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L'INTERVISTA

Briglia: «Curare è ancora la mia missione»

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In un’epoca in cui la professione medica è sempre più complessa e sfidante, abbiamo incontrato il dottor Ermanno Briglia, che a 70 anni ha deciso di tornare in prima linea, confermando con la sua esperienza e passione quanto il ruolo del medico vada ben oltre la semplice diagnosi.

Questa intervista racconta la sua visione di una medicina fatta di ascolto, empatia e dedizione, una medicina che oggi sembra farsi sempre più rara e preziosa.

Una storia che riprende vigore proprio quando molti smettono di raccontarne: a 70 anni, età in cui si pensa alla pensione, alla quiete, al distacco.
Il dottor Briglia ha invece scelto di tornare là dove si è sempre sentito pienamente se stesso: tra i pazienti, con il camice addosso e il cuore in ascolto.
Un ritorno alla medicina, intesa come vocazione. Come legame umano prima ancora che professionale perché per lui «curare significa innanzitutto prendersi cura».

Ha dunque scelto di riprendere in mano il camice, le mani tese dei pazienti, il peso e l’onore della sua missione: quella di medico.
Un ritorno che non è solo professionale, ma profondamente umano, nato da una riflessione intensa, sulla propria vita e sul senso di un mestiere che, come lui stesso dice, «non è un lavoro, è una vocazione. È passione che ancora mi freme dentro».

La medicina, per lui, non è mai stata una professione come le altre. Ha significato dedizione assoluta, rinunce, notti insonni, chiamate anche nei giorni festivi. Ma soprattutto, è stata relazione. Incontro. Ascolto.

«Mi sono rimesso in gioco alla mia età – racconta-. Il legame empatico è tutto. Un medico senza empatia è un medico cristallizzato, freddo. L’empatia è ascolto, rispetto, presenza. È quel qualcosa di invisibile ma potentissimo che si crea tra medico e paziente. Ed è proprio questo che può fare la differenza, anche nella guarigione».

Il dottor Briglia è tornato a lavorare sul territorio, nelle RSA, tra gli anziani, una fascia fragile e spesso dimenticata. Lo ha fatto dopo aver vinto un concorso ma – come lui stesso racconta – «è stato il richiamo dei pazienti a convincerlo davvero: le lettere ricevute, i “grazie” arrivati anche a distanza di anni, le testimonianze di chi, anche dopo un’anestesia o un ricovero in rianimazione (che considero un’eccellenza di importanza strategica per l’Ospedale Sant'Anna), non ha dimenticato quel medico «che ti guardava negli occhi e ti faceva sentire al sicuro».

«Il paziente capisce tutto. Capisce se lo stai ascoltando davvero - spiega -, se gli stai dedicando attenzione oppure no. Capisce se gli stai dando fiducia. E quando si crea questo scambio, accade qualcosa di straordinario: il paziente migliora, anche clinicamente. L’empatia è terapeutica».

Nel corso dell’intervista, il dottor Briglia torna più volte sul tema dell’umanizzazione della medicina, oggi troppo spesso sacrificata alla fretta, alla burocrazia, alla tecnologia.

«Non possiamo permetterci diagnosi fatte in cinque minuti. Ogni paziente ha una storia, un dolore, una paura. Il tempo dell’ascolto è parte della cura. È medicina anche quella».

Ma il messaggio più forte che il dottor Briglia vuole lasciare è rivolto ai giovani medici e a chi si affaccia oggi nel mondo sanitario: «Il paziente va messo al centro, non ai margini. Non bastano le competenze tecniche: ci vuole calore umano. Ci vuole cuore. Lo sguardo del paziente è uno specchio. E solo se vede in te un esempio, non solo un medico, allora ti affida ciò che ha di più prezioso: la sua fiducia».

Il suo ritorno in corsia – questa volta nelle RSA – è stato accolto con grande calore. Colleghi, infermieri, operatori lo hanno ritrovato con affetto e stima. E lui, ringrazia: «Sto trovando un ambiente bellissimo: la caposala Simona Vannini, il responsabile Gianluca Genovese, e tutto il personale. Tutti mossi dallo stesso spirito. Quello che serve davvero per prendersi cura delle persone. E un grazie anche a mia moglie Francesca per il suo contributo e incitamento nei momenti difficili».

Infine, un pensiero ai familiari dei pazienti, «che spesso soffrono in silenzio, cercano conforto, pongono domande difficili. Anche loro vanno ascoltati. Anche loro fanno parte della cura».

Un medico “che vive per questo”, come ripete spesso. Che a settant’anni ha ancora qualcosa da dire, e soprattutto molto da dare. Perché la medicina, quella vera, forse, non va mai in pensione.