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“Un passo avanti sulla via del pieno riconoscimento dei diritti della persona”

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Riceviamo e pubblichiamo.

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Come noto, è stato istituito il Registro delle direttive anticipate di trattamenti sanitari (D.A.T.) anche nel Comune di Castelnovo ne’ Monti, approvato nell’ultimo Consiglio comunale. Ritengo che tale approvazione sia importante, che lanci un segnale nel dibattito su questo tema, nel rispetto dei diritti e della dignità della persona. Occorre precisare in modo chiaro ed inequivocabile che non stiamo parlando di eutanasia né dell’imposizione di una scelta, ma al contrario della tutela della libertà scelta dell’individuo, in conformità con le sue convinzioni, il che rappresenta la massima affermazione della dignità della persona.

Si tratta infatti di “un documento legale redatto da una persona nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, in cui dichiara, qualora si trovasse nella condizione di stato vegetativo in base ad un rigoroso apprezzamento clinico irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pur flebile, recupero della coscienza e di un ritorno alla percezione del mondo esterno [...], di voler sospendere qualsiasi forma di trattamento terapeutico, compresa la nutrizione e l’idratazione”, così come citato nei documenti approvati da molti comuni italiani.

Il fatto che tra questi vi sia ora anche il nostro comune rappresenta, dal mio punto di vista, un elemento di forte valore, un passo avanti sulla via del pieno riconoscimento dei diritti della persona, che è ciò che caratterizza le democrazie più avanzate; questa è la motivazione che ci ha spinto a redigere e a sostenere questo documento, e non certo la volontà di fare una conta interna o un attacco al governo Berlusconi.

Certo il tema è delicato, poiché tocca la sfera etica o religiosa delle persona ed è quindi legittimo che all’interno di un partito o di uno schieramento politico le persone possano scegliere secondo coscienza, senza però anteporre le proprie idee alla linea politica che è comunque stata espressa in larga maggioranza dal partito. Penso comunque che i cattolici abbiano tutto il diritto di esprimersi su questo tema, nel rispetto della laicità dello stato, così come dimostrato dai cattolici della maggioranza o dal cardinale Carlo Maria Martini nel “Dialogo sulla vita” con il senatore Ignazio Marino, pubblicato dall’Espresso nel 2006.

Il Consiglio comunale è per me il luogo più idoneo per discutere di questi temi ma ben vengano dibattiti pubblici e se vi sono stati ritardi me ne assumo le responsabilità; rimane comunque il forte valore di questo documento.

(Simone Ruffini)

6 COMMENTS

  1. Un parere diverso, ben documentato, a partire dalla Costituzione
    Per dare a tutti la possibilità di confrontarsi con quest’altra riflessione dell’On. Carlo Casini.

    (Commento firmato)

