovevano sotto la spinta di un motore a “scoppio”, questo era stato posto al di fuori del grande seminterrato, facendo una piccola costruzione onde fosse riparato dalle intemperie, ma non nocivo per il resto, le scintille che faceva per accendersi potevano generare un incendio in mezzo alla segatura o i “ricci” della piallatura.
Per accenderlo ci voleva molta forza, perciò veniva impegnata tutta la famiglia, mamma in prima fila, dovevamo prendere in mano una lunga cinghia e quando il papà, unico rimasto vicino a sto “bolide” urlava:
“Tira!...Tira!!..”.
Allora tutti puntavamo i piedi in terra e tiravamo con tutta la forza che avevamo. Una, due, tre e forse anche più volte fin che “Bruun…Bruun..” finalmente partiva e con lui anche la piallatrice e la sega.
Finalmente il motore era partito e tutti riprendevano il lavoro in questa bottega, dove, prima di tutto si costruivano “culle funebri”, ma anche mobili, armadi, comò, letti, le prime vetrine con vetri scorribili ecc.
Lavoro ce n’era per tutta la famiglia cominciando dagli incastri per costruirle, la verniciatura, la lucidatura, Valdo poi scolpiva anche i nomi e le dediche sulle lapidi dei cimiteri, e la mamma pensava all’imbottitura delle famose “culle” usando seta a colori tenui.
Se restava qualche scampolo, mia sorella ne ricavava una camicetta per lei o per me. In quel periodo lei era tornata da Scandiano dov’era stata accolta in casa della signora Benite, sorella della zia Vilma, per poter frequentare un corso di taglio e cucito dalla famosa signora, Giulia Maramotti. Anche se molto giovane, tornata a casa aveva aperto la sua sartoria in una stanza al piano superiore e le clienti non mancavano.
Alla casa era stata fatta una prolunga a forma di elle, sì eravamo in tanti, ma c’era posto per tutti e tutti lavoravano usando buona volontà e ingegno, sì perché fra l’altro bisognava mandare avanti anche quel po’ di terra che i miei genitori avevano ereditato dai loro vecchi. La casa c’era, pagata con la “malaria” che il papà si era portato dall’Africa, anche se dal di fuori questa casa sembrava “monca”.
Dovete sapere che appena costruita, la vecchia strada comunale passava dalla parte di sopra, perciò la casa aveva una bella entrata col suo “bersò” di uva, davanti.
Nel 1938 è stata costruita la nuova strada per Carnola, facendola passare dalla parte dietro.
Mia madre qualche volta ricordava le discussioni, che aveva avuto col dott. Manfredi, allora sindaco del paese, che gli portava via un bel pezzo di terreno, non ho mai sentito dire che glielo avessero pagato, in cambio le avevano dato la vecchia strada, che fra l’altro non poteva usare, dissodandola, c’era il diritto di passaggio, per la casa sopra alla nostra (come vedete una presa in giro).
Così a noi venne a mancare la terra, che allora significava pane e ci restò la casa “monca”, dalla parte dove tutti passavano e la vedevano.
Per ridarle un po’ di sembianze abbiamo dovuto aspettare, parecchi anni. Io ne avevo già diciotto e papà e Nello mi avevano ingaggiata come “manovale”, non so quanti secchi di calce ho fatto salire sul tetto tirandoli su a mano, con una carrucola.
Ricordo un giorno che l’Onorevole e il suo amico Galli si recavano in camionetta alla Pietra e si fermarono per vedere se riuscivo a tirare su un secchio pieno di calce.
Figuratevi, in quel momento l’ho alzato fin sul tetto in un attimo, e se avessi potuto, l’avrei mandato anche più su guardandoli con un’occhiata di sfida.
Come vedete sono cresciuta in una famiglia di maschi e sono sempre stata alla pari con loro, anche se vedendomi fisicamente, non sembrava avessi tanta forza, ma quella l’avevamo ereditata dai nostri genitori, forti e lavoratori, l’esempio dal mio punto di vista è la cosa più importante in una famiglia.
Ora torniamo ai primi anni della mia vita, quando il papà finita la guerra decise di trasferirsi col lavoro, al centro del paese, affittando tutto il piano terra della casa di “Pedrìn ed Capanni”, nell’allora chiamata Via Degli Orti.
Si da una parte il vecchio Oratorio e dall’altra i servizi igienici pubblici e le famose fontane, proprio vicino a piazza delle armi e di conseguenza, anche alle “suore”.
Un pezzo di paese che è rimasto nel mio cuore, il primo anno io e Nilo, tutti i pomeriggi lasciavamo la cartella nella bottega e andavamo con gli altri bambini bisognosi, a mangiare un piatto di minestra, accompagnato da un panino, alla mensa dell’U.N.R.A. tenuta dalle suore nel loro teatrino, raramente c’era il budino che poi era una festa per tutti.
Dopo io salivo da Suor Giulia, dove ho imparato a tenere l’ago in mano, si care bambine, tutti i giorni, ho cominciato a sei anni e ho finito a tredici, quando sono entrata nella sartoria della carissima Graziella Rocchi, dove oltre a cucire ho imparato tante altre cose, il modo di vestirmi, di pettinarmi, quel leggero velo di trucco, per nascondere i difetti del viso, a trattare con le clienti, da lei si facevano vestire tutte le signore di “Castelnovo bene” si oltre che insegnante era un’amica che non dimenticherò mai, come anche sua sorella Giovanna e la sua mamma, una santa donna nel vero senso della parola. Era la moglie del barbiere Osvaldo, chi lo ha conosciuto capirà cosa ho voluto dire, con l’ultima frase.
Come vedete la mia infanzia finiva lì e ho cominciato a crescere, non solo fisicamente, ma a maturare e cominciare il secondo periodo della mia vita, che forse continuerò a raccontare, per accontentare certi miei lettori che vorrebbero sapere. Come vedete ho ignorato il periodo della guerra, che non ho dimenticato, ma quello l’ho raccontato già troppe volte.
Elda Zannini