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    Si possono rifiutare le cure?
    ROMA, domenica, 19 dicembre 2010 (ZENIT.org)
    Molte pressioni per incrinare il principio di indisponibilità della vita umana ed introdurre quindi una forma di eutanasia c.d. “passiva” o “omissiva” consistente nella rinuncia (per non attivazione o per interruzione) a cure “salva-vita” sono condotte facendo leva sul comma 2 dell’art. 32 della Costituzione, dove è stabilito che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Minacciando un possibile intervento della Corte costituzionale, alcuni sostengono che le DAT (Dichiarazioni anticipate di trattamento) dovrebbero poter comprendere anche il rifiuto totale di ogni cura e quindi anche di quelle “salva-vita”. Questa scelta indiretta della morte (varco all’eutanasia passiva) sarebbe costituzionalmente obbligatoria. Come la persona pienamente capace di intendere e di volere (“competente”, secondo il linguaggio internazionale) potrebbe lasciarsi morire esercitando il “diritto costituzionale” di rifiutare le cure, così, in base al principio di eguaglianza, un identico diritto dovrebbe essere attribuito all’incapace di intendere e di volere (“incompetente”) e dovrebbe essere esercitabile mediante le DAT, il cui effetto giuridico – di conseguenza – dovrebbe essere vincolante per il medico (1).
    Ma questa tesi ha tre punti deboli. Il primo riguarda proprio il tema della eguaglianza. Non c’è affatto eguaglianza in ordine alla manifestazione di volontà tra la persona pienamente capace di intendere e di volere, magari totalmente sana, e il malato “incompetente”. Il primo può cambiare la sua decisione riguardo alle cure, il secondo non può farlo. Soprattutto, si deve considerare che il rapporto del paziente con il medico non è paragonabile ad una relazione contrattuale di tipo commerciale. Giustamente si parla oggi di “alleanza terapeutica”. La terapia ha lo scopo della guarigione o comunque della lotta contro la malattia e la morte. Questa “alleanza” suppone un’autentica relazione tra il paziente ed il suo medico curante: un dialogo nel corso del quale vengono esaminate le opportunità, le difficoltà, i rischi, i costi, gli effetti, le implicazioni, le condizioni, le alternative delle varie possibili soluzioni. In questo, sebbene la parola ultima spetti al malato, l’operatore sanitario si trova di fatto su un piano diverso e per così dire superiore. La sua competenza professionale gli attribuisce una particolare autorevolezza, gli consente di dare alle sue parole la forma del consiglio, il quale può essere più o meno pressante, più o meno ripetuto, più o meno persuasivo. Questo tipo di dialogo con cui viene attuata l’“alleanza terapeutica” non è possibile quando il malato ha perso la coscienza (è “incompetente”). Non è una differenza da poco, tanto più che il dialogo deve essere orientato alla cura, non al rifiuto della cura. Ciò vale anche per l’ambiente che sta attorno al paziente, quello familiare e amicale in primo luogo. Quando un malato rifiuta di curarsi è del tutto legittima, e forse doverosa, l’attività da parte di chi gli sta intorno, a cominciare dal medico, di persuasione affinché egli cambi decisione. I mezzi di informazione hanno seguito con commozione il caso della donna affetta da cancrena ad una gamba che ha rifiutato di farsi amputare l’arto e così è morta. Tutti si sono mossi per convincerla ad affrontare l’intervento chirurgico, anche le pubbliche autorità, con messaggi ed appelli di ogni genere (2).
    Si tratta di comportamenti che tutti consideriamo lodevoli. Proviamo ad immaginare una situazione a parti invertite: che la donna volesse l’operazione e che i medici, familiari, vicini, autorità l’avessero convinta a non effettuarla. Non solo vi sarebbe il biasimo invece della lode, ma forse si potrebbe configurare qualche grave ipotesi criminosa. Se ne deduce, ancora una volta, che l’“alleanza terapeutica” deve essere orientata ad ottenere dal paziente un consenso libero e informato alla cura, non al rifiuto di essa, per quanto da rispettare. Ma questo tipo di dialogo, da cui può dipendere addirittura la salvezza della vita, non è possibile con il malato “incompetente”. Perciò, attribuire agli orientamenti manifestati “prima” dalla persona pienamente “competente” un valore giuridicamente vincolante per il “dopo” in cui vi è una incapacità di intendere e di volere non significa affatto garantire l’eguaglianza, ma, al contrario, cristallizzare definitivamente la diseguaglianza. Non sappiamo, infatti, cosa avverrebbe se il colloquio in cui si realizza l’“alleanza terapeutica” potesse avvenire nel tempo in cui egli è divenuto “incompetente”.
    Il secondo punto debole della tesi che invoca l’art. 32 Cost. per introdurre l’eutanasia passiva (o omissiva) consiste nel fatto che il potere di rifiutare le cure, proprio ai sensi dell’art. 32 Cost., non può essere considerato come un diritto da porsi sotto lo stesso piano del diritto alla salute, come se il diritto alla cura comprendesse di necessità il diritto alla non cura. Il secondo comma dell’art. 32 Cost. stabilisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Il senso di tale norma è reso chiaro dalle seguenti considerazioni:
    a. un trattamento non è “sanitario” per il fatto che è eseguito da un medico. Questi può ricorrere alla sua arte professionale per provocare una ferita o una riduzione della funzionalità di un organo per fini diversi dalla preservazione o dal recupero della salute, ad esempio al fine di ottenere al proprio cliente, in modo truffaldino, un risarcimento del danno o una dispensa dal proprio servizio. Un trattamento è sanitario se è finalizzato alla guarigione, al mantenimento della salute, ultimamente a conservare la vita. La morte è il contrario della salute. La cura, in quanto diretta a salvaguardare la salute, non può avere lo scopo di causare o affrettare la morte. Conseguentemente non può essere qualificata come “terapeutica” la scelta che favorisce la morte. Il fatto che la morte possa essere provocata da un medico non trasforma il comportamento in un atto terapeutico. Abbiamo già osservato che l’alleanza medico-paziente è “terapeutica” se è rivolta alla salute, non alla attuazione dell’eventuale volontà di morte del paziente. In conclusione, la prospettiva della garanzia per un ipotizzato diritto alla non cura finalizzato alla cessazione della vita è estranea alla stessa lettera dell’art. 32 comma 2 della Costituzione;
    b. viceversa, l’art. 32 Cost. offre una garanzia costituzionale al diritto alla salute e si tratta di una garanzia finalizzata ad un interesse non solo privato ma anche pubblico. Lo dichiara espressamente la prima parte dell’articolo, che considera il “fondamentale” diritto alla salute quale “un bene dell’individuo e interesse della collettività”. È una garanzia che non deve essere soltanto declamata ma attuata in una logica di solidarietà. Tant’è vero che l’art. 32 Cost. assicura le cure anche agli indigenti, collocandone l’onere a carico delle strutture pubbliche;
    c. nello stesso comma secondo dell’art. 32 Cost., proprio in ragione dell’interesse pubblico riguardo alla salute, è ammessa la possibilità di cure obbligatorie per legge. Se l’autodeterminazione fosse il bene protetto da collocarsi al di sopra del diritto alla salute o, quanto meno, sullo stesso piano, non dovrebbe essere consentita l’imposizione di un obbligo di sottoporsi a una determinata terapia. Il senso della disposizione è ulteriormente chiarito se proviamo ad ipotizzare una norma costituzionale opposta, del seguente tenore: “la legge può proibire il ricorso alle cure mediche”. Si tratterebbe di una disposizione assurda. Questo dimostra che la cura e il rifiuto della cura non stanno sullo stesso piano;
    d. si può forse parlare di un “diritto a rifiutare la cura”, dato che il secondo comma dell’art. 32 Cost. attribuisce alla volontà individuale il potere di decidere il rifiuto, ma il rapporto tra il diritto alla salute e il diritto al rifiuto delle cure va approfondito. In sintesi si può dire che il diritto alla salute è “fondamentale”, mentre quello di rifiutare le cure è “strumentale”, è finalizzato, cioè, proprio a rendere meglio realizzabile il primo e ad impedire uno straripamento del potere medico che potrebbe addirittura ritorcersi contro lo stesso diritto alla salute del soggetto interessato. È noto che senza la collaborazione del malato le cure sono meno efficaci. Dunque, per potersi dispiegare nel migliore dei modi esse hanno bisogno dell’assenso del paziente fin dal momento in cui vengono decise. Quasi sempre per effettuare una terapia rifiutata bisognerebbe ricorrere alla violenza fisica. Si pensi al caso del malato che non vuole recarsi in ospedale o che non vuole sottoporsi ad un intervento chirurgico. Ma l’uso della violenza non è conforme a quella dignità umana che deve essere rispettata anche nell’esercizio dell’attività curativa, come del resto stabilisce l’ultimo comma dell’art. 32 Cost.: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della dignità umana”. È questo il fondamento del secondo comma. Soccorrono anche l’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, secondo la quale “nessuno può essere sottoposto a trattamenti disumani o degradanti” e l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e della libertà fondamentali che ripete il divieto di trattamenti disumani e degradanti. Questa interpretazione è confortata dall’origine storica del comma 2 dell’art. 32 Cost. La lettura dei lavori preparatori (3) mostra l’esattezza di quanto sostenuto da G. Iadecola secondo cui “la formulazione fu sollecitata essenzialmente dall’esperienza storica, allora recentissima, dei campi di sterminio e delle pratiche di sterilizzazione e di sperimentazione che vi erano attuate (…). La norma fu approvata proprio con l’intendimento specifico di vietare esperimenti scientifici sul corpo umano che non fossero volontariamente accettati dal paziente e, più in generale, di proteggere la salute del singolo da illecite interferenze da parte dei pubblici poteri” (4).
    Oggi, di fronte alle nuove straordinarie scoperte mediche ed alla tentazione di ricorrere ad una non collaudata sperimentazione per incrementarle, si può ritenere che il secondo comma dell’art. 32 Cost. sia una garanzia contro l’accanimento terapeutico, del resto già vietato implicitamente dall’ultimo comma perché contrario alla dignità umana;
    e. conclusivamente si può dire che il consenso del paziente all’intervento sanitario non è il suo fondamento ma la sua condizione, come del resto la giurisprudenza ha sempre detto. Il fondamento dell’attività medica è il fine della tutela del bene-salute costituzionalmente garantito (5). Si può anche sostenere che il desiderio di essere curato è presumibile in ogni uomo. Nel silenzio prevale il diritto alla cura, non il diritto a rifiutarla.
    Il terzo punto debole della tesi che appoggia sull’art. 32 Cost., la costruzione di uno spazio per ammettere un diritto alla eutanasia “passiva” (o omissiva) intesa come rifiuto di cura proporzionata, è indicato proprio dalla lettera dello stesso art. 32 Cost. Il secondo comma, infatti, pone un limite alla facoltà di rifiuto: la legge può imporre la cura (“nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”). Orbene il principio di indisponibilità della vita è stabilito proprio dalla legge: non solo dagli artt. 579 e 580 del Codice penale e dall’art. art. 5 del Codice civile, ma anche da altre disposizioni normative. Esso è, infatti, ricavabile anche da un complesso di altre norme in materia di trapianto d’organi (5), di circolazione stradale (6), di prevenzione degli infortuni sul lavoro (7), di sperimentazione medica (8). Di più: la stessa proposta che stiamo commentando, una volta definitivamente approvata, diverrebbe “legge”, per cui i limiti da essa imposti alla facoltà di rifiuto non sarebbero censurabili proprio in base al secondo comma dell’art. 32 Cost.
    Note
    1) Cfr. in particolare: RODOTÀ S. Il paradosso dell’eguaglianza di fronte alla morte in SEMPLICI S (a cura di). Il diritto di morire bene. Bologna: Il Mulino; 2002; ID. George Orwell a Palazzo Madama. La Repubblica del 27 marzo 2009, pagg. 1 e 38.
    2) L’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini, le inviò una lettera pubblica con l’invito a ripensarci: “mi rivolgo a lei come amico per invitarla a ripensare la scelta drammatica di affrontare la fine della sua vita senza consentire alla medicina l’intervento, pur doloroso, che potrebbe salvarla” (Il Corriere della Sera, 2 febbraio 2004) e l’allora assessore alle Politiche Sociali del Comune di Milano, Tiziana Maiolo, affermò: “la signora crede nella reincarnazione ed è libera di farlo. Ma non di suicidarsi. È libera di dire che preferisce la morte, ma noi abbiamo il dovere di fare tutto il possibile affinché ciò non avvenga (…) E come cerchiamo di salvare chi cerca di buttarsi dalla finestra, anche qui dobbiamo fare ogni tentativo possibile” (La Repubblica del 1 febbraio 2004). Comincia così una toccante lettera che Gaspare Barbiellini Amidei scrisse alla signora in questione: “Se lei ci regala la sua vita (…) se resta in mezzo a questo mondo dove milioni di uomini si svegliano ogni giorno cercando di non morire, le promettiamo, per quel che vale la parola di ognuno di noi, di aiutarla a rendere meno insopportabile la sua esistenza. Ci perdoni se non abbiamo argomenti più convincenti di questa offerta in qualche misura mercantile, se non sappiamo senza banali contropartite dimostrarle la bellezza di restare qua, nelle nostre città, consentendo l’intervento chirurgico, che le amputerebbe una gamba per fermare la cancrena (…)”. E così termina: “Sacro è il diritto alla sua vita e il diritto di essere padrona della sua vita (…). In prospettiva questi due diritti non sono mai in conflitto. Giudichi lei, signora, se resta più padrona di se stessa consentendo ai suoi medici di salvarla o impedendolo. E il mondo rispetta davvero la sua persona, come vuole la Costituzione, lasciando che la cancrena la uccida?” (Da: Signora, ci ripensi. Il Corriere della Sera, 1 febbraio 2004).
    3) Il primo periodo del secondo comma fu “approvato con intendimento di vietare esperimenti scientifici sul corpo umano che non siano volontariamente accettati dal paziente (si parlò di inammissibilità di “cavie umane”) e che “si volle soprattutto alludere a una esperienza storica e particolarmente alla sterilizzazione”, così in: FALZONE V, PARLEREMO F, CASENTINO F (a cura di). La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori. Milano: Mondatori; 1976: 115.
    4) IADECOLA G. Note critiche in tema di testamento biologico. Rivista Italiana di Medicina Legale 2003; 3-4: 478.
    5) Cfr.: CORTE DI CASSAZIONE. SEZIONE III CIVILE. Sentenza n. 10014 del 25 novembre 1994; CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III CIVILE. Sentenza n. 364 del 15 gennaio 1997. Legge 26 giugno 1967 n. 458, Trapianto del rene tra persone viventi. Gazzetta Ufficiale 27 giugno n. 160, edizione straordinaria; Legge 16 dicembre 1999 n. 483, Norme per consentire il trapianto parziale di fegato. Gazzetta Ufficiale del 20 dicembre 1999 n. 297 Serie Generale.
    6) Decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285, Nuovo Codice della strada. Gazzetta Ufficiale del 18 maggio 1992, n. 114, Serie ordinaria; PARLAMENTO EUROPEO E CONSIGLIO. Direttiva 2005/41/CE del 7 settembre che modifica la direttiva del 76/115/CEE del Consiglio per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative agli ancoraggi delle cinture di sicurezza di veicoli a motore. Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L 255 del 30 settembre 2005: 149-151.
    7) Decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81, Testo Unico in materia di tutela della salute. Gazzetta Ufficiale n. 101 del 30 aprile 2008, Supplemento Ordinario n. 108.
    8) Decreto legislativo 24 giugno 2003 n. 211 Attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico. Gazzetta Ufficiale n. 184 del 9) agosto 2003.
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    Carlo Casini è magistrato, presidente della Commissione affari costituzionali del Parlamento europeo e presidente del Movimento per la vita italiano.

  2. carta canta.. il silenzio no
    Carta canta. Perché conviene fare, nelle more, il proprio testamento biologico.
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    Il 19 novembre ben tre ministri e mezzo hanno partorito una circolare che vorrebbe delegittimare l’operato di una settantina fra comuni e municipi che hanno istituito “registri” per i testamenti biologici. Ma si tratta dell’ennesima “provocazione ideologica” destinata a fallire. Ecco perché i nostri testamenti saranno validi.
    di Marlis Ingenmey (da Micromega)
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    Già il 5 agosto 2010 il sottosegretario alla salute Eugenia Roccella aveva annunciato che al suo ministero stavano “elaborando una risposta comune con il ministero dell’interno” da dare ai comuni e ai municipi che avevano istituito o intendevano istituire registri per i testamenti biologici, “una forma di @Cderegulation#C, iniziative estemporanee che non possono offrire un reale servizio ai cittadini”, anzi, “una assoluta provocazione ideologica”, come affermò il 3 settembre in un dibattito, a Roma, sul fine vita. Dopo tre mesi e mezzo, il 19 novembre, ben tre ministri e mezzo hanno partorito una circolare che vorrebbe delegittimare l’operato in merito di ormai una settantina fra comuni e municipi (ipotizzando addirittura “un uso distorto di risorse umane e finanziarie, con eventuali possibili responsabilità di chi se ne è fatto promotore”) e, come ha spiegato il sottosegretario presentandola, “mettere in guardia il cittadino, che deve sapere che le volontà lasciate attraverso i registri dei comuni non hanno alcun effetto”; anzi, “i registri sono una presa in giro”: “…è evidente che, non essendoci una legge in materia, il medico non può ottemperare ad alcuna richiesta di tipo eutanasico indicata nei registri. Il medico, cioè, non può che riferirsi alle normative esistenti, che vietano ogni attività eutanasica”. Nel mirino degli autori della circolare non sono tanto i poveri “registri” quanto le “volontà”, le “direttive anticipate” di trattamento come estensione del consenso informato – legittimazione e fondamento di ogni atto medico – che si stanno moltiplicando nel Paese anche a prescindere dai registri comunali, così come sono in aumento le designazioni, ai sensi degli artt. 404 e seguenti del Codice civile, di “amministratori di sostegno” come esecutori di tali “testamenti”.
    Evidentemente i nostri attuali governanti, poco avvezzi a tenere separate le proprie convinzioni morali e religiose dall’esercizio della loro funzione con conseguente sottovalutazione dei “principi fondamentali di libertà”, non vogliono ammettere che, chi, nelle more, redige le proprie “direttive anticipate” – in Germania l’avevano fatto, prima che entrasse in vigore l’anno scorso un’apposita legge, oltre nove milioni di cittadini con atti fai-da-te o compilando moduli di ogni sorta, approntati perfino dalla Conferenza episcopale in collaborazione con il Consiglio della chiesa evangelica – è autorizzato a farlo dagli ormai arcinoti articoli 2, 13, 32 e anche 3 (che vieta discriminazioni fondate sulle “condizioni personali”) della Costituzione [1], dagli articoli 5 e 9 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina [2] del 4.4.1997 (ratificata dall’Italia con legge 28 marzo 2001, n. 145, da osservare “come legge dello Stato”), dagli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea [3] proclamata il 7.12.2000 a Nizza, ora annessa al Trattato di Lisbona (ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 2008, n. 130) e dal Codice di deontologia medica (aggiornato nel dicembre del 2006) il quale – ribadito all’art. 35 che il “medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente” (o, art. 37, “del suo legale rappresentante”) e che “in ogni caso” non è “consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona” – dedica l’art. 38 esplicitamente ad “Autonomia del cittadino e direttive anticipate”: “… Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato”.
    Alla luce di queste “normative esistenti” il testatore “informato” non chiederà un atto eutanasico, cioè “un trattamento finalizzato a provocare la morte”, che il medico “non deve effettuare né favorire” (art. 17 dello stesso Codice) in quanto “omicidio del consenziente” (art. 579 del Codice penale); né chiederà probabilmente che il medico si astenga dal cosiddetto “accanimento terapeutico” (il “no all’accanimento terapeutico” non gli basterà), un concetto giuridicamente inesistente (sta di casa nel Catechismo e vale per i cattolici osservanti), giacché da quello (secondo l’art. 16 del suo Codice, che non dovrebbe aver ragion d’essere) il medico deve astenersi di suo quando da un certo trattamento diagnostico o terapeutico “non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”. Il testatore “informato” darà o negherà preventivamente il suo consenso a determinati trattamenti medici (nessun trattamento, neanche salvavita, escluso) che potessero un giorno risultare medicalmente indicati, specie (ma non soltanto) nella fase terminale, in caso di una sua eventuale malattia, infermità o disabilità (il legislatore costituzionale, infatti, non ha posto, né direttamente né indirettamente, limiti all’esercizio del riconosciuto diritto soggettivo di autodeterminazione in materia di trattamenti sanitari, se non per disposizione di legge nell’“interesse della collettività”). Va da sé che nella maggior parte dei casi la negazione del consenso o la sua limitazione nel tempo riguarderanno proprio i trattamenti salvavita almeno laddove prolungano la vita oltre il suo “naturale compimento”, e tra questi anzitutto la ventilazione assistita e la nutrizione e l’idratazione artificiali.
    Nelle more, l’Ordine dei medici di Cremona assolse nel febbraio 2007, all’unanimità, l’anestesista Mario Riccio che nel dicembre del 2006 aveva staccato, come richiesto dall’interessato, il respiratore a Piergiorgio Welby, paziente cosciente e capace di intendere e di volere (“Non si rilevano violazioni del Codice deontologico”, “Welby è stato aiutato nel morire non a morire”), così come lo prosciolse dall’accusa di “omicidio del consenziente”, nel luglio dello stesso anno, il gup del Tribunale di Roma, Zaira Secchi (“Non luogo a procedere nei confronti di Riccio Mario perché non punibile per la sussistenza dell’esimente dell’adempimento di un dovere”: “… la condotta di colui che rifiuta una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciutogli in ottemperanza al divieto di trattamenti sanitari coatti, sancito dalla Costituzione”, “… l’imputato ha agito alla presenza di un dovere giuridico … di cui all’art. 51 del Codice penale” [4]). Un caso di “esercizio di un diritto” e “adempimento di un dovere” imposto da una norma giuridica, l’art. 32 della Costituzione, fonte di rango superiore rispetto alla legge penale, o di “eutanasia”?
    Nelle more ci furono, per Eluana Englaro, paziente in stato di “incoscienza”, nutrita mediante sondino naso-gastrico, prima, tra l’ottobre del 2007 e il novembre del 2008, passando per il decreto della Corte d’appello di Milano del luglio di quell’anno, le sentenze della Cassazione che autorizzarono suo padre e tutore, Beppino Englaro, e la curatrice speciale “a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale”, e poi, l’11 gennaio di quest’anno, il decreto del gip del Tribunale di Udine, Paolo Milocco, secondo il quale “la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale di Eluana Englaro non era legittima in quanto contrastante con la volontà espressa dai legali rappresentanti della paziente, nel ricorrere dei presupposti in cui tale volontà può essere espressa per conto dell’incapace”; ragion per cui il procedimento relativo all’iscrizione a notizia di reato per “omicidio volontario” nei confronti di Beppino Englaro e di altre 13 persone fra medici e paramedici – come, del resto, richiesto dalla Procura della Repubblica di Udine – fu archiviato (“Chi ha espresso tale volontà e il personale sanitario che ha conseguentemente operato per sospendere il trattamento e rimuovere i mezzi attraverso cui veniva protratto, ha agito alla presenza di una causa di giustificazione e segnatamente quella prevista dall’art. 51 del Codice penale”). Un altro caso di “esercizio di un diritto” e “adempimento di un dovere”, o un altro caso di “eutanasia”, come tuonarono, alla pubblicazione della motivazione della sentenza definitiva della Cassazione del 13.11.2008, tutti i più alti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche di qua e di là del Tevere, e non solo loro? Furono tanti e tali gli attacchi rivolti “anche da qualificati ambienti politici e istituzionali” ai giudici della Corte suprema per la loro decisione in questa vicenda – “il primo omicidio di Stato” i cui “mandanti siedono nel Palazzaccio” (Luca Volonté), “la prima esecuzione capitale della storia repubblicana” (“Scienza & Vita”), “è via libera a un omicidio” (Rocco Buttiglione), la “condanna a morte” emessa “in nome del popolo italiano” (varie le paternità) nei confronti di Eluana, “prima cittadina italiana che morirà per sentenza” (Eugenia Roccella) e così via – che il Consiglio superiore della Magistratura, su richiesta di tutti i membri togati, aprì una pratica “a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura e dell’operato delle Sezioni unite della Cassazione”.
    “Nel diritto di ciascuno di disporre, lui e lui solo, della propria salute e integrità personale, pur nei limiti previsti dall’ordinamento, non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze: il che non può essere considerato il riconoscimento di un diritto positivo al suicidio, ma è invece la riaffermazione che la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che … riguarda la qualità della vita e che pertanto lui e lui solo può legittimamente fare.” Così si legge nella sentenza della Corte d’Assise di Firenze n. 13/90 dell’8.11.1990 che condannò per “omicidio preterintenzionale” un chirurgo, poi anche radiato dall’Albo, che aveva operato un paziente, senza averne ottenuto il consenso, procurandogli lesioni seguite dalla morte. Dopo la sentenza di conferma di quella condanna da parte della Cassazione il 21.4.1992, il Comitato Italiano di Bioetica, anche in considerazione di “non del tutto episodici ricorsi alla giustizia civile e penale”, sottolineò, in un suo documento ad hoc del 20.6.1992, la “doverosità” dell’acquisizione del “consenso informato come base della correttezza stessa della pratica professionale”. Nei casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, una volta accertata la volontà attuale del primo e ricostruita la “presumibile scelta” della seconda, i medici curanti di entrambi, non essendo tutelati ulteriormente dal consenso degli interessati, erano in difetto e perseguibili per il loro rifiuto di staccare il ventilatore e di sospendere la nutrizione rimuovendo il sondino, potendosi configurare nei loro confronti il reato di “violenza privata” (previsto dall’art. 610 del Codice penale [5]); per non parlare di chi aveva in cura Giovanni Nuvoli, malato terminale di sclerosi laterale amiotrofica, che voleva “morire senza soffrire, addormentato”, e non trovò – dopo che i carabinieri, mandati dalle autorità giudiziarie, avevano bloccato un anestesista pronto a staccare il respiratore – altra strada se non quella di smettere di mangiare e di bere, per andarsene da questo mondo, una settimana dopo, aiutato solo da alcuni sedativi, con l’apparecchio in funzione.
    I naturali interpreti delle leggi, i giudici, hanno anche da noi, e, come si vede, non da ieri, metabolizzato il riconoscimento dell’autodeterminazione del paziente sorretta dai “principi”, “diritti” e “libertà fondamentali” della persona presidiati da norme costituzionali (che non necessitano di intervento alcuno del legislatore ordinario per essere operative) e da Convenzioni internazionali recepite dall’ordinamento italiano, come quella citata di Oviedo (che intende proteggere “la dignità umana da un uso improprio della biologia e della medicina”) e la Carta di Nizza (fatta per “rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce … degli sviluppi scientifici e tecnologici”), o, ultima in ordine di tempo, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13.12.2006 e ratificata dal Parlamento italiano con legge 3 marzo 2009, n. 18, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, che rivendica anche per le persone che vivono in condizioni di disabilità, all’art. 3, “Principi generali”, comma [a], “il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte” (e pensare che in Italia qualcuno vorrebbe classificare i malati in stato vegetativo come “persone con gravissima disabilità” allo scopo di potergli propinare – richiamandosi alla stessa Convenzione, art. 25, “Salute”, per cui “gli Stati Parti devono”, comma [f], “prevenire il rifiuto … di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità” – il sondino di Stato, salvo poi, snobbando la “Giornata internazionale delle persone con disabilità”, in calendario dal 1998 il 3 dicembre di ogni anno, proclamare con raccapricciante finezza il 9 febbraio, giorno della morte di Eluana Englaro, “Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi”).
    Dalle pronunce citate e da altre di organi giudiziari di ogni grado, dai gip fino alla Cassazione e alla Corte costituzionale, per dirimere controversie tra pazienti e medici si evince che il rifiuto, legittimo e vincolante per il medico, di qualsiasi trattamento sanitario, anche quando conduca alla morte (come la rinuncia all’amputazione di un arto in cancrena o il rifiuto di venire trasfuso), non va in alcun modo scambiato per un fenomeno eutanasico (l’essenza dell’eutanasia consiste nella voluta accelerazione del processo di morte), ma è finalizzato al rispetto del normale percorso biologico.
    Questi ragionamenti si fanno sempre più strada anche tra i medici e in seno al Comitato Nazionale per la Bioetica.
    Già fin dal 2006 il Codice di deontologia medica esige, con l’art. 53, il rispetto del “Rifiuto consapevole di nutrirsi”: “… Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale nei confronti della medesima, pur continuando ad assisterla”. Se il medico non deve praticare la nutrizione artificiale al paziente “consapevole” che rifiuti di nutrirsi, non si capisce – visto che “deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato … in modo certo e documentato” (art. 38 del suo Codice) da un paziente non più in grado di pronunciarsi attualmente – perché in presenza di un rifiuto documentato di tale trattamento possa sentirsi autorizzato o obbligato a procedere; tanto più che l’art. 3 della Costituzione garantisce espressamente uguali diritti a tutti i cittadini “senza distinzione” anche di “condizioni personali”, in questo caso, “consapevoli” o in stato di “incoscienza” che siano.
    Anche il Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, approvato il 24.10.2008 con la sola astensione di tre membri ma con diverse postille, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico, riconosce ormai la “legittimità” (“ammissibile sul piano giuridico”) della richiesta di “non inizio” o di “sospensione” – intanto da parte del paziente “consapevole” – anche di “trattamenti sanitari salvavita”, richiesta giudicata da alcuni membri comunque “non condivisibile sotto il profilo etico” (“c’è l’obbligo morale di vivere”), mentre altri membri la ritengono “moralmente e giuridicamente giustificabile” (“Poiché la malattia costituisce un aspetto dell’esistenza, accettare che essa faccia il suo corso rinunciando alle terapie non rappresenta la trasgressione di un imperativo morale, ma la consapevole accettazione dei limiti intrinseci all’esistenza umana”). Se in uno Stato laico, quale è pure il nostro, è dunque anche per il Comitato Nazionale per la Bioetica “ammissibile sul piano giuridico” rifiutare o limitare nel tempo “trattamenti sanitari salvavita”, il cittadino che lo desideri deve poterlo fare e deve poter contare, qualora non fosse in grado di sottrarsi autonomamente alla terapia indesiderata, sulla realizzazione della propria richiesta da parte di terzi, e ciò senza essere, per questo, bollato come adepto di una fantomatica “cultura della morte” dai fautori della vita: chi sente “l’obbligo morale di vivere” o segue gli insegnamenti di una qualunque fede, non si avvarrà di questo diritto costituzionalmente garantito, ma non può pretendere che altri facciano altrettanto in omaggio a quel suo personalissimo “obbligo”.
    Per restare ai “trattamenti salvavita”: il documento elaborato nel gennaio del 2007 dal Consiglio direttivo e dalla Commissione di Bioetica della Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale sulle “implicazioni bioetiche della Nutrizione artificiale” precisa che essa “è da considerarsi, a tutti gli effetti un trattamento medico fornito a scopo terapeutico o preventivo, … non è una misura ordinaria di assistenza (come lavare o imboccare il malato non autosufficiente)”, e che, “come tutte le terapie mediche … richiede il consenso del malato” o del “suo tutore o rappresentante legale”, concetti ribaditi dal professor Franco Contaldo, presidente della Federazione delle Società Italiane di Nutrizione, il 10 maggio di quell’anno davanti alla Commissione Igiene e Sanità del Senato, presieduta allora da Ignazio Marino, che stava vagliando le varie ipotesi di disegno di legge sul Testamento biologico e avrebbe visto, dopo la caduta del governo Prodi, fare scempio del proprio lavoro svolto, con la beffa che lo stesso senatore Marino risulta ora primo firmatario del “testo unificato” licenziato a marzo dell’anno scorso dal Senato.
    Nel documento, infine – approvato con 85 voti favorevoli, 5 contrari e 7 astensioni, del Consiglio Nazionale della Federazione Nazionale Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, riunito a Terni il 13.6.2009 per dare, in vista della ripresa dei lavori in Commissione Affari Sociali della Camera, presieduta da Antonio Tomassini, un contributo competente su alcuni aspetti particolari delle “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, i presidenti degli Ordini provinciali auspicano anzitutto che “su queste delicate ed intime materie” il legislatore voglia formulare “un ‘diritto mite’ che si limiti cioè a definire la cornice di legittimità giuridica sulla base dei diritti della persona costituzionalmente protetti, senza invadere l’autonomia del paziente e quella del medico prefigurando tipologie di trattamenti disponibili e non disponibili nella relazione di cura”. Il riferimento, ovviamente, è all’art. 3, comma 5, del testo votato in fretta e furia dopo la morte di Eluana Englaro, che all’epoca recitava: “Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità … l’alimentazione e l’idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”. La Federazione, infatti, torna, più avanti nel suo documento, su questa, più di ogni altra vexata quaestio entrando nei dettagli: “In accordo con una vasta ed autorevole letteratura scientifica, la nutrizione artificiale è trattamento assicurato da competenze mediche e sanitarie …, calibrato su specifici problemi clinici mediante la prescrizione di nutrienti farmacologicamente preparati e somministrati attraverso procedure artificiali, sottoposti a rigoroso controllo sanitario, ed infine richiedente il consenso informato del paziente in ragione dei rischi connessi alla sua predisposizione e mantenimento nel tempo. La sua capacità di sostenere funzioni vitali, temporaneamente o definitivamente compromesse, ne motiva l’impiego in ogni progetto di cura appropriato, efficace e proporzionato, compresi quelli esclusivamente finalizzati ad alleviare le sofferenze. In queste circostanze, le finalità tecniche ed etiche che ne legittimano l’utilizzo definiscono anche i suoi limiti, sui quali può intervenire la scelta informata e consapevole, attuale o dichiarata anticipatamente, del paziente”.
    Nutrizione e idratazione artificiali sono, “a tutti gli effetti”, trattamenti assicurati da competenze mediche, o sono invece “misure ordinarie di assistenza”, “cure normali”, “minimali”, “che d’ordinario sono dovute ad una persona malata” (“come imboccare il malato non autosufficiente”), “forme di sostegno vitale”, “un mezzo “naturale” [sic!] “di conservazione della vita, non un atto medico”, e via riepilogando, come vogliono i documenti dottrinali della Chiesa cattolica? Forniscono “cibo e acqua, anche per vie artificiali” oppure “un nutrimento come composto chimico … che solo medici possono prescrivere e che solo medici sono in grado di introdurre nel corpo attraverso una sonda naso-gastrica o altra modalità e che solo medici possono controllare nel suo andamento”? Ma soprattutto, fanno parte, i documenti dottrinali della Chiesa cattolica, delle “normative esistenti” in un Paese laico? Al punto di condizionare il legislatore? Dice bene l’arcivescovo emerito di Foggia-Bovino, monsignor Giuseppe Casale: fare della nutrizione artificiale “un obbligo, inserito in una legge, è arbitrario. Farne un precetto etico significa andare al di là di quella che è l’accettazione della vita” [6].
    Per tornare alla circolare ministeriale contro i malvisti “registri”: non è quella, a sua volta, una “provocazione ideologica”? Avrà il desiderato successo? Sarà un altro flop come altri tentativi di questo governo di arrestare la ruota del tempo? Qualcuno farà un ricorso al TAR come successe con l’ukase regionale del presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, e con l’“atto di indirizzo” nazionale del ministro Maurizio Sacconi, ideati per impedire l’esecuzione della sentenza definitiva della Cassazione nel caso di Eluana Englaro? Ben venga un’altra motivazione chiarificatrice come quella del TAR lombardo che bocciò il drastico provvedimento: “Il diritto costituzionale di rifiutare le cure, come descritto dalla Suprema Corte, è un diritto di libertà assoluta, il cui dovere di rispetto s’impone erga omnes, nei confronti di chiunque intrattenga con l’ammalato il rapporto di cura” – sentenza “aberrante” per il presidente Formigoni, “sentenza”, per il ministro del Welfare, “che non inficia il mio atto di orientamento generale al Servizio Sanitario Nazionale” – e quella del TAR del Lazio che invece sconfessò anche “l’atto” ministeriale: “Il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari è fondato sulla disponibilità del bene ‘salute’ da parte del diretto interessato e sfocia nel suo consenso informato ad una determinata prestazione sanitaria. Da tale premessa consegue che i pazienti in stato vegetativo permanente, che non sono in grado di esprimere la propria volontà sulle cure loro praticate o da praticare e non devono, in ogni caso, essere discriminati rispetto agli altri pazienti in grado di esprimere il proprio consenso, possano, nel caso in cui la loro volontà sia stata ricostruita, evitare la pratica di determinate cure mediche nei loro confronti”.
    * * *
    “Carta canta” – meditate, gente, meditate.

    (Ellebi)

    NOTE
    1) Costituzione della Repubblica Italiana: Art. 2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità …”; Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”; Art. 13 “La libertà personale è inviolabile …”; Art. 32 “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
    2) Convenzione di Oviedo: Art. 5 (Regola generale) “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”; Art. 9 (Desideri precedentemente espressi) “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”.
    3) Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: Art. 1 (Dignità umana) “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”; Art. 2 (Diritto alla vita) “Ogni individuo ha diritto alla vita …”; Art. 3 (Diritto all’integrità della persona) “1. Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. 2. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge …”.
    4) Codice penale: Art. 51 (Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità …”.
    5) Codice penale: Art. 610 (Violenza privata) “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni …”.
    6) Giuseppe Casale, Per riformare la Chiesa. Appunti per una stagione conciliare, edizioni la meridiana/pagine altre, Molfetta (Bari), 2010, p. 45.

  3. Ben fatto!!
    Finalmente anche a Castelnovo la libertà individuale viene legalmente sancita. La libertà di decidere di e per sè stessi viene legalizzata e di questo ringrazio la giunta comunale e chiunque in essa abbia votato a favore. Un unico, forse insignificante, appunto all’articolo. Qui, caro Ruffini, non c’entra e non ci deve c’entrare “il Partito”. Questa è una battaglia per la libertà e quindi è e deve essere APARTITICA. Un vero peccato che questa meritevole iniziativa si debba brandirla come una conquista “del partito”. Capisco la necessità di pubblicizzare il Pd in questo contesto storico del Paese Italia dove il sorpasso a sinistra da parte di Vendola e Di Pietro pare funestare i sonni dalemiani e bersaniani, ma fossi stato io avrei RIGOROSAMENTE dato i giusti meriti alla giunta comunale. Come ho già avuto modo di dire spero che tantissimi altri comuni istituiscano questo registro per dare una sferzata a chi ci governa per istituire FINALMENTE una legge che ci renda davvero PADRONI di noi stessi. A prescindere quindi dall’incensamento del Pd da parte di Ruffini, dico GRAZIE al Comune per questa lodevole, democratica e GIUSTA iniziativa. GRAZIE.

    (Fabio Mammi)

  4. Simone Ruffini, l’ortodosso
    “All’interno di un partito si può scegliere secondo coscienza senza anteporre le proprie idee alla linea politica del partito”. Se questo è il rinnovamento del Pd auspicato anche dalla senatrice Pignedoli siamo a posto.

    (Federico Tamburini)

  5. Dissenso ortodosso
    Caro Federico Tamburini, spesso parla di partecipazione e dei valori della democrazia. Tra questi vi è il dissenso e quindi le chiedo gentilmente di permettere agli altri di pensarla diversamente da lei.
    Cordiali saluti.

    (Simone)

  6. Simone…
    …il mio laconico commento ha forse originato l’impressione che fosse un giudizio, non voleva esserlo. Rispetto il tuo pensiero e quello di chi la pensa in modo differente dal mio e sono convinto che solo il confronto possa arricchire la nostra cultura personale e sociale.
    Con simpatia.

    (Federico Tamburini